martedì 10 ottobre 2006

I quattro volti della sinistra

Chi aveva sperato che dopo il crollo del muro di Berlino la fantasia politica della sinistra, liberata dal dogmatismo marxista, avrebbe preso il potere è rimasto profondamente deluso. Se i partiti politici europei continuano a comportarsi come chi vive di rendita non è certo che i paesi europei continueranno ad essere Stati moderni, benestanti e progrediti. Sono indignato dalla totale mancanza di analisi della situazione dell'Europa nel mondo e dall'assenza di nuove idee che esplorino il politico al di là del nazionale e dell'internazionale. Dov'è la sinistra? Tace. Cosa dicono i sindacati? Sono muti. Cosa propongono gli intellettuali? Il numero selezionato non risponde. Per non essere frainteso: se qualcosa si può raccogliere a piene mani, sono le pigre contraddizioni dell'albero della "giusta" conoscenza. Per tutti i problemi che muovono il mondo - dalla tutela ambientale, attraverso gli intrecci economici e i movimenti migratori fino alle questioni dell'assicurazione regionale e globale della pace - il pensiero nazionale ha perduto la sua competenza politica. Tutto ciò che dà impulso al nazionalismo in Europa - la disoccupazione di massa, i flussi di profughi, le guerre, il terrorismo - ha un carattere ironicamente internazionale.
E allora, what's "left"? Come tante altre cose, anche l'essere di sinistra della sinistra si è in un modo o nell'altro sbriciolato, pluralizzato. Se da un lato si distingue tra "protezionista" e "aperto al mondo" e, dall'altro, tra "nazionale" e "transnazionale", si possono distinguere quattro tipi di "sinistra": la sinistra protezionista, la sinistra neoliberale ("terza via"), la sinistra-cittadella, la sinistra cosmopolita.
In tutti gli schieramenti politici le strategie ortodosse di conservazione dell'esistente sono sulla difensiva. Ovunque si rivendica la "flessibilità" - ciò che in ultima analisi significa che un "datore di lavoro" deve poter licenziare più facilmente i suoi "lavoratori". "Flessibilità" vuol dire anche ripartizione tra gli individui dei rischi dello Stato e dell'economia. I lavori disponibili diventano a breve termine, facilmente revocabili, ossia "rinnovabili". "Flessibilità", infine, significa: "Rallegrati, le tue conoscenze e le tue capacità sono invecchiate e nessuno è in grado di dirti cosa devi imparare per essere utilizzato in futuro".
Contro questa economia politica dell'insicurezza si schiera e si batte la sinistra protezionista. Il suo filtro magico, il suo antidoto è il rifiuto collettivo della realtà. Questi riemergenti fautori di un protezionismo dello Stato sociale caro alla sinistra nazionale non vogliono, semplicemente, prendere atto che la crisi dei sistemi sociali è di tipo non congiunturale. Non c'è dubbio che si tratti di una constatazione amara. Ma ficcare la testa nella sabbia di fronte alla nuova situazione economica e politica mondiale non è mai stato di sinistra. E non aiuta nessuno - al contrario: acuisce i problemi di tutti. Sta per finire un'epoca iniziata con le leggi sociali di Bismarck e che da ultimo in Europa aveva suscitato l'illusione di poter realizzare il grande compito di garantire alla maggioranza delle persone una vita in libertà e in sicurezza. Questa soluzione della "questione sociale" è ora diventata a sua volta un problema sociale. Chi, di fronte ai prevedibili cambiamenti nella composizione per età della popolazione, al decrescente volume del lavoro retribuito nel capitalismo digitale, alla sempre maggiore domanda di lavoro retribuito dichiara intoccabili la quantità e il livello delle prestazioni del welfare, mette in pericolo l'insieme. Il nazionalismo con il paraocchi della sinistra protezionista (al quale inclinano anche i comunisti e gli ambientalisti) facilita la conversione al fronte delle destre xenofobe. Infatti, nella difesa del "nazionalismo del welfare" le ideologie di destra e di sinistra si danno la mano.
La sinistra neoliberale accetta e prende sul serio la sfida della globalizzazione che viene per così dire rifiutata preventivamente dalla sinistra nazional-protezionistica. Qui si cerca un nuovo legame tra lo Stato nazionale e il mercato mondiale, che è stato espresso in particolare dal New Labour, nella forma del programma politico della "terza via". La sinistra neoliberale ricava il suo profilo proprio nell'opposizione alla sinistra protezionista. Da un lato essa vuole dare accesso alle "nuove realtà" in una politica riformatrice di sinistra. Dall'altro, però, essa - che per questo aspetto non è molto dissimile dalla sinistra protezionista - rimane legata al pensiero-container e alla concezione della politica nazionali. Chi vuole cambiare qualcosa a partire da queste premesse indiscusse deve necessariamente essere "ingiusto", ridimensionare le aspirazioni, respingere le pretese, incoraggiare l'iniziativa autonoma, battersi e impegnarsi per un'altra logica, un'altra morale della politica sociale. Per questa "necessità patriottica" del dover essere ingiusti i riformatori neoliberali dello Stato sociale possono chiedere a buon diritto comprensione e approvazione. Tuttavia, essi sono destinati all'insuccesso, perché il campo d'azione degli Stati è limitato al dilemma: o pagare la crescente povertà con maggiore disoccupazione (come nella maggior parte dei paesi europei) o accettare la povertà clamorosa in cambio di una disoccupazione un po' meno alta (come negli Stati Uniti).
La sinistra-cittadella (difficile da distinguere da una destra-cittadella) mostra i denti nell'innalzare confini contro gli stranieri. L'Unione europea difende i confini nazionali con mezzi europei. Gli Stati economicamente più potenti perseguono una politica ispirata a una doppia morale dell'economia di mercato, in quanto esigono il rispetto dei principi del libero mercato per tutti gli altri paesi, mentre proteggono i loro mercati interni dalle "aggressioni straniere". E questo non vale soltanto per la concorrenza economica, ma anche e soprattutto per l'immigrazione. Anziché vedere in una politica mirata dell'immigrazione un vantaggio strategico per l'Europa che sta invecchiando drammaticamente, si valuta per intero l'immigrazione in modo negativo e le si risponde con l'edificazione della "fortezza Europa" - con il grande consenso di tutti i partiti e i governi "europei".
La sinistra cosmopolita è, secondo molti, una sinistra idealista senza apparato di partito, senza chance di potere. Tuttavia, sussiste una nascosta affinità elettiva tra la questione del potere e la questione della giustizia. Forse, si può addirittura affermare che la questione della giustizia è diventata sostanzialmente una questione di potere - questo vale nel quadro nazionale ma anche nel rapporto al contempo locale e mondiale tra le culture e tra le religioni. Rinunciare all'utopia significa rinunciare al potere. La dichiarata mancanza di utopia è un assegno in bianco all'autorinuncia della politica alla politica. Solo chi riesce a entusiasmare ottiene consenso e potere. La riscoperta della questione della giustizia è in fin dei conti più realista del cosiddetto realismo dei pragmatisti privi di grandi visioni. Essa però presuppone un altro concetto della politica, ossia un concetto non nazionale. La domanda chiave, cioè come si possano arginare politicamente i rischi sfrenati dei flussi di capitali diffusi in tutto il mondo, si pone a tutti i governi e a tutti i partiti politici. Perché, allora, non fare entrambe le cose: risparmiare inflessibilmente e sviluppare ed esplorare una nuova politica transnazionale per creare così il presupposto dell'organizzazione dei mercati mondiali e la soluzione dei problemi nazionali fondamentali? La risposta alla globalizzazione consiste in una migliore coordinazione internazionale della politica nazionale, in più forti controlli sovranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nell'eliminazione del dumping fiscale, in una stretta collaborazione tra le organizzazioni transnazionali e nel loro rafforzamento, nel senso di una maggiore mobilità politica e legittimazione democratica. Sono vie, anzi le uniche vie, per restituire alla politica efficacia a livello nazionale. Ecco la strada più lunga: il realismo cosmopolita. Un dare e ricevere multilaterale, nel quale alla fine ognuno può risolvere meglio i suoi problemi nazionali.
Il vuoto di legittimazione dei gruppi industriali transnazionali è palese, ed essi temono la fragilità dei loro mercati che ne deriva. Non pagare tasse e cancellare o trasferire altrove posti di lavoro alla lunga non dovrebbe bastare per creare nuova fiducia e stabilizzare i mercati. Perché allora non perseguire la strategia politica combinata: da un lato abbassare il costo del lavoro e, dall'altro, sollevare pubblicamente la questione di quale contributo offrano alla democrazia in Europa le imprese che danno sempre meno lavoro e realizzano profitti sempre più alti? Perché non riconoscere la pluralità dell'autonomia precaria e renderla calcolabile per gli individui con una politica sociale di sicurezza fondamentale (assistenza sanitaria e previdenziale indipendente dal reddito, finanziata da tutti)? È questo il compito erculeo di fronte al quale una sinistra cosmopolita può sviluppare il suo profilo e la sua autoconsapevolezza, dando buona prova di sé.
Il rinnovamento dei contenuti della politica è la via maestra per il rinnovamento del potere della politica. Dunque, non c'è soltanto un cosmopolitismo idealistico, ma anche un cosmopolitismo capace di elaborare strategie per il potere. Anche l'assolutamente cinico Machiavelli nel perseguire le sue strategie di ottimizzazione del potere dovette convertirsi all'idealismo.
Molti si trincerano, si arroccano e recitano i rosari del postmoderno - "fine della politica", "fine della storia", "insensato", "troppo tardi" -, mentre attorno a loro il politico irrompe di nuovo. Ma questa nuova irruzione avviene proprio all'insegna di un nuovo concetto del politico, che bisogna saper riconoscere, cogliere, sperimentare. Una politica economica "moderna" dovrebbe quindi rispolverare anche nella cooperazione transnazionale di fronte all'economia mondiale l'abicì della politica, cioè il principio che la ricchezza genera l'esigenza di diritti e di giustizia e perciò responsabilizza i potenti. La politica predominante, che tende a radicalizzare le disuguaglianze e a smantellare il diritto, corre senza freni e inevitabilmente verso il muro della mancanza di consenso. Questo intendeva l'ex primo ministro spagnolo Felipe Gonzales, quando diceva: "Noi (socialdemocratici) governiamo ovunque in Europa, ma non siamo al potere". È passato un bel po' di tempo.

di Ulrich Beck da la Repubblica del 10 ottobre 2006

(traduzione di Carlo Sandrelli)