martedì 18 dicembre 2007

Ferrero:: la mia radicalità? Seguo il vangelo di San Matteo

ROMA — Essere radicali? Un insegnamento evangelico, prima ancora che politico: avere «fame e sete » di giustizia, sostenere i perseguitati, seguire il Vangelo di Matteo quando raccomanda «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno». Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, valdese e esponente di Rifondazione, esordisce con un libro dedicato all'immigrazione (Fa più rumore l'albero che cade che la foresta che cresce, per Claudiana, con una prefazione di don Luigi Ciotti). E lo dedica alla nonna paterna, Elena Margherita Ferrero, «ragazza madre emigrata negli Usa».

Ministro, nelle sue posizioni su immigrati, welfare, sicurezza, spesso più radicali di quelle «ufficiali » del governo Prodi, conta di più la sua identità di evangelico o quella di partito?
«Essere stato alla guida dei giovani evangelici (la Federazione giovanile evangelica italiana; ndr) è stata l'esperienza più importante per la mia formazione, insieme al lavoro in fabbrica. Diciamo che la matrice evangelica sta prima e quella politica viene dopo... Non ho paura della parola "radicale", ma sinceramente credo che il quadro politico italiano sia talmente moderato che spesso anche idee di semplice buonsenso appaiono estremiste. Mi definirei un comunista riformato, non stalinista...».

La prima parte del suo libro è dedicata alla storia di famiglia e a quella delle migliaia di valdesi che dalle montagne del Piemonte partirono per cercare fortuna in America. Perché è così importante per lei?
«Perché è la mia storia, ma anche la storia di questo Paese. Oggi, la metà degli immigrati in Italia è fatta di donne, le nostre "badanti". Quando le vedo, non posso fare a meno di pensare alla loro infelicità per i figli lasciati a casa, a migliaia di chilometri. È la stessa di mia nonna: quando tornò a casa, mio padre non la riconosceva e voleva restare con la zia».

Come è accaduto che l'Italia, Paese di emigranti per eccellenza, abbia dimenticato in così poco tempo le sue valigie di cartone?
«Negli anni Settanta c'era poco razzismo, dopo è tornato, perché operai e sindacati sono stati sconfitti. È una guerra tra poveri, una terribile rimozione collettiva... Sono stato a Lampedusa, ho visto quel luogo di disperazione, dove ormai approdano quasi solo donne e bambini in fuga dalle guerre. E dico che Ellis Island, che i miei nonni chiamavano in patois la goulo daa loup, cioè "le fauci del lupo" era più civile, così come la Germania degli anni Cinquanta, dove un italiano poteva arrivare col visto turistico, farsi assumere in fabbrica e diventare residente».

Lei propone più diritti per gli immigrati, in particolare per i bambini che nascono in Italia. Pensa che l'Italia abbia un debito verso queste persone?
«Certo. Producono il 5% del nostro Pil, circa 75 miliardi di euro, e noi investiamo 50, 100 milioni all'anno per loro... Eppure cento immigrati delinquenti si vedono di più di tre milioni di persone che lavorano. Mia nonna è tornata a casa con qualche baule di regali, un po' di soldi e una macchina Singer che mia madre ha usato per cucire fino a poco tempo fa. Vorrei che a loro andasse un po' meglio».

di Vera Schiavazzi da Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2007

lunedì 17 dicembre 2007

Se la carità sostituisce lo Stato

Il grande obolo di Stato alla chiesa cattolica, che ogni anno costa circa cinque miliardi di euro ai contribuenti, ha anche un volto e uno scopo nobili: la carità. Le fonti della Chiesa parlano di mezzo miliardo di euro speso dal Vaticano e dalle conferenze episcopali per opere di assistenza in tutto il mondo. La quota più consistente arriva dalla Cei, la conferenza episcopale italiana, che destina il 20 per cento del miliardo ricevuto con l´ «otto per mille», oltre 200 milioni di euro, in assistenza e carità: 115 milioni in Italia e 85 milioni nelle missioni all´estero. Ma il flusso di carità della Chiesa avviene anche attraverso altri canali, come la Caritas internazionale, il fondo papale della Cor Unum, le associazioni di volontariato e perfino la banca vaticana, lo Ior, e la prelatura dell´Opus Dei, più note per attività meno benigne.
Si può discutere se si tratti di tanto o poco rispetto al costo complessivo della chiesa cattolica per gli italiani. Si potrebbe forse fare di più, come sostengono molte voci cattoliche. Ma nei fatti in alcune realtà parrocchie e missioni cattoliche sono rimaste sole a presidiare i confini più disperati della società, quegli stessi dai quali lo stato sociale si ritira ogni giorno.
All´origine dei molti regali e favori fiscali concessi alla Chiesa, soprattutto negli ultimi vent´anni, dopo la revisione del Concordato, non ci sono soltanto il frenetico lobbyismo dei vescovi e la rincorsa di tutti i partiti al pacchetto di voti cattolici, ormai esiguo in termini assoluti (le ricerche citano un 6-8 per cento) ma sempre decisivo. Esiste un tacito patto per cui, mentre lo stato smantella pezzo per pezzo il welfare, la chiesa s´incarica del «lavoro sporco», di tappare le falle più evidenti e arginare la massa crescente di esclusi senza più diritti, garanzie, protezione.
Basta girare le città italiane per vedere quanto sia estesa la rete di supplenza. Le parrocchie sono diventate in molti casi i principali centri di accoglienza per gli immigrati, gli uffici di collocamento per stranieri ed ex carcerati, i consultori per le famiglie che hanno in casa un nonno con l´Alzheimer, un figlio tossico, un parente con problemi di salute mentale. I centri Caritas della capitale sono gli unici punti di riferimento e di ricovero del «popolo della strada», senza tetto, mendicanti, alcolisti abbandonati dallo stato e dalle famiglie. Svolgono un ruolo prezioso di raccolta dati per segnalare le nuove emergenze, come la povertà giovanile italiana, la più alta d´Europa.
L´incapacità dei governi di elaborare una seria politica dell´immigrazione, oltre le sparate populiste, ha delegato nella pratica ai preti la questione sociale più importante degli ultimi vent´anni. A Milano, personaggi come don Colmegna svolgono di fatto il ruolo di «sindaci ombra» nelle periferie ormai popolate in larga maggioranza da immigrati. E non sono soltanto le politiche sociali a mancare. La comunità di Sant´Egidio a Roma è diventata un punto di riferimento internazionale per le politiche nei confronti dell´Africa e del Sud America, certo più consultata in materia della Farnesina. La stessa iniziativa della moratoria contro la pena di morte, l´unico momento in cui la politica estera italiana abbia ricevuto attenzione oltre i confini, è partita dalla comunità con sede in Trastevere. Il Patriarcato di Venezia, in particolare con l´arrivo del cardinale Scola, ha intrecciato una fitta rete di scambi culturali con l´Islam. Franato con i muri il terzomondismo della sinistra, avvelenati i pozzi della solidarietà laica nello «scontro di civiltà», ormai è l´organizzazione cattolica a detenere quasi l´esclusiva dei problemi del terzo mondo, anche quello di casa nostra.
La formula è «soldi in cambio di servizi». Privilegi fiscali, esenzioni, pioggia di finanziamenti a vario titolo ma per delegare al mondo cattolico un lavoro sporco che lo stato non vuole e non sa fare. Alla fine è sempre questa la giustificazione all´anomalo rapporto economico fra stato e chiesa, al di là delle improbabili contestazioni delle cifre (che sono quelle). Il discorso è logico ma lo scambio è diseguale. Lo stato non ha nulla da guadagnare nell´ammettere la propria inettitudine. Come spesso accade, sono proprio alcuni intellettuali cattolici a rilevarlo.
Nella società spappolata dagli egoismi, come appare nell´ultima rapporto del Censis, secondo Giuseppe De Rita il ruolo di supplenza della chiesa cattolica si è evoluto fino a conquistare il cuore dei rapporti sociali: il campo dell´appartenza. «La chiesa è l´unica ormai a capire che si fa sociale con l´appartenenza. Non si tratta soltanto di fornire servizi ma anche accoglienza, valori di riferimento, identità. Un tempo in Italia erano molte le classi di appartenenza. Se penso al Pci nelle regioni rosse o ai grandi sindacati, alla rete delle case del popolo, alle cooperative, questo mondo è scomparso in gran parte, la mediatizzazione della politica ha cambiato i termini della questione. Oggi se Veltroni vuol lanciare il Partito Democratico pensa a un evento, ai gadget, alla comunicazione, ma non è la stessa cosa. Lo stato italiano, a differenza di altri, non ha mai saputo creare appartenenza e per questo non è in grado di fare politiche sociali efficaci, per quanto costose. I comuni sono l´unica appartenenza politica degli italiani». Non è un caso che siano proprio i comuni, i sindaci, a entrare più spesso in conflitto con la supplenza del clero, per esempio nella vicenda dell´Ici. Ma non è paradossale che una società sempre più laicizzata affidi compiti così importanti al clero? La risposta di De Rita è netta. «E´ vero che la religione cattolica in quanto tale è in crisi. Le scelte individuali ormai prevaricano le indicazioni dei vescovi. La vera forza della chiesa non sta nel suo aspetto pubblico, mediatico, politico, ma nell´essere rimasta l´unica organizzazione con un forte radicamento nei territori e una pratica sociale quotidiana. Una pratica di solidarietà che molti laici non hanno, me compreso. La chiesa di Ruini è un altro discorso».
Ma come la pensa chi al sociale ha dedicato la vita? Don Luigi Ciotti s´incarica di combattere da quarant´anni, attraverso il Gruppo Abele e poi Libera, tutte le guerre che la politica considera perse: contro la povertà, le mafie, le dipendenze, la legge non uguale per tutti, i ghetti carcerari, le periferie insicure, le morti in fabbrica. Con il sostegno della chiesa, ma non sempre. Fu processato in Vaticano quando da presidente della Lila sostenne che l´uso del preservativo per non trasmettere l´Aids era un atto d´amore cristiano. E ancora quando parlò dal palco di Cofferati davanti ai tre milioni del Circo Massimo. La sua è una testimonianza in primissima linea. «In quarant´anni ho imparato che una società felice è quella dove c´è meno solidarietà e più diritti. La bontà da sola non basta, a volte anzi è un alibi per lasciare irrisolti i problemi. Questa bontà ci rende complici di un sistema fondato sull´ingiustizia, che poi delega a un pugno di volontari la cura delle baraccopoli perché non diano troppo fastidio. I volontari del gruppo Abele, di Libera, cattolici o no, non hanno certo rimpianti per la vita che si sono scelti, era tutto quanto volevamo fare. Ma non che potevamo fare. Si ha sempre l´impressione di rincorrere i problemi. La questione è reclamare più giustizia, non offrire come carità ciò che dovrebbe essere un diritto». La chiesa con i suoi interventi pubblici sembra richiamare l´attenzione più sui temi sessuali o sulla famiglia che non sulle questioni sociali, o è un pregiudizio anticlericale? «La Chiesa è fatta da uomini e ospita di tutto, anche mondi assai distanti fra di loro. Ma è vero che l´attenzione dei media e della politica si concentra soltanto su alcuni aspetti, Per esempio, se i vescovi criticano i Dico la polemica dura anni. Se invece Benedetto XVI si scaglia contro il precariato giovanile, la sera stessa la notizia sparisce dai telegiornali. Molti nella chiesa pensano di più agli aspetti spirituali e considerano che la giustizia non sia di questo mondo. Io non l´ho mai vista così. Penso che la strada per il cielo si prepara su questa terra»

di Curzio Maltese da la Repubblica del 17 dicembre 2007

venerdì 14 dicembre 2007

Ehi!

Come siamo frettolosi e snob davanti al primo ten­tativo della galassia delle si­nistre di mettersi assieme. Pare che i più scafati manco siano andati a vedere. Eppure non ci sono alternative, o si lascia la sfera politi­ca a Veltroni, e noi ci contentiamo di essere, se va bene, frammenti interessanti e intelligenze o mozioni, o si ricomincia a parlarsi «per». Per fare assieme qualche cosa che freni la de­riva alla centralizzazione sfrenata del dominio del denaro e delle merci che ci frantumano ciascuno nel sin­golo e nei pochi. Raramente in transi­torie masse.

Si dirà: ma in fondo da questa par­te del mondo ce la caviamo, perlo­più abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare, un po' di compassione per gli esclusi. E vero, mettere un freno al meccanismo mondialmente in atto è impellente dove esso produce subito morte, e non è il nostro caso. Non per l'assolu­ta maggioranza di noi, e delle minoranze miserabiliste chi se ne frega? Così alla cancellazione della Cosa Rossa - espressione cretina - da par­te delle maggiori testate (eccezione Rai1) sì è aggiunta la freddezza no­stra, coperta dai quattro morti della Thyssen, come se un incidente del la­voro di questa natura non fosse un evento messo in conto dal meccani­smo oggi dominante.

Non sono d'accordo. Per quel che so, la riunione di sabato e domenica non ha dato che una risposta, la deci­sione di lavorare assieme, obiettivo minimo non andare dispersi alle prossime elezioni, non molto ma me­glio di niente, obiettivo massimo, ma poco interrogato, diventare un partito. Per dir la verità, oggi è lo stes­so, e lo sarà fin che manca una elaborazione comune sul punto in cui sia­mo e un tentativo comune di inter-pretazione delle diverse soggettività presentì, di quel che ciascuna mette nelle diverse sigle o movimenti, per cui uno o una stanno in questo e non in quello. Ma una cosa è starci come un tassello di un mosaico com­plesso, sulla cui natura e destino si moltiplicano gli interrogativi, un'al­tra è starci in soddisfatta autosufficienza. Se questa sembra finita - an­che per le insigni zuccate prese - un lavoro assieme può cominciare. Anche con le femministe, che vengono da molto lontano e in questo primo incontro hanno contrapposto a un ri­tuale un altro loro rituale, facendosi rispondere da rituali parole, ma che per pesare davvero dovranno dimo­strare come non ci sia cespuglio del paesaggio politico in cui siamo che non sia traversato dal conflitto fra i sessi, anch'esso in via di mutamen­to. Conflitto che - ha ragione Dominijanni - non va ridotto a preferenze sessuali, che appartengono e devo­no restare all'individuale libertà. La­sciamo l'elenco al Vaticano. Fame delle figure o tipologie sociali condu­ce dritti, credenti o non credenti, a qualche Malleus Maleficarum (alias caccia alle streghe).

Per conto mio, la prima urgenza è garantire un'area, un perimetro, una disponibilità dentro alle quali parlar­si, rispondersi, cercar di costruire una piattaforma che conti sulla sce­na delle idee, su quella sociale e su quella istituzionale. Dei limiti di que­st'ultima si può dire molto, ma sen­za di essa conta di meno, così come ridursi a essa significa tagliarsi radici e canali di alimentazione.

Tema prioritario? Secondo me capire come i soggetti singoli e collettivi siano prodotti o intaccati o condizionati, o resi meno liberi, dal meccanismo economico-politico dei po­teri oggi mondialmente dominanti. Meccani­smo articolato, in mutazione, produttore di lacerazioni anche interne, ineludibile. Ma a sua volta condizionato dalle soggettività che innesta o con le quali si scontra.

La vecchia storia, Mane sì Marx no, si misu­ra su questo criterio. Non è riconducibile, co­me si usa, alla «questione del lavoro». Per contro, una soggettività non si misura su un'altra soggettività, ma tutte e due con, per così dire, la pesantezza del mondo.

Non vedo difficoltà per chi sta oggi attor­no a Rc o al Pdci, salvo finirla con la negazio­ne o riaffermazione di un «da dove venia­mo» (che sarebbe l'ora di guardare in faccia invece che celebrare o esecrare). Né vedrei difficoltà negli ecologisti: come O'Connor, ma anche senza di lui, sanno bene quanto delle razzie contro gli equilibri naturali o am­bientali dipenda dal denaro e dalla mercifi­cazione generale.

La battaglia per l'ecosistema non ha avversari diversi da quelle per/contro il lavoro sa­lariato e contro le guerre. Quanto ai movi­menti, la loro filosofia rende più semplice aderire a tutto o a questo o a quello mantenendo un'indipendenza. Lo stesso vale per la causa delle donne, che peraltro non si esauri­rà mai neanche nella più complessa e raffina­ta delle politiche - il femminismo sa bene che non è «una delle» esperienze, è costituiva della specie umana. Credo infine che anche i nostri giornali dovrebbero mettere a dispo­sizione non la loro autonomia ma le loro te­ste.

Dimenticavo la questione del leader. Beh, il leader viene ultimo. E dovrebbe lavorare come lo stato, alla propria estinzione ... è il peggio del famoso partito. Per ora non me ne occuperei.

di Rossana Rossanda da il Manifesto del 12 dicembre 2007

mercoledì 12 dicembre 2007

C'è la sinistra. Il resto verrà

Intanto è partito. Sì, ma avrebbe dovuto mettersi in moto tempo fa, quando tutto già sembrava pronto. E magari i binari erano anche un po' più sgombri. Però, quel treno è partito. Sì, ma ancora non si sa se ce la farà a portare a destinazione tutti i vagoni. Ancora non si sa, se e come i passeggeri troveranno posto a bordo. Però, intanto, è partito. Nel parterre della Fiera di Roma - della nuova Fiera di Roma, a metà strada fra la città e l'aeroporto, anche bella col suo profilo ondulato ma che sembra fatta apposta per ridare attualità alla vecchia definizione di cattedrale nel deserto -, nel parterre della Fiera di Roma, si diceva, dove domenica è nata "la Sinistra l'Arcobaleno", potevi parlare con chiunque e avevi le stesse conclusioni. Base, dirigenti, quadri intermedi, gente senza tessera, semplici curiosi (pochi, scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Nuova Fiera). Ognuno aveva la sua critica da fare. Tutte legittime e - sarebbe sciocco negarlo - tutte abbastanza fondate. Che le assemblee di sabato e domenica sono arrivate tardi, che sono state anche un po' rituali. Meno, comunque, molto meno di quel che si possa pensare. Per capire: non è stato un congresso del Pci degli anni '70. Congressi importanti per la storia di questo paese ma che comunque dovevano finire con una sintesi. Su ogni singolo problema. Con una posizione ufficiale. Qui, bastava girare per i seminari per accorgersi che il metodo era un altro. Si proponevano temi, si apriva una ricerca. In una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di cercare. Ci si parlava, ci si conosceva in una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di parlarsi. Si diceva tutto questo nel parterre. E si aggiungevano anche preoccupazioni più contingenti: legate alle diverse valutazioni sull'attualità politica delle quattro forze politiche promotrici. Sulla riforma elettorale, sul giudizio da dare di quest'anno e mezzo di governo Prodi. E chi più ne ha, più ne metta. Ma i discorsi raccolti in quell'enorme sala, finivano tutti allo stesso modo: vabbè, l'importante è comunque aver cominciato. Il resto verrà.
Lo dicevano tutti ma proprio tutti-tutti. Un concetto sussurrato, però, più che dichiarato esplicitamente. Perché se ci si pensa non è uno di quelle affermazioni che possano essere inserite nella categoria del "politicamente corretto". In questo capitolo, la formazione di un nuovo soggetto si fa partendo dai programmi, scegliendo le modalità del far politica, gli obiettivi. Se ci si trova d'accordo, si comincia. Stavolta non è stato così. C'è una base comune, è ovvio. Non dettagliatissima ma neanche banale. Ci sono obiettivi comuni e c'è un impegno a lavorare insieme. C'è molto, ma non tutto. Ma c'è soprattutto la consapevolezza che c'è bisogno di sinistra. Che avrà un futuro solo se si unisce e si ripensa.
E' l'invocazione di Ingrao, insomma. Quella richiesta che nasce dalle cose, dalla tragedia della ThyssenKrupp. Il resto verrà. Ma intanto il treno si è messo in moto.
E allora non resta che raccontare le impressioni di questa partenza. Una, è apparsa evidente a chi aveva voglia di ascoltare i discorsi dal palco, domenica mattina. Meno scontati di quello che hanno poi raccontato i giornali. Accorgendosi così che ci sono due velocità. Metafora che si adatta malissimo a quella del treno, ma tant'è. Due velocità. Una è quella imposta da chi è venuto qui a raccontare le proprie esperienze. A raccontare le proprie storie. Non solo di vertenze, non solo di "lotte". Ma anche racconti di un modo diverso di governare, di amministrare. Addirittura, nelle parole dell'amministratore provinciale di Napoli, il racconto di come la sinistra possa inventarsi un proprio progetto per far quadrare i conti pubblici. Tutte insieme queste storie, "narrano" - per usare le parole di Nichi Vendola - di una "cosa" che c'è già. Già esiste. Che addirittura sembra molto solida. Fatta dallo stesso modo di sentire, fatta dalla stessa passione, dallo stesso altruismo. Fatta dalle stesse denunce, dalle stesse analisi.
C'è poi l'altra velocità. Quella assai più lenta che segna il rapporto fra i quattro partiti. Anche questa velocità era "visibile" ascoltando i discorsi dei leader. Non c'era la stessa fretta, non c'era la stessa urgenza nelle parole dei segretari. C'è chi si è impegnato, ha chiesto agli altri analoghi impegni. Ma c'è stato anche chi ha preferito utilizzare questa tribuna per riaffermare le ragioni della propria identità. O microidentità. Chi ha preferito la citazione alla firma di un patto. Fosse anche simbolico. E c'è chi si è messo a metà fra queste due posizioni.
Diverse velocità, allora. Che hanno fatto dire a qualcuno che forse, alla fine del percorso, non ci saranno tutte e quattro le forze politiche che hanno organizzato gli Stati generali. Qualcuna avrà la tentazione di tirarsi da parte. Di inchiodarsi ai suoi simboli o magari di appellarsi ad esigenze di visibilità. Il rischio c'è. Ma non è detto che vada così. Il problema, delle prossime settimane non dei prossimi mesi, forse è tutto qui. Come "rompere gli argini", cosa inventarsi perché la prima velocità irrompa nella seconda. La trascini, le imponga un altro ritmo.
E a Rifondazione - anche di questo nel parterre erano convinti tutti, militanti o semplici "alleati" - spetta un compito ancora più difficile che agli altri. Anche qui una sensazione, una semplice sensazione. Che svela però molto di cosa sia davvero questo partito. Di come sia percepito, di come sia riuscito a trasformarsi durante questi anni. La sensazione nasce dall'ingresso rumoroso dei "no Dal Molin" durante l'assemblea. Chi ha assistito alla scena dal pubblico, ha potuto vedere in sala le reazioni più diverse. Interesse, tanto, ma anche ostilità. Addirittura in qualcuno ostilità preconcetta. Comunque scarsa dimestichezza col problema. Ma in ogni caso, gli Stati Generali non hanno vissuto alcuna tensione. Sono proseguiti aprendosi al confronto con quel movimento, con quelle istanze radicali che sosteneva. E questo, lo si è dovuto solo ai dirigenti, ai militanti di Rifondazione. A chi da anni ha scelto non solo di confrontarsi ma di essere "dentro" i movimenti. Questo lo si è dovuto a chi da anni ha dimestichezza con la spontaneità delle mille associazioni che difendono il territorio, che si oppongono alla guerra, che provano a imporre nuovi diritti. Questo è stato possibile con un partito, con un gruppo dirigente e di militanti, che parlava con persone, con uomini, donne, ragazzi, con cui poi si fanno cortei, occupazioni. Presidi. I "No Dal Molin" sono così riusciti a parlare all'assemblea, hanno chiesto più sinistra, hanno chiesto impegni. Qualcuno è stato sottoscritto, per altri si è rimasti nel vago. Resta il dato che anche chi non è completamente d'accordo, sceglie innanzitutto di interloquire con questa "cosa" nata domenica. E forse anche così può arrivare la spinta a superare le due velocità. E da quel che si è visto alla Fiera di Roma è un lavoro che graverà quasi solo sulle spalle di Rifondazione. Buon lavoro.

di Stefano Bocconetti da Liberazione del 11 dicembre 2007

lunedì 10 dicembre 2007

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

« Gli uomini nascono e muoiono uguali nei diritti »Il testo completo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

domenica 9 dicembre 2007

Ingrao: sinistra, basta divisioni

Ingrao, dicono che tu sia contrario agli Stati Generali della sinistra, cioè alla costruzione di quella che i giornali chiamano "Cosa Rossa", la nuova sinistra arcobaleno. E' vero?
Smentisco queste profezie di sventura e mi auguro che l'assemblea che si tiene alla Fiera di Roma vada nel modo migliore possibile. Naturalmente poi io ho le mie convinzioni sul cammino da compiere

Quali sono le tue convinzioni?
Innanzitutto io credo che lì siano presenti forze che sono essenziali per questo cammino. Però penso che sia necessario dare vita ad una forza compatta che scavalchi le divisioni e la frantumazione dei soggetti. Serve qualcosa che unifichi. E' essenziale superare i processi di frantumazione che non hanno aiutato le lotte della sinistra. E subito dopo questa osservazione ne faccio un'altra: se questo nuovo soggetto vuole nascere bene, prima di ogni altra cosa deve affrontare i mali grandi e crudeli che feriscono il mondo del lavoro. Io dico che la tragedia di Torino parla più di tante analisi e commenti...

Domani a Torino ci sarà lo sciopero generale. Otto ore i metalmeccanici e due ore le altre categorie. E ci sarà un corteo, credo che sarà un corteo molto grande...
Spero ardentemente che sia il punto di partenza di una nuova fase di lotte e di tutela del mondo del lavoro: di morti e di bare ne abbiamo visti troppi in Italia.

Il ministro del lavoro ha detto che bisogna cambiare la cultura del lavoro. A me sembra che sarebbe piuttosto necessario cambiare la cultura dell'impresa, non credi?
Io, nella mia modestia e ostinazione, penso che bisogna far ripartire le lotte di massa. E mettere al centro di queste lotte l'antico e cruciale tema su cui è cresciuto in questo paese un secolo di lotte. Quale tema? Quello del quale parlava una vecchia canzone che ancora ho nell'orecchio: «il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà...». Vorrei sottolineare la parola figli . Io, da vecchietto, ho sempre in mente quella canzone. E mi brucia che la redenzione invocata in quei versi tardi ancora così tanto a venire...

Delle dichiarazioni di Bertinotti che hanno provocato tante polemiche, cosa pensi?
Quando era presidente della Camera io ero più timido. Sono passati tanti anni. Non mi pare poi che Fausto sia quel terribile sovversivo che hanno raccontato i giornali borghesi...

martedì 4 dicembre 2007

Stati Generali. un nuovo inizio? Dipende

Non so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza

N on so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza. Eventi, cioè, caratterizzati dalla volontà di rappresentare un "mondo" nel suo insieme e nelle sue singole parti, nella sua generalità, appunto, e nelle sue articolazioni, nella sua complessità come nella sua interezza - perfino completezza. Sta di fatto che, da un certo punto in poi, fino ai nostri giorni, gli Stati Generali hanno cominciato a dilagare: solo in questo autunno, anzi in questo mese di novembre, se ne sono tenuti almeno una dozzina, come, tra gli altri, per citare i più politicamente significativi, quelli della cooperazione e solidarietà internazionale, quelli della sostenibilità, promosso dalla regione Toscana, quelli del Terzo Settore - ma anche, per dire, quelli delle donne Udc, quelli delle piccole e medie imprese, quelli del vino, quelli del rock piemontese. E altrettanti ne sono annunciati a venire - a Torino il sindaco Chiamparino ha annunciato i prossimi stati generali della città, per costruire un progetto adeguato di futuro per la ex-capitale dell'automobile. Una tale inflazione di Stati Generali, certo, rischia di depotenziarne il senso e di ridurne via via la portata, quella natura speciale che li distingue dai convegni, dai meeting e dalle assemblee. Tuttavia, il fascino - il valore - di questa dizione non è ancora del tutto andato perduto. Ogni volta che si convocano Stati Generali - anche i più piccoli - si comunicano, quantomeno, un'intenzione, un messaggio, una volontà non ordinarie. Si sottintende il bisogno di unire quel che c'è, tutto quel c'è di reale e di vitale, in un certo settore, campo di attività, giardino di idee. E di andare possibilmente oltre. E di iniziare una fase nuova. Naturalmente, la verifica della bontà dell'intento non potrà che essere ex-post, come si usa dire. Ci sono, anche nelle cronache recenti, Stati Generali che non sono stati nient'affatto generali - come per esempio quelli della scuola, ai tempi del governo Berlusconi, voluti con inusitata pomposità dalla ministra Moratti e rivelatisi un flop. O, al contrario, Stati Generali che hanno segnato una tappa significativa nella vita e nella cultura dei movimenti - come quelli dell'antimafia, tenutisi a Roma un anno fa. Insomma, dipende. Dipende non solo dall'impegno (in forze, energie, persuasione, intelligenza) che viene effettivamente profuso nella costruzione dell'evento, ma anche, se non soprattutto, dalla sua capacità di incontrare davvero il tempo giusto, e di diventare credibile, produttivo, ricco.
Vale, questa specie di legge, anche per gli ormai imminenti Stati Generali della sinistra. Potrebbero essere, sì, un "nuovo inizio", l'avvio di un'altra storia. Potrebbero perfino, essere un (piccolo) fatto rivoluzionario. Dipende. Dipende, anche, se non soprattutto, da quanto essi - gli Stati Generali della sinistra - riusciranno a sfuggire al controllo e a vivere di vita propria. A smentire le scontatezze, le ritualità, i riti dell'anti-ritualità, le facili previsioni, insomma le logiche tradizionali della politica e dell'antipolitica. Ad accendere, alla fin fine, una scintilla - piccola, forse, ma una scintilla vera, una luce che, prima, non si vedeva o non riusciva a prendere chiarezza. E' mai successo davvero, nella nostra storia? Ma sì, quel 5 maggio del 1789 accadde proprio questo.
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Nulla autorizzava a pensare che quel ritorno degli Stati Generali - che non erano più stati convocati dal 1614 - avrebbe così radicalmente cambiato la faccia della Francia, dell'Europa e della modernità. E' pur vero che, concretamente, la rivoluzione di Francia era cominciata, da un pezzo, e da un pezzo era drammaticamente acuita da una crisi sociale senza precedenti, nonché da una catastrofica crisi finanziaria. E' vero che l' ancièn règime era ormai arrivato alle soglie dell'implosione: che era cioè un'architettura abbondantemente marcescente, con un monarca assoluto, una classe di parassiti (i nobili e l'alto clero) che viveva, poche migliaia di privilegiati, sulle spalle e il lavoro di milioni e milioni di persone, un diritto fermo ai secoli del feudalesimo, e non poteva più reggere nel Paese che aveva nel frattempo prodotto l' Encyclopedie , riscoperto il diario dell'abate Meslier, messo in scena le commedie di Beumarchais, lanciato il grido di Emmanuel Syeyès («Che cos'è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa ha rappresentato fino ad oggi nell'ordine politico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualche cosa»). Eppure.
Vedete come la "astuzia della ragione storica" si incarica di operare, anche di nascosto, anche quando le condizioni concrete sembrano tutte congiurare per svilire un evento, o ridurlo ai minimi termini? Il re di Francia, per quanto irresoluto, conservatore, pauroso, aveva bisogno come il pane che il popolo - il popolo borghese, quello che aveva o ricchezza o cultura - si mobilitasse per salvare il suo regno dalla bancarotta: perciò, per convocare gli Stati Generali, scrisse una "lettera preliminare", colma di affetto per i suoi «fedeli sudditi», e densa di promesse «di felicità e prosperità», che nel febbraio dell'89 fu letta in tutte le parrocchie di Francia, «come un'omelia», racconta lo storico Winock. Milioni di francesi furono spinti all'entusiasmo e alla partecipazione: sembrava finalmente venuto il momento in cui i problemi - gravi e gravissimi - che affliggevano il Paese potevano essere affrontati, discussi, risolti. Milioni di persone, diversissime l'una dall'altra per condizione sociale e culturale, ma accomunate dal fatto di aver compiuto venticinque anni, di essere di sesso maschile, e di «essere compresi nei ruoli d'imposta», si gettarono a capofitto nell'impresa: parrocchie, borghi, comuni, città, baliaggi primari e baliaggi secondari, siniscalchie, corporazioni erano i luoghi dove riunirsi, per redigere i propri cahier de doléances ed eleggere i propri deputati agli Stati Generali. Con quali regole? Non c'erano, od erano pochissimo chiare - così come non era chiara la geografia della Francia dell' ancièn régime che confondeva spesso i confini delle province e l'appartenenza delle parrocchie. Quanti dovevano essere i rappresentanti da eleggere? Con quanti e quali gradi? Con norme univoche, che valevano per tutti e dovunque, oppure con una differenziazione che rispettava le specificità locali, tra comunità d'election e pays d'Etat ? Con quale sistema si doveva procedere al voto, segreto o palese? Interrogativi che furono alla fine risolti sulla base del regolamento regio, e della sua creativa interpretazione - era la scoperta di una cosa nuova, la democrazia, ed era la ricerca del suo corollario principale, la costruzione di forme e di regole. Ma, soprattutto, era il Re in persona a sollecitare tutto questo: «Sua Maestà desidera che, fin dalle terre estreme del suo Reame e dalle più umili abitazioni, a ciascuno sia consentito di poter far giungere fino a Lei i suoi voti e i suoi reclami». Parole di fuoco, pur redatte e diffuse da un uomo dedito più che ad ogni altra cosa al piacere della caccia, che però si imprimono nella testa di tutti, anche dei più diseredati, e li spingono alla lotta. «Stroncando l'ingiustizia, essi realizzano la parola del re, o così credono», scrive Albert Mathiez. «La politica, come dice Madame de Stael, è un campo nuovo per l'immaginazione dei francesi: ciascuno si lusinga di recitarvi una parte, ciascuno vede uno scopo per sé, nelle possibilità moltiplicate che si annunciano dappertutto».
E' in questo clima di straordinario fervore che si svolge la campagna elettorale, nei primi mesi dell'anno, ci si scontra sulle prerogative dei tre ordini, si eleggono i deputati, matura la coscienza del Terzo Stato di essere lui - loro, i borghesi - il vero autentico rappresentante della Nazione. Quelle che si svolgono, a pensarci un paio di secoli abbondanti dopo, sono primarie diffuse, capillari, inconsapevoli, che coinvolgono quasi ogni più piccolo angolo della Francia, scoprono i propri leader locali nelle schiere di giuristi e avvocati che affollano il "partito patriottico" (tra di essi, nell'Artois, un piccolo avvocato che difendeva i poveri e si distingueva per gli attacchi ai nobili, che si chiamava Massimiliano Robespeierre) , dividono i curati di campagna dai vescovi e una pattuglia di aristocratici liberal dai nobili conservatori, accumulano una impressionante marea di analisi e proposte concrete - come di speranze. Alla fine, dai diversi "grandi elettori" dei baliaggi, esce una nuova, gigantesca assemblea: millecentocinquaquattro deputati, 291 del clero, 285 della nobiltà, 578 del Terzo Stato. Quelli che andranno a Versailles, per gli Stati Generali.
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Ma seguiamo ancora l'astuzia della ragione storica. Quel 5 maggio cominciò malissimo, con una cerimonia d'apertura che apparve una pietra tombale su tutte le attese, le ansie, gli entusiasmi. Tutto il cerimoniale era studiato per mantenere, fin nelle minuzie fisiche, la separazione tra i tre ordini: nobili e clero vennero ricevuti in pompa magna dal re, nel suo gabinetto, quelli del Terzo Stato, costretti ad una lunghissima attesa e ad una coda interminabile, vennero fatti passare da una porticina secondaria, e si limitarono a sfilare di corsa per la camera da letto del monarca. Tutti costretti a vestirsi di nero - una specie di costume ufficiale, che doveva sancire la visibile "minorità" dei borghesi rispetto agli sfavillanti costumi degli ordini privilegiati. Poi, di fronte a loro, dopo essersi fatto attendere per ore, Luigi XVI pronunciò un breve discorso che diffidava i deputati da ogni pretesa di innovazione e li invitava, al tempo stesso, ad aprire i cordoni della borsa. A seguire, fu Necker (il Padoa Schioppa dell'epoca) a parlare: tre ore di cifre, numeri, di deficit, di tagli alla spesa pubblica. Ma forse fu proprio questa cattiva accoglienza a far scattare la molla decisiva. Se il re e i suoi ministri non parlavano di politica, sarebbero stati loro - i Comuni, questa era il nuovo nome che il Terzo Stato si dette - a impadronirsene, della politica. La sera stessa del 6 maggio i deputati del Terzo Stato si riunirono, provincia per provincia: i bretoni con Chapellier e Lanjunais, quelli dell'Artois con Robespierre, quelli del Delfinato attorno a Mounier e Barnave - e via via, scoprendo che il primo obiettivo erano le procedure, la "verifica dei poteri", cioè della validità delle elezioni, da realizzarsi in un'unica assemblea, insomma l'abbattimento di quella barriera "innaturale" che separava i deputati delle caste alte da quelli delle nuove classi borghesi e popolari. Chi ha detto che le regole non sono nulla e che la sostanza è tutto? Nello spazio di pochissime settimane, dopo estenuanti e vane trattative, il Terzo Stato maturò, proprio su regole e procedure, una nuovissima consapevolezza di se stesso e del suo ruolo storico: il 12 giugno i deputati "comuni" iniziarono da soli la verifica dei poteri e procedettero all'appello di tutti i componenti l'assemblea degli Stati Generali. Il giorno dopo, tre curati del Poitou (Lecesve, Ballare e Jallet) abbandonarono l'assemblea dell'ordine clericale e fecero il loro ingresso, tra gli applausi, nel grande salone dove era riunito il Terzo Stato - furono seguiti, pochi giorni dopo, da altri sedici parroci. La resistenza dei nobili, che pretendevano fino all'ultimo di far valere il voto per ordine invece che per testa, durò ancora qualche giorno. Ma, pensate, che cosa escogitò il piccolo Luigi XVI per annullare e bloccare il movimento: la sera del 19 giugno, dopo aver decretato l'annullamento di tutte le delibere del Terzo Stato, ordinò la chiusura della sala in cui esso s'incontrava, a causa di improvvisi e ineludibili lavori di ristrutturazione. Un mezzuccio meschino? Sì, certo. Ma da quel mezzuccio, la mattina successiva, consegue nientemeno che il giuramento della Pallacorda: nasce l'Assemblea Nazionale, nasce la Francia della libertè, egalitè, fraternitè. Tutto era già cominciato, tutto era destinato a svolgersi con velocità febbrile, bruciando mediazioni, resistenze, forze preponderanti, sconfitte tattiche. E scoprendo, quasi subito, il Quarto Stato, o incomodo, il popolo di Parigi insorta. La sera del 14 luglio 1789, la lunga gloriosa e violenta giornata della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrisse sul suo diario: Rien . Niente.
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No, non credo che gli Stati Generali dell'8 e del 9 dicembre 2007 possano produrre un fuoco paragonabile a quello che si accese quel 5 maggio del 1789. Eppure, non sarebbe male tenere quell'evento nella mente e nella memoria, non per nostalgie o goffi esercizi mimetici, non per riscoprire chissà quali irripetibili modelli, ma per sapere, molto più semplicemente, che ci sono processi reali che hanno ragione di mille miserie, e di mille apparenti "impossibilità". Che c'è sempre una possibilità di andare davvero oltre, quando si convocano gli Stati Generali. Dipende…

di Rina Gagliardi da Liberazione del 2 dicembre 2007