venerdì 31 agosto 2007

Mussi: no al corteo del 20 ottobre. Medierò perché diventi un'assemblea

Fabio Mussi prende l'iniziativa e, nell'attuale contesto, fa una proposta coraggiosa: trasformare la manifestazione di piazza del 20 ottobre contro la precarietà, promossa dalla sinistra radicale, in una grande assemblea al chiuso. «La prossima settimana — annuncia il ministro dell'Università e fondatore di Sinistra democratica — chiederò un incontro con i promotori della manifestazione e con i direttori dei quotidiani il manifesto e Liberazione (che hanno pubblicato l'appello per il 20 ottobre, ndr.)».

Per dire loro cosa?
«Che è giusto battersi perché il governo faccia di più e meglio. Ma che sarebbe catastrofica un'azione politica contro il governo. Sarebbe autolesionista per la sinistra».

E quindi?
«Proporrò di fare al posto della manifestazione una grande iniziativa di massa. Una grande assemblea in cui non si dia solo sfogo ai giusti malumori, ma si costruisca una piattaforma sul lavoro affinché la sinistra abbia il giusto peso nella coalizione».

È vero che ne ha già parlato con il presidente della Camera, Fausto Bertinotti.
«Ho avuto con lui un breve scambio di opinioni, manifestandogli le mie perplessità sulla manifestazione del 20 ottobre».

Elui?
«Non mi è sembrato insensibile».

Questa iniziativa potrebbe creare altri contrasti dentro la sinistra radicale mentre Sinistra democratica, dopo pochi mesi, già sembra sul punto di frantumarsi.
«Sinistra democratica non è un partito, ma un movimento nato il 5 maggio, dopo che, con lo scioglimento dei Ds e il progetto di Partito democratico, si è lasciata sguarnita la parola "sinistra". È un po' presto per dire che è fallito il nostro progetto».

Quindi via al nuovo partito?
«Per un partito è presto. Ma penso a una sinistra plurale unita da un patto federativo entro le elezioni amministrative del 2008».

Quali forze?
«Tutte quelle che vorranno partecipare».

Come fa a mettere insieme Sdi e Rifondazione che sono molto spesso in disaccordo?
«C'è un tavolo di base costituito dai 4 ministri (oltre a Mussi, Ferrero per Rifondazione, Pecoraro Scanio per i Verdi e Bianchi per il Pdc ndr.) che hanno scritto la lettera a Prodi sul welfare. Su questo non poteva esserci l'accordo con la Bonino, ma su altro, come la laicità dello Stato, si può trovare».

Con la candidatura di Veltroni alla guida del Pd una parte dei Ds che aveva aderito a Sinistra democratica ci sta ripensando.
«Qualcuno ci sarà pure, ma non mi risulta. Naturalmente la candidatura di Veltroni ha salvato il progetto del Pd da un puro naufragio, ma la premessa di stabilizzazione del quadro politico su cui nasce il Pd non sarà rispettata».

Perché?
«Mi chiedo, per esempio: il programma a puntate che sta pubblicando Veltroni sui giornali vale per questa legislatura o per la prossima? Se continua così è chiaro che si porrà il problema dell'attualità del programma di governo, che c'è già. Oppure: quando sento parlare di maggioranze di "nuovo conio" (Rutelli,
ndr.), vedo la voglia di sbarcare la sinistra dalla coalizione. Ma noi contiamo il 10-15% e non siamo sostituibili con l'Udc».

Domani, a sorpresa, Veltroni verrà alla festa del suo movimento, a Orvieto. Come lo avete deciso?
«Walter mi ha telefonato e mi ha detto: "Sabato sono in Umbria e ho un buco di un'ora. Che dici se vengo a farvi un saluto?". "Che sei il benvenuto". Io voglio continuare a governare in alleanza con il Partito democratico. Il nemico è il centrodestra».

Ma ora si parla di un asse tra Veltroni e il presidente della Confindustria Montezemolo. Entrambi sono per lo scambio meno incentivi alle imprese, ma meno tasse.
«Anche io penso che si possa fare, se a costo zero. Quanto all'asse mi auguro che non ci sia e che Veltroni voglia mantenere autonomia dal potere di condizionamento di Confindustria. Non mi è piaciuta la lettera di Montezemolo al
Corriere, con quella frase sullo "Stato predatore" ».

Il vicepremier Massimo D'Alema ha detto che se cade Prodi non è detto che si debba andare alle elezioni anticipate.
«Osservo che qualche mese fa aveva detto il contrario. Fa parte della fluttuazione delle opinioni. Io resto dell'idea che in un caso del genere, assolutamente non auspicabile, si debba andare al voto».

E il vostro candidato a Palazzo Chigi sarebbe Veltroni?
«Sì, il candidato del centrosinistra, ma andremmo alle urne con le nostre liste».

di ENRICO MARRO dal Corriere della Sera del 31 Agosto 2007

giovedì 30 agosto 2007

Il Pd, se c’è, batta un colpo etico

In autunno non ci sarà soltanto la Finanziaria sul tavolo della maggioranza. Una lunga serie di dossier aspettano aperti da tempo che il centrosinistra, magari con l’accordo di parte della opposizione, dia le risposte che in molti attendono. Stiamo parlando dei temi “eticamente sensibili” come qualcuno li definisce, ovvero aborto, unioni di fatto e testamento biologico, che rischiano di formare alla ripresa autunnale dell’attività politica un vero e proprio ingorgo. Se la politica ha i suoi tempi, la realtà spesso ne ha altri, e molto più rapidi. Così, dopo il caso dell’aborto delle due gemelline avvenuto a Milano, è riesploso il dibattito sulla legge 194. «La 194 ha ormai trent’anni, e li dimostra; forse le servirebbe un tagliando», si leggeva ieri sull’Avvenire, che al tema ha dedicato l’editoriale di apertura del giornale. Poi, rivolgendosi a Livia Turco, il giornale dei vescovi aggiungeva: «Le nuove tecniche mediche, e le scelte che implicano, tendono a svuotarla di senso, approfittando delle incertezze interpretative. Il ministero potrebbe fornire indirizzi e regole, stilando delle linee guida, senza toccare la legge».
Linee guida, dunque, lo stesso argomento toccato sempre ieri proprio da Livia Turco che sulle colonne del Corriere della Sera annunciava l’arrivo entro fine anno di linee guida per stabilire i tempi della interruzione di gravidanza. Analoga situazione si è registrata poco prima della pausa estiva quando, sempre il ministro della Salute, aveva invitato i parlamentari a riflettere «con rigore e sobrietà» sul tema della fecondazione assistita per evitare che i principi alla base della legge 40 corrano il rischio di essere traditi. L’invito era arrivato in occasione della presentazione al parlamento della relazione sullo stato della attuazione di quella legge a tre anni dalla sua entrata in vigore, ed era stato interpretato dal mondo cattolico come l’annuncio di una revisione delle linee guida in scadenza. Naturalmente, in breve tempo le truppe erano schierate nei rispettivi campi.
Se tutto ciò non bastasse, proprio in questi giorni si è tornati a parlare di unioni civili, dopo il pronunciamento del Tar del Veneto sui cosiddetti Pacs alla Padovana, mentre in Parlamento, sempre a ridosso della pausa estiva, è stato presentato l’ultimo testo normativo della serie, quello sui Cus. Infine, sempre alla ripresa dell’attività politica, in Senato si dovrebbe tornare a parlare di testamento biologico dopo che, in primavera, il lavoro della commissione Sanità aveva dovuto fare i conti con le spaccature nella maggioranza che avevano portato all’accantonamento di tutti i testi sino ad allora presentati in commissione e al tentativo di redigerne uno nuovo e maggiormente condiviso.
Detto tutto ciò, è facile capire come, se a ciò si aggiungono le fibrillazioni che inevitabilmente l’arrivo della Finanziaria innescherà tra le forze politiche, tra settembre e dicembre si rischia un vero e proprio ingorgo che qualcuno dovrà assumersi l’incarico di evitare. Quel qualcuno potrebbe essere il Partito democratico che potrebbe decidere di caratterizzarsi proprio su questi temi ma, allo stato, questa sembra una possibilità molto remota. Un intervento del Parlamento, e per ciò che è nelle proprie competenze anche del governo, però è urgente. Altrimenti, come già su questo giornale avevamo denunciato, sarà la magistratura a decidere perché la realtà non sempre si ferma ad aspettare i tempi della politica. E la supplenza della magistratura non è mai qualcosa da augurarsi perché espone i cittadini al pericolo di decisioni caso per caso senza valore generale e, soprattutto, perché diventa un vero e proprio manifesto della incapacità della politica di prendere decisioni.

Editoriale de Il Riformista del 30 agosto 2007

Il pericolo non è la «Cosa rossa»

Secondo i quotidiani che si rifanno ai cosiddetti «riformisti» e a Francesco Rutelli (anzitutto La Repubblica di Ezio Mauro) e quelli che tifano, con moderazione ma grande continuità, alle larghe intese tra il Partito democratico e Forza Italia, il governo Prodi sarebbe in pericolo. Ma il pericolo, secondo i due più diffusi quotidiani del Paese, sarebbe costituita dalla «Cosa rossa» cioè dalla futura e ormai vicini Federazione della sinistra e in particolare da Rifondazione comunista e dai Comunisti italiani.
A mio avviso, si sbaglia e di grosso e vorrei spiegare sinteticamente perché. Naturalmente la mia è un’opinione personale che non impegna nessuno oltre che chi scrive.
Se guardiamo con limpidezza a quello che successe in Italia dall’aprile 2006, quando si è insediata la quindicesima legislatura e il Parlamento che ne è derivato, dobbiamo renderci conto che la maggioranza di centrosinistra, incluse le forze della sinistra cosiddetta radicale, ha lavorato sempre per l’attuazione del programma costitutivo della coalizione. Ci sono state, come ci sono anche ora, differenze di tono e sfumature sull’uno o sull’altro aspetto ma le obiezioni di fronte al cammino di Prodi in occasione della legge finanziaria, di leggi anche importanti del programma sono venuti dalla sinistra dell’Unione ma sempre dalla sua destra e particolarmente dal vicepresidente Rutelli, dall’Udeur e da altre forze minori cosiddette «moderate» del centrosinistra.
Questo si è verificato a proposito dei progetti di legge sulle coppie di fatto, come su altri temi di notevole importanza e da parte di quelle cosiddette forze «moderate» ci sono stati sempre tentativi di trovare, nelle commissioni parlamentari come in aula a Montecitorio o al Senato momenti non soltanto di dialogo ma di vero e proprio accordo con parti dell’opposizione. Non c’è qui lo spazio e la possibilità di esaminare analiticamente gli esempi a cui mi riferisco ma basta scorrere la cronaca politica di quotidiani della sinistra per confermare una simile diagnosi.
E queste forze cosiddette «moderate» hanno quasi sempre attribuito alla sinistra cosiddetta radicale le ragioni delle difficoltà del governo Prodi durante i quindici mesi trascorsi dalle ultime elezioni.
Del resto, in Senato, sono state molto di più votazioni compiute da ex senatori di centrosinistra (come il presidente della commissione Difesa De Gregorio di centrosinistra passati all’opposizione che diserzioni da parte della sinistra). E in quest’ultimo caso che riguarda Fernando Rossi e Turigliatto è avvenuto da parte di senatori rapidamente espulsi dai loro partiti. Non c’è quindi, con tutta chiarezza, un progetto da parte della sinistra cosiddetta radicale di mettere in difficoltà l’attuale governo.
Rispetto a un simile quadro, che mi sembra difficile contestare, che cosa è successo nelle ultime settimane? Direi sicuramente una cosa: che l’accordo tra il governo e i sindacati sulla riforma delle pensioni ha fortemente deluso le forze poltiche che si collocano nella sinistra dell’Unione per più di una ragione. Innanzitutto perché questo accordo, dopo la pesante finanziaria del 2006 si allontana nettamente dal programma della coalizione nella sua lettera ma soprattutto nello spirito. Quindi perché non è la prima volta che la politica economica del governo Prodi sembra più sensibile agli interessi della Banca d’Italia, della Confindustria, del potere finanziario piuttosto che delle esigenze e degli interessi delle masse lavoratrici. Infine perché i lavoratori si stanno allontanando gradualmente dal governo della maggioranza parlamentare e questo ci preoccupa molto sul futuro vicino e a medio termine del centrosinistra.
Tutto questo è oggi sul tavolo del dibattito interno. Ma da questi elementi non mi pare che si possa pensare a una rapida uscita dalla maggioranza o a provocare una crisi del governo in carica. Siamo consapevoli tutti mi pare, dei pericoli di una simile scelta.

di NICOLA TRANVAGLIA da l'Unità del 2 Agosto 2007

venerdì 24 agosto 2007

A proposito di merito

La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall'illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.

Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell'educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell'attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell'autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell'anzianità aziendale.
Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l'efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all'impresa.
Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale.
Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all'Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio.
È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un'autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.
Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell'impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l'investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l'impero della meritocrazia.
A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l'egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall'accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia.
Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.
Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell'interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia.
Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell'affermazione dei diritti individuali di una società moderna.
E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea.
La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l'unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro.
Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione - in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria.
Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell'Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l'arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire).
Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

Il testo completo dell'ultimo articolo scritto da BRUNO TRENTIN per l'Unità

lunedì 20 agosto 2007

Per SD è il tempo delle scelte

Per le modifiche alla legge 30 non siamo all'ultima battaglia, la sinistra non è a Fort Alamo ma ha il dovere di tenere aperta la questione e battersi per il rispetto del programma». Anche Alfiero Grandi, attuale sottosegretario all'economia, già dirigente della Cgil e oggi in Sinistra democratica, riconosce che per il partito di Mussi «il momento delle scelte è ormai impellente». «La modifica della legge 30 è nel programma - premette Grandi - è una legge che ha introdotto un supermercato della flessibilità che si è tradotto solo in precarietà. Ma per noi flessibilità e precarietà sono concetti ben diversi».

Eppure Angius, dirigente di Sd, ha difeso la legge 30.
Le sue parole lette fuori dalla contingenza dicono semplicemente che come Sd dobbiamo fare una scelta politica. Se siamo d'accordo bene, altrimenti ognuno andrà per conto suo.

E' una scelta tra la «costituente socialista» e il «cantiere della sinistra»?
Salvi ha ragione: Sd nasce per l'unità a sinistra. Noi non vogliamo fare un quarto partitino rosso-verde. E il Pd non potrà rapportarsi come Biancaneve con i sette nani, credo che da qui a ottobre si rafforzerà molto ed è necessario che la sinistra sia altrettanto forte e capace di motivare.

Ma è d'ostacolo il riferimento al socialismo europeo?
Secondo me no. Io sono d'accordo con Angius. Altri guardano più a Sinistra europea che, se ho capito bene, anche per Rifondazione è un punto di partenza. Noi dobbiamo impegnarci tutti insieme in Italia e possiamo spenderci in Europa come vogliamo. Sdrammatizzerei anche il rapporto con lo Sdi: su diritti civili, scuola e laicità siamo completamente d'accordo. Perché non avere un dialogo organico tra noi?

Agire insieme ma su che basi?
Su tre assi fondamentali. Uno sviluppo diverso in una globalizzazione che non può andare avanti così: un altro mondo sociale, economico e ambientale è possibile. Secondo: dare a chi lavora o vuole lavorare una forte dignità in risposta a una divaricazione sociale crescente. Anche Ciampi riconosce che la finanza si sta mangiando l'economia reale. Terzo: se il Pd si unisce partendo dal leader e il resto si vedrà, noi dobbiamo fare il contrario. Dobbiamo unificarci partendo dalla linea politica e da un'iniziativa di massa la più ampia possibile.

In cui rientra o no la manifestazione del 20 ottobre?
E' un appuntamento molto delicato. I tempi non mi sembrano felici, nel pieno della consultazione dei lavoratori e del dibattito sulla finanziaria. Credo che bisogna essere molto chiari sugli obiettivi che si porrà l'iniziativa. Intanto deve rispettare due condizioni: non può essere contro il governo o contribuirebbe ad eliminare la sinistra dalla maggioranza. Manovre neocentriste, anche se velleitarie, ci sono e non vorrei dare una mano a chi parla di alleanze di nuovo conio. E poi non può creare problemi ai sindacati. Per me deve essere un'azione a sostegno dell'iniziativa sindacale e quindi della Cgil, che ha firmato l'accordo ma chiede avanzamenti nella sua attuazione.

Cosa non ti convince dell'accordo del 23 luglio?
Contraddice il programma in almeno tre punti. Si doveva abolire il «tempo determinato» senza limite: 36 mesi di precarietà sono un periodo già abbastanza lungo e l'ufficio del lavoro non può prolungarlo all'infinito. Poi c'è l'abolizione dello staff leasing, su cui anche Damiano era d'accordo e su cui il governo ha fatto dietrofront all'ultimo minuto. Ma l'aspetto che a me preoccupa di più è la liberalizzazione degli straordinari. Indebolisce la contrattazione e aumentando le ore di chi il lavoro già ce l'ha non aiuta certo l'occupazione giovanile. E' un netto arretramento che va rivisto.

Ma visti i rapporti di forza in parlamento come ottenere ciò che chiedi senza mobilitarsi?
Non siamo all'ultima battaglia. Discutiamone serenamente. Chi parla di diktat non negoziabili contribuisce a far giudicare negativo tutto l'accordo. E così non è.

D'accordo, ma come ottenere le modifiche che chiedi?
Dobbiamo agire come con la lettera dei quattro ministri. Rispettare l'autonomia di tutti ma scegliere un asse comune e andare fino in fondo. Sarebbe terribile innescare una polemica nella maggioranza e diventare parte della discussione interna al sindacato. Mobilitarsi non mi scandalizza ma non possiamo fare due parti in commedia. Lasciamo stare il sindacato che è adulto e non ha bisogno di tutori.

Ti riferisci a Rifondazione o anche ad altri?
Anche ad altri. Per sua natura la sinistra deve essere amica del sindacato, dobbiamo aiutarlo a rafforzarsi, dare nuova speranza ai tanti che vi sono impegnati. E poi dobbiamo evitare di ricompattare un centrodestra totalmente disarticolato. Per favore, evitiamo il ritorno del «Caimano». L'alternativa a Prodi è andare a elezioni difficilissime e forse nell'impossibilità di ricomporre la coalizione. Avviamo una battaglia dura ma con questo limite in testa.

di MATTEO BARTOCCI da il Manifesto del 19 Agosto 2007

lunedì 13 agosto 2007

C'è bisogno di più sinistra

Tre articoli di Rossanda, pubblicati dal Manifesto, interrogano da giorni la sinistra che sta fuori dal Pd e il Governo di centrosinistra. Molti li hanno letti e rimuginati, ne hanno parlato.
Io vorrei affrontare solo alcuni dei temi posti, i più urgenti. Anch' io penso che i tempi siano stretti, e che non vada sprecato un attimo, ma cè un notevole disordine sotto il nostro cielo, diventa essenziale per questo mettersi d'accordo almeno nel giudicare la fase che stiamo attraversando e i dati più evidenti che la connotano.

Guardando il mondo notiamo alcuni fatti: i commentatori più "quotati", e purtroppo anche tanti leaders europei, ripropongono una lettura della globalizzazione liberista come "buona occasione per tutti", rifiutandosi di vedere quanto invece le ingiustizie sociali siano cresciute e quanto la loro crescita sia connessa alla generale insicurezza e all'ampliamento di conflitti bellici; la preoccupazione rispetto ai cambiamenti climatici non si traduce in azioni concrete che ridiscutano in radice i modelli di sviluppo,di produzione,di accesso alle risorse naturali primarie; e ancora, lo sguardo compassionevole alle migrazioni di decine di milioni di esseri umani ( in India 35 milioni proprio ieri); l'aumento notevolissimo delle spese militari per nuovi sistemi di arma;il ritorno della schiavitù nel lavoro di uomini,donne, bambini; la povertà che non diminuisce finchè non si ammette che a produrla siamo noi, i paesi ricchi e capitalisti, consumatori inarrestabili di ciò che dovrebbe essere patrimonio dell'umanità. Se lo sguardo si sposta in Italia tra due mesi
( ma forse già da un pò è così) non avremo più il soggetto politico più grande della sinistra storica, riformista, riformatrice che dir si voglia, nasce invece il partito democratico, afono nel giudicare la globalizzazione e i suoi esiti, equidistante tra i lavoratori e la confindustria, paralizzato sul valore della laicità dello Stato e sui diritti civili, incerto sui propri riferimenti sociali, che chiama i cittadini alle primarie ma prepara un assetto rigidamente spartitorio tra Ds e Margherita. Anche se qualcuno, per trovare il coraggio di entrarvi, afferma che il Pd sarebbe l'ultima delle trasformazioni della sinistra storica italiana, è assai chiaro che siamo di fronte ad un partito genericamente progressista, che punta all'autosufficenza elettorale e che vuol tenersi le mani libere nella scelta delle eventuali alleanze. Un partito democratico che tende al centro. Dunque sarebbe il caso di spazzar via per sempre l'idea ( che a volte tenta anche Bertinotti) delle due sinistre. In Italia il rischio concreto è che non vi sia alcuna sinistra, se non residuale, spezzettata, incapace di rappresentanza sociale.

A questo si aggiunge un attacco forsennato, e da più parti, alle organizzazioni sindacali e al mondo del lavoro, finalizzato a mettere in discussione qualsiasi funzione di rappresentanza sociale dei lavoratori. Se sommariamente questo fosse il quadro, sincopando un po' il ragionamento, direi che c'è bisogno di più sinistra, di una critica più efficace del capitalismo, di più socialismo ( se ci intendiamo sul termine, senza farlo naufragare nella esperienza del socialismo italiano o europeo da un lato, e dall'altro dando risposte chiare a coloro che, pagando per una vita intera l' aver dato, nel tempo giusto, un giudizio sui paesi dell'est e su quella sconfitta storica, ci chiedono conto delle nostre idee in materia di libertà, di democrazia, di partecipazione). Zapatero lo chiama il socialismo dei cittadini, altri socialismo del ventunesimo secolo, altri nuovo socialismo, ecosocialismo. La ricerca resta apertissima su questo come su altri fronti.

Dinnanzi ad una sfida che ci chiama a ricostruire una sinistra in Italia, popolare e legata alla dimensione sociale e ambientale delle contraddizioni dello sviluppo, non vedere, come dice Rossanda, lo stato assai critico dei nostri rapporti con la società è un limite serio. Nessuna delle piccole o medie forze politiche o associazioni esistenti sulla sinistra del Pd, può navigare da sola, e neppure incollando insieme pezzi e pezzetti avremmo alla fine un soggetto politico nuovo e unitario. Dobbiamo lavorare insieme ad una operazione politica che nel suo farsi ci cambi tutti. Anche noi siamo dentro la crisi della politica, siamo un pezzo di quella malattia, soffriamo di autoreferenzialità, ci muoviamo quasi solo nelle istituzioni, abbiamo le nostre piccole oligarchie, crediamo di sapere cosa pensa la società senza mai interrogarla, ci dividiamo spesso e non riusciamo, da decenni, a ritrovare una pratica politica comune.

Tutto questo mi porta a dire che abbiamo bisogno di dialogare di più e in luoghi unitari, di confrontarci sui fondamentali in sedi più larghe, di non dare per scontato nulla se non vogliamo ancora una volta deludere le aspettative che una parte non piccola del popolo della sinistra (che sta in parte dentro ma in buona parte fuori dai soggetti politici organizzati) ripone in noi. La pratica politica diventa dunque essenziale. Condivido tutte le proposte alla base della Manifestazione di Ottobre, perché è vero che questo governo mettendo al primo posto il risanamento e la "crescita" ha fortemente penalizzato la redistribuzione e la giustizia sociale.
Avanzo una sola domanda. Se è con la dimensione sociale che dobbiamo riallacciare rapporti non sarebbe meglio che su quegli stessi obiettivi si ponesse mano, tutti insieme, ad una vasta campagna di ascolto da svolgersi da metà settembre a metà ottobre in tante fabbriche, nelle scuole e nelle università, nelle piazze dei piccoli centri come nelle grandi città? Giocarsi tutto nello spazio breve di una manifestazione può sembrare suggestivo ma rischia di non darci il passo giusto.

di FULVIA BANDOLI da Aprileonline del 11 Agosto 2007

martedì 7 agosto 2007

Luciano Gallino: "Ora vogliono ammazzare i sindacati"

Residuo premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. Adesso anche casta. Il sindacato in Italia è sottoposto a un pesante attacco come mai prima d’ora. E che ricorda quello che subì, negli anni 80, quello inglese.
«È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.

Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?
«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».

Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?
«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».

Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?
«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».

Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?
«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».

Il piano inclinato è l’ideologia liberista?
«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».

Ha vinto il concetto di modernismo?
«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».

Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?
«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».

Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?
«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».

Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?
«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».

Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?
«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».

di ROBERTO ROSSI da l'Unità del 6 Agosto 2007

lunedì 6 agosto 2007

Vogliono delegittimarci, ma reagiremo

Caro Epifani, ci sentiamo accerchiati? La firma sotto il protocollo, le riserve a proposito del protocollo, Fassino che non comprende le riserve, la sinistra e i riformisti, i metalmeccanici e Bonanni.
Rifaccio la domanda, sfogliando l’ultimo numero dell’Espresso, quello con la copertina dedicata a Epifani, appunto, ad Angeletti e a Bonanni....
Accuse sotto il volto dei tre segretari il titolo è «L’altra casta». E ancora «Privilegi. Carriere. Stipendi. E fatturati da multinazionale. I conti in tasca ai sindacati». Nelle pagine interne, poi, un lungo elenco di malefatte, una somma di delitti sotto il segno del potere.
Che dire del titolo, “L’altra casta”. Senza dimenticare quello all’interno, “Così potenti, così arroganti”...

Vi sentite percorsi da un brivido di indignazione?
«Sì, siamo indignati. Siamo indignati per un’operazione a freddo, senza argomenti, senza nessuna indagine, tra distorsioni intollerabili. Come se il proposito fosse: abbiamo fatto i conti con la politica, adesso tocca al sindacato. In un’altra intervista all’Unità, avevo accennato al rischio di un diciannovismo di ritorno... ».

Spieghiamo “diciannovismo”. Come novant’anni fa .
«Cioè, il tentativo di mettere alla gogna le istituzioni: prima si pensa alla politica e ai partiti, poi si passa al sindacato. Che senso vuole avere la sistemazione dentro una casta di sindacalisti e sindacati? Perché piegare a questo disegno la storia? Cito l’intollerabile dimenticanza che sta all’origine di quanto si scrive a proposito di patrimoni immobiliari. Una dimenticanza che rimuove la nostra storia e il fascismo, perché si cancella il fatto che il cosiddetto regalo delle sedi fasciste ai sindacati fu un risarcimento minimo di quanto i sindacati patirono dal punto di vista politico, umano e materiale nel ventennio. Vogliamo ricordare quante sedi sindacali vennero incendiate, devastate, distrutte? Occultare o dimenticare sono procedimenti che dovrebbero impensierire chiunque abbia coscienza democratica e quindi anche un settimanale come l’Espresso che nella costruzione di quella coscienza ha avuto sicuramente parte. Se tutto si rimuove, se tutto si azzera, si finisce con lo smarrire il senso di tante parole come “storia”, come “diritti”, come “solidarietà”... E naturalmente come “sinistra”... ».

Con argomenti che abbiamo letto e riletto sui fogli del centrodestra: i soldi dei Caf...
«Come se li avessimo cercati noi, i Caf, come se comunque non rappresentassero un servizio pubblico, utile a tanti. Un calderone inaccettabile, per concludere che il sindacato gode di un eccesso di potere. Se penso a questa accusa in rapporto al ruolo che abbiamo esercitato durante la complicata trattativa di questi mesi, devo dedurre che proprio questa forza espressa nel confronto con il governo e con le altre parti sociali si vuole colpire. Questa forza e questa autonomia... È evidente che qualcuno coltiva l’idea di una società semplificata, dentro la quale i poteri forti si contrappongono agli individui, senza più corpi di mezzo, senza più partiti o sindacati a mediare, fornendo alla affermazione del più forte sul più debole un modello tecnocratico, secondo un’ideologia liberista che riduce il mondo al mercato, spazzando via regole e rappresentanze, considerate un impiccio, un intralcio».


Se questa è la dimensione dello scontro, mi pare che la miopia non faccia difetto alla nostra sinistra, molto critica soprattutto dentro casa...

«C’è il vizio di cercare gli avversari tra i vicini, mentre probabilmente gli avversari stanno da un’altra parte. Ma in questo modo si smarrisce il senso di un’appartenenza e questo dovrebbe far riflettere la sinistra...».


Quando litigare diventa una malattia...

«Lo chiarisce Bersani...»


Quando sostiene che la parola sinistra non deve essere lasciata incustodita. È una raccomandazione che rivolge al nuovo Partito democratico...

«E a ragione. Sembra passare uno slogan: quello della contrapposizione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Mentre dovrebbe finire in primo piano ciò che nella diversità delle posizioni comunque significa “sinistra”: e cioè solidarietà, senso della giustizia, difesa dei più deboli, concezione del lavoro. Valori, che mi auguro possano appartenere a un campo più vasto, ma che sono ancora il tratto della sinistra attraverso il quale ricostruire un linguaggio comune che sia libero da chiusure, schematismi, ideologismi. Ne dovrebbero discendere programmi e scelte, che, al di là delle articolazioni, riconducono a questo linguaggio. Dovrebbe valere anche per il futuro Pd».

Speriamo. Veniamo al presente del protocollo e della firma. Firma con riserve. Fassino ha detto di non capire. Non c’è il rischio che siano in molti a non capire, di fronte a un accordo giudicato comunque “buono”?
«Prima viene il dispiacere perché con poco sforzo si sarebbe potuto garantire un profilo riformatore più alto... Se penso a quei quattro punti che abbiamo indicato... Lo staff leasing: c’era l’impegno del governo a cancellarlo. La previdenza agricola: un progetto pronto è stato accantonato. Il lavoro a tempo determinato: si deve capire che bisogna affrontare il problema del “termine”, altrimenti si apre la strada a tutti gli abusi... Sono obiettivi importanti, ma non sono una montagna insuperabile per il governo. Spero che una risposta serena alle nostre domande comunque arrivi e mi pare che la discussione nel corso del consiglio dei ministri sia stata interessante, dal nostro punto di vista».

Queste le critiche. Anche la decontribuzione degli straordinari. Poi viene il buono... Sulle pensioni siamo tutti sensibili.
«Guai a sminuire il valore di questa intesa. L’aumento delle pensioni, l’aggancio al costo della vita... Cose note. Soprattutto bisogna ricordare che è il primo accordo che pensa ai giovani, dal riscatto della laurea alla misura dei coefficienti di rivalutazione. Per questo mi chiedo perché rinunciare a un passo avanti sui contratti a termine. Per questo, per tutte queste buone cose, malgrado le critiche, abbiamo firmato, assumendoci una responsabilità di fronte ai nostri iscritti, ai lavoratori, al paese. Come non hanno fatto tante altre grandi associazioni di interessi... Il sindacato ha cercato la difesa di un interesse collettivo, che riguarda il paese nella sua complessità, con un’attenzione che dovrebbe essere di tutti. Il senso della concertazione dovrebbe vivere in questa attenzione comune».

Che pensa allora del sì di Montezemolo, a condizione che non si tocchi nulla?
«Mi fa piacere, anche se non capisco il vincolo della immodificabilità. È assurdo pensare che non si possa più toccar nulla... Anche nel merito di questioni molto particolari. Ad esempio: non capisco perché Confindustria debba difendere lo staff leasing, non capisco perché non debba mirare ad una soluzione legislativa per il lavoro a termine, argomento che si ritroverà di fronte ad ogni discussione contrattuale, perché si capisce che non accetteremo mai situazione in cui il contratto a termine non torni alla sostanza chiara di contratto a termine».

Con la firma e con le riserve, andrete a chiedere il voto di lavoratori e pensionati...
«Il voto di tutti, insieme con Cisl e Uil. Vogliamo che la consultazione sia un momento di grande democrazia, di partecipazione, di coinvolgimento, perché non chiediamo soltanto un voto. Chiediamo di parlare e di spiegare, ma anche di ascoltare: vogliamo ascoltare le ragioni del malessere...».

Ma la Cisl si vorrebbe rivolgere solo agli iscritti.
«Legittimo che chieda un voto per sé. Del resto si devono riconoscere sensibilità diverse. Noi, unitariamente, vorremmo qualche cosa di più di un semplice voto. E torno da capo. Torno agli attacchi rivolti ai sindacati, ai tentativi di delegittimazione. Ai quali si deve rispondere».

A ridar forza al sindacato sarà anche la battaglia d’autunno. Si parla di iniziative diffuse, di una manifestazione a Roma...
«Vogliamo riproporre il tema dei migranti. In Parlamento stazionano quattro disegni di legge. Tutti fermi, mentre mi pare che non si possa attendere di fronte a un fenomeno sempre più vistoso, sempre più presente nella realtà italiana. Poi ci sono i giovani, poi c’è il lavoro precario. Tante iniziative locali, una grande iniziativa unitaria, la manifestazione... Queste sono le mie proposte».

Leggendo i giornali, al di là della “casta”, si scoprono contrasti dentro la Cgil, trame tra un sindacato e l’altro. Immagine non proprio di solidarietà.
«Ogni qualvolta la politica è scossa da un terremoto, anche il sindacato ne risente. Ma è sbagliato raccontare la discussione all’interno dei sindacati e della Cgil come fosse una trasposizione banale della discussione politica. La Cgil ha dentro di sé una forte convinzione della propria autonomia».

Ma della divisione tra cosiddetta “sinistra” e “riformisti” sapete qualche cosa anche voi.
«Ricordiamo che c’è stato un voto e che non è stato unanime. Una parte del direttivo ha votato contro. Rinaldini si è astenuto. Penso che questi compagni sbaglino, ma è legittimo sbagliare. La linea è però quella indicata dal voto».

Qualcuno, però, scrive che le parti si sono rovesciate: la Cgil in balia di questa insinuante e pervasiva sinistra, che pare il demonio e ha messo nell’angolo i riformisti. E rimpiange i tempi di Cofferati, quando le distinzioni erano nette.
«Mi sembra un’analisi profondamente sbagliata che fa torto anche a Cofferati. Il pluralismo è un bene».

E comunque, si vedrà in autunno.
«Da una grande consultazione ci aspettiamo una grande legittimazione del sindacato, proprio quando il sindacato è sotto schiaffo. Recuperare una grande convalidazione democratica: questa è la sfida».

di ORESTE PIVETTA da l'Unità del 5 Agosto 2007

domenica 5 agosto 2007

Socialdemocratiche, non massimaliste le proposte di Sd su Welfare e lavoro

Ho molto apprezzato l'articolo di Lanfranco Turci e Paolo Benesperi sul protocollo Welfare. Esso ha due grandi pregi e un difettuccio.
Cominciamo dai pregi. Il primo è che entra finalmente nel merito dei problemi, analizzando la parte del protocollo relativa al lavoro in modo attento, andando oltre il quesito "abroghiamo o conserviamo la legge 30?" La verità è che il protocollo è debole anzitutto nella parte indicata da Turci e Benesperi: gli obiettivi europei in materia di formazione permanente e degli altri strumenti per realizzare la "piena e buona occupazione" (in Europa dicono proprio così), sono ben altra cosa delle modeste misure di cui si parla nel protocollo. Così come è vero che per realizzare un sistema di workfare e di flexsecurity (ormai siamo costretti a usare parole inglesi, anche perché si tratta di politiche che l'Italia non ha mai fatto) non c'è solo il problema della disponibilità delle risorse, che pure esiste, ma prima ancora di un corretto uso delle medesime. Basti pensare alle risorse del programma operativo nazionale del Fondo Sociale europeo, finora sperperate a fini clientelari, anche in tema di formazione, soprattutto nelle regioni meridionali, con politiche che per essere bipartisan non per questo sono commendevoli.
Analitico e serio è anche l'esame dei contratti di lavoro esistenti e di quelli di cui si parla nel protocollo. E qui viene il secondo pregio, dal mio punto di vista: nel merito, Turci e Benesperi dicono cose largamente condivisibili, anzitutto quando ricordano che il contratto di lavoro a tempo indeterminato deve essere la forma comune dei rapporti di lavoro: anche questa è testualmente una direttiva europea. Ma, si sa, in Italia si parla solo dell'Europa di Maastricht, ed è giusto, ma si dimentica l'Europa dei diritti. Tanto più che qui si parla di misure a costo zero; anzi, se si attuasse il giusto principio, anch'esso richiamato nell'articolo in questione, per il quale il ricorso eccezionale al contratto atipico non deve essere fiscalmente vantaggioso per l'imprenditore, come invece oggi è, ne potrebbe derivare persino un risparmio per le casse dello Stato.
Realizzare una legislazione del lavoro che contemperi la giusta esigenza dell'impresa di disporre, nei casi eccezionali previsti dalla legge, di lavoro atipico, anche a termine (nessuno sostiene che uno stabilimento balneare di Rimini debba avere dipendenti a tempo indeterminato, quando lavora solo due-tre mesi l'anno) con una tutela dei diritti dei lavoratori non solo nel mercato del lavoro, ma anche nel posto di lavoro. Da questo punto di vista la proposta di Damiano, ancorché solennemente dichiarata inemendabile senza essere nemmeno passata nel Consiglio dei Ministri, va nella direzione esattamente opposta. E valga il vero: se un contratto a termine può esser rinnovato indefinitamente anche dopo 36 mesi, purché si vada all'ispettorato del lavoro accompagnati da un sindacalista per apporre un bollo, si istituzionalizza il lavoro temporaneo come forma ordinaria del rapporto di lavoro. Ma quale giovane o meno giovane non farà il giro dei sindacati, magari gialli, per trovare qualcuno che lo accompagna a mettere il timbro, se l'alternativa è restare privo anche del lavoro a termine? Siamo seri. E' un modello asiatico del lavoro, non europeo.
Anche la parte costruttiva delle proposte dei due autori consente di approfondire e riflettere insieme: per esempio, sulla riforma del periodo di prova, che tentai senza successo di proporre alle parti sociali nel breve ma istruttivo periodo in cui fui ministro del lavoro.
Qual'è allora il difettuccio di cui parlavo all'inizio? E' quello di riporre la definizione di sinistra massimalista per chi, come ad esempio noi di Sinistra Democratica, tenta disperatamente, e finora senza successo, di proporre al governo politiche socialdemocratiche. Credo che bisogna misurarsi nel merito, prima di distribuire etichette.
La verità è un'altra, ed è tutta politica. Come è tornato a scrivere Stefano Folli su Il Sole 24 Ore, a provocare l'instabilità, e anche le tensioni sul tema del lavoro, è l'avvio del partito democratico. L'intangibilità del protocollo Damiano è diventata la metafora del fatto che il nuovo partito è davvero moderno, riformista, e in grado di raccogliere il consenso degli editorialisti dei maggiori quotidiani italiani. Si va dal coraggiosissimo Rutelli, che ha il coraggio di dire le cose che stanno scritte appunto in quegli editoriali, al giovane Letta, che ha meritato in queste settimane l'endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, all'ecumenico Walter Veltroni. A Veltroni, se partecipassi a una delle sue lezioni in corso per l'Italia sulla buona politica, domanderei se è buona politica dire una cosa quando si è all'opposizione e si fa campagna elettorale, e poi fare l'opposto quando si è al governo.
Ai compagni socialisti di tutte le componenti, infine, incoraggiato da quanto scrivono Turci e Benesperi, un suggerimento senza alcuna iattanza: un socialista non potrà essere massimalista, radicale, alternativo, e tanto meno comunista, ma almeno un po' di sinistra forse sì.

di CESARE SALVI da il Riformista del 3 Agosto 2007

sabato 4 agosto 2007

Mussi risponde all'appello pubblicato da Il Manifesto e da Liberazione

L'intelligenza politica spinge, quando si apre una crisi, a ricostituire il rapporto di fiducia tra governo e popolo.
Segnali critici ne sono venuti in questi mesi, ed è chiaro che il problema è aperto.
L'etica della responsabilità poi recita: non puoi far parte di un Governo e fare appello al popolo perché manifesti contro.
Sono perciò assolutamente interessato a far pesare la sinistra, che vale un terzo dell'Unione, nell'azione di Governo e nell'attività parlamentare.
Bisogna a questo punto certamente rendere più chiara l'agenda e le priorità del Governo, che non è un monocolore del Partito democratico.
A proposito dell'appello per la manifestazione del 20 ottobre, quella che mi interessa è una chiara iniziativa politico-programmatica di tutte le forze di sinistra.
Sinistra Democratica è pronta a discutere dei contenuti, delle forme e dei luoghi dell'iniziativa.

FABIO MUSSI

venerdì 3 agosto 2007

"Il governo così non va, uniamoci e diamogli una scossa"

"Liberazione", "il manifesto" e 15 personalità della cultura e della politica propongono una manifestazione per il 20 ottobre.
L 'attuale governo non ancora ha dato risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di fronte. E per i quali la maggioranza degli italiani ha condannato Berlusconi votando per il centrosinistra. Serve una svolta, un'iniziativa di sinistra che rilanci la partecipazione popolare e conquisti i punti più avanzati del programma dell'Unione, per evitare che si apra un solco tra la rappresentanza politica, il governo Prodi e chi lo ha eletto. Occorre fare della lotta alla precarietà e per una cittadinanza piena di tutte e di tutti la nostra bussola. Noi vediamo sette grandi questioni. Quella del lavoro: cioè della sua dignità e sicurezza, con salari e pensioni più giusti, cancellando davvero lo scalone di Maroni e lo sfruttamento delle forme "atipiche", e con la salvaguardia del contratto nazionale come primario patto di solidarietà tra le lavoratrici e i lavoratori. Quella sociale: cioè il riequilibrio della ricchezza e la conquista del diritto al reddito e all'abitare. Quella dei diritti civili e della laicità dello Stato: fine delle discriminazioni contro gay, lesbiche e trans, leggi sulle unioni civili, misure che intacchino il potere del patriarcato. Vogliamo anche che siano cancellate le leggi contro la libertà, come quella sul carcere per gli spinelli. Quindi, la cittadinanza: pienezza di diritti per i migranti, rapida approvazione della legge di superamento della Bossi-Fini, chiusura dei Cpt. La pace: taglio delle spese militari, non vogliamo la base a Vicenza, vogliamo vedere una via d'uscita dall'Afghanistan, vogliamo che l'Italia si opponga allo scudo stellare. L'ambiente: ha tanti risvolti, dalla pubblicizzazione dell'acqua alla definizione di nuove basi dello sviluppo, fondate sulla tutela e il rispetto per l'habitat, il territorio e le comunità locali. Per questo ipotesi quali la Tav in Val di Susa vanno affrontate con questo paradigma. La legalità democratica: lotta alla mafia e alle sue connessioni con la politica e l'economia. Nessuna di queste richieste è irrealistica o resa impossibile da vincoli esterni alla volontà della maggioranza. Il fallimento delle politiche di guerra dell'amministrazione Bush si sta consumando anche negli Stati Uniti, i vincoli di Maastricht e della Banca centrale europea sono contestati da importanti paesi europei o europeisti, l'andamento dei bilanci pubblici permette delle scelte sociali più coraggiose. Ma siamo consapevoli che per per affrontare tutto questo occorre che la politica sia politica di donne e di uomini - non più un affare maschile - e torni ad essere partecipazione, protagonismo, iniziativa collettiva. Per questo proponiamo di ritrovarci a Roma il prossimo 20 ottobre per una grande manifestazione nazionale: forze politiche e sociali, movimenti, associazioni, singoli. Chiunque si riconosca nell'urgenza di partecipare, per ricostruire un protagonismo della sinistra e ridare fiducia alla parte migliore e finora più sacrificata del paese.

Epifani a Prodi: «La Cgil firma, ma con riserva»

Caro Presidente,

ho ricevuto la lettera con cui hai voluto rispondere alle osservazioni di metodo e di merito fatte proprie dal Comitato Direttivo della CGIL.

Anche in relazione a questo è perciò necessario che io puntualizzi definitivamente il punto di vista della CGIL sul confronto e sul suo esito.

Innanzitutto confermo che la CGIL sottoscrive il protocollo sulla "Previdenza, Lavoro e Competitività" e ti prego di considerare questa lettera come firma formale al testo in questione.

In secondo luogo, mantengo le riserve di metodo sollevate e che trovano riscontro nella tua risposta dove affermi esservi stata una "autonoma sintesi individuata dal Presidente del Consiglio, dopo lunghi mesi di confronto con le parti sociali". Ora, proprio questo è il punto non risolto: su materie come quelle attinenti le politiche del lavoro e i riflessi contrattuali che hanno, le soluzioni da ricercare vanno condivise.
Se questo non avviene, è evidente che si creano forzature in cui qualcuno si riconosce per intero e qualcuno per una parte.

In terzo luogo, mentre sul testo del protocollo la CGIL riconosce il valore e l'importanza delle scelte definite, soprattutto in materia di aumento delle pensioni e reddito dei pensionati, di ammortizzatori sociali, di interventi verso la condizione giovanile e anche di revisione della legge Maroni - temi che sono alla base della scelta della firma - su alcuni aspetti specifici ma rilevanti delle politiche del lavoro, il protocollo compie scelte inadeguate e contraddittorie.

Mi riferisco al fatto che il riordino della previdenza agricola, sul quale era stata raggiunta l'intesa tra le parti sia stato espunto dal protocollo senza alcuna ragione; al fatto che lo staff leasing, contrariamente alle dichiarazioni precedenti del Governo, non sia oggetto di cancellazione, e alle modalità con cui la materia del contratto a termine è stata affrontata, contraddicendo la giusta esigenza di riportare in un ambito più sostenibile socialmente (e penso in modo particolare alla condizione giovanile) l'uso di questo istituto.

Per ultimo aggiungo che la scelta sulla decontribuzione degli straordinari rende lo straordinario meno costoso dell'ora di lavoro ordinaria.

Tutto questo, ovviamente, non sposta il giudizio sull'insieme del protocollo fatto di tante parti positive per giovani lavoratori e anziani. Resta però il fatto, sul quale invito il Governo a riflettere serenamente, che un profilo riformatore deve sapere rispondere anche ai problemi sollevati che riconfermiamo.

Con stima,

GUGLIELMO EPIFANI

giovedì 2 agosto 2007

Governo, c’è davvero bisogno di una grande mobilitazione

Care amiche e amici,
Questa lettera aperta è rivolta in modo particolare a quanti, sostenendo l’Unione, hanno espresso la loro preferenza per i partiti della sinistra. Al tempo stesso è una riflessione comune che credo doverosa e che forse era giusto fare anche prima.

Leggo spesso sulle pagine dei quotidiani di riferimento di questo elettorato parole pesanti e preoccupate. Non vengono da un’opposizione preconcetta, ma vengono da chi, con lealtà, sostiene il governo di centrosinistra, lo stesso governo che gli elettori-lettori di questi giornali hanno contribuito ad eleggere nell’aprile dell’anno scorso. Sono quindi parole da considerare con attenzione. E rispettare.

La critica costruttiva è l’anima di una politica vera. Sia negli editoriali che negli articoli o nei commenti ospitati su quelle colonne si legge spesso la parola “mobilitazione”. In queste ultime settimane, poi, sembra quasi che il mantra della reazione sia una sorta di “liberazione” o “manifesto” (scusate il gioco di parole), con cui la cosiddetta sinistra cosiddetta radicale si prepari ad affrontare la ripresa del dibattito politico e dell’attività di governo.

Chiariamo subito un primo concetto. Io non credo affatto all’idea di una sinistra “radicale”. Ve lo dico come leader dell’Unione e come presidente del futuro Partito Democratico, un partito che non deve essere visto come un avversario ma al contrario come un motivo in più per una coabitazione rispettosa e serena. Ho troppa stima per le donne e gli uomini che compongono la grande area della sinistra (e che stanno giustamente lavorando affinché ci sia in questa area una forma di riunificazione moderna ed europea) per considerare come “radicale” qualcosa che invece è a mio avviso estremamente “popolare”. L’idea stessa di considerarsi i difensori della società meno fortunata è un compito nobile. Specie quando si è chiamati a farlo ricoprendo incarichi di responsabilità.

La sinistra, dopo i cinque anni di devastazione sociale ed etica alimentati dal governo delle destre, ha testardamente voluto il governo di questo Paese. Ha lavorato per questo obiettivo insieme alle altre forze dell’Unione, costruendo un Programma e un’idea diversa di Italia. Ha fatto tutto questo ben sapendo che al primo posto delle emergenze c’era il risanamento dei conti pubblici. Non senza fatica ha condiviso un Dpef e una Finanziaria che hanno prodotto risultati mirabili a fronte di una nuova richiesta di sacrifici per i cittadini. Sacrifici che, anche grazie a tutti i ministri del Governo e ai gruppi parlamentari che ne rappresentano l’elettorato in Senato e alla Camera, sono stati equi e giusti, diminuendo privilegi ed ingiustizie.

Il percorso delle riforme ci ha portati nelle scorse settimane a definire con i sindacati il Protocollo sulle pensioni e sul welfare. Non è stato un atto isolato o autoritario, ma il frutto di mesi di concertazione, una parola che non vorrei venisse sottovalutata. Il governo precedente aveva imposto, noi abbiamo scelto di condividere. E’ stato così sulle grandi opere, sui temi ambientali, sulle riforme economiche. Non poteva che essere così anche sul welfare.

Non mi stupisco quando si dice che si poteva fare di più e che a settembre è necessario lavorare ancora per fare in modo che l’equità sia massima e che si cancellino i favoritismi. Ma vorrei che a quel mese di settembre si arrivasse dopo aver analizzato con trasparenza e serietà quanto è stato fatto finora in questo ambito.

Lasciatemi sintetizzare in poche parole orgogliose quanto è stato siglato il 23 luglio, una data importante. Innanzitutto è stato evitato che, il 31 dicembre, entrasse in vigore una delle leggi più arroganti di sempre, uno “scalone” di disuguaglianze e finte responsabilità. Basterebbe questo, come il Programma firmato insieme ci stimolava a fare, per considerare un successo quell’accordo. Ma non basta: abbiamo deciso di investire sul futuro dei giovani e dei meno giovani attraverso un progetto da 35 miliardi di euro in dieci anni, garantendo assegni più alti e tutele più forti. Abbiamo allargato la platea dei lavori usuranti, abbiamo limitato le pensioni d’oro, abbiamo, in buona sostanza, fatto quelle politiche sociali che la sinistra ci chiedeva il 9 e il 10 aprile del 2006 mettendo la propria croce sul simbolo dell’Unione.

Ma non è tutto. Ferme restando le esigenze di riequilibrio dei conti pubblici, l’extragettito frutto delle politiche serie di lotta all’evasione e che proprio in queste ore è stato approvato in Parlamento ci ha permesso di alzare le pensioni minime a milioni di cittadini, far riscattare la laurea senza esborsi folli ai giovani, aumentare la lotta al precariato che già è stato limitato dalle politiche sul cuneo fiscale. Certo, si può fare di più, ci mancherebbe. Ma sfido chiunque a non definire queste scelte come “popolari”.

Abbiamo ancora molto da fare e non solo su temi fiscali ed economici. Ci sono da portare a termine le riforme istituzionali imposte dalla destra, da risolvere il conflitto di interessi, da garantire il pluralismo dell’informazione e della formazione. C’è, forte, la necessità di lavorare per le sicurezze, a partire da quelle per i lavoratori. Le Camere hanno approvato una legge che abbiamo fortemente voluto ma non basta. Non è tollerabile piangere ogni giorno vite spezzate dalla mancanza di regole e di tutele. Siamo di fronte a un’emergenza nazionale che va combattuta con provvedimenti forti e controlli severi, come abbiamo iniziato a fare: in questi mesi sono stati assunti 1411 ispettori, sospese 1760 aziende prive dei requisiti di legge in materia e altre 711 regolarizzate. E non dimentichiamo che ben 143mila lavoratori sconosciuti all’Inail, metà dei quali stranieri, sono adesso garantiti.

Anche sull’ambiente abbiamo fatto solo una parte del lavoro che ci eravamo ripromessi. E che dobbiamo intensificare assolutamente dopo la pausa di agosto. prefissati. Proprio in queste ore il ministro Pecoraro Scanio ha ricordato gli impegni programmatici su Kyoto, la Legge obiettivo, la lotta all’inquinamento, le biodiversità. Tutto il governo, tutta la maggioranza devono essere “verdi”, perché è in gioco il futuro delle nuove generazioni e lo stesso sviluppo del Paese. Abbiamo investito in un piano sull’energia di grande profilo, ci siamo attivati nelle tutele e nella ricerca. Ma sappiamo di poter dare e fare di più, perché anche in questo siamo più responsabili e motivati di chi ci ha preceduto.

Per tutte queste ragioni vorrei davvero che in autunno ci fosse quella mobilitazione di cui si parla: nelle piazze, come sui luoghi di lavoro. Portando sì le vostre istanze, l’orgoglio “popolare”, gli stimoli e naturalmente anche le critiche. Ma ricordando che questo Governo merita fiducia perché in soli 14 mesi ha rimesso a posto il debito, vede ripartire l’economia e tutelare i consumatori grazie alle liberalizzazioni, non teme i giudizi europei e internazionali, combatte la propria guerra alle guerre e si batte per la moratoria sulla pena di morte. E, appunto, sta ricostruendo un sistema di welfare che non deve essere giudicato tutti i giorni da “riformisti” o “radicali” come un qualcosa da cambiare comunque.

Se potremo migliorare ancor di più le nostre azioni sociali lo faremo, statene certi. E ascolteremo con attenzione tanto i cittadini quanto il Parlamento. Ma non dimentichiamo mai, prima di giudicare o attaccare, quello che stiamo riuscendo a fare insieme dopo tanti, troppi anni bui.

di ROMANO PRODI

Unità è mobilitazione

Difendere il programma dell'Unione, sottrarre il governo all'abbraccio dei poteri forti, frenare l'emorragia di consensi: dal primo Forum promosso dai giornali della Sinistra, Fabio Mussi, Franco Giordano, Oliviero Diliberto e Angelo Bonelli lanciano un'agenda politica condivisa per l'autunno.Dalla crisi di febbraio alla nascita di Sinistra democratica, dalla lettera dei quattro ministri di sinistra al governo sul Dpef alle posizioni non sempre coincidenti sulle pensioni: il percorso unitario a sinistra in questi mesi è stato uno dei fatti nuovi della politica italiana. Non a caso, contro la sinistra dell'Unione in questo stesso periodo si sono concentrati gli attacchi (e non di rado gli insulti e i tentativi di delegittimazione) dei poteri forti, della grande stampa, dei conservatori annidati nell'alleanza del centrosinistra. Nonostante questo, Pdci, Prc, Sd e Verdi hanno continuato a lavorare nella prospettiva dell'unità a sinistra.
Promuovendo il confronto tra il segretario del Pdci Oliviero Diliberto, quello di Rifondazione comunista Franco Giordano, il fondatore della Sinistra democratica Fabio Mussi e il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli, quattro giornali della sinistra (Aprileonline, Liberazione, La Rinascita della sinistra e Notizie Verdi) hanno voluto offrire il loro contributo a un lavoro politico che ha bisogno di vivere anche nelle realtà organizzate, sul territorio, nella mobilitazione sociale che da questo forum i quattro leader annunciano per l'autunno.
Quello che segue è il resoconto del doppio giro di interventi dei quattro esponenti di Pdci, Prc, Verdi e Sd. La pubblicazione avviene oggi in contemporanea sui quattro giornali che hanno organizzato il forum: un evento "straordinario" per le nostre testate, il primo appuntamento comune. Anche questo è un piccolo passo sulla strada dell'unità.

Forum

Oliviero Diliberto (Pdci): Bisogna esser preoccupati, secondo me giustamente, ben più che per quello che riguarda noi. Bisogna essere preoccupati per quello che succede in Italia. Abbiamo un governo di centrosinistra, del quale i nostri partiti fanno parte avendo sottoscritto un programma prima delle elezioni politiche che aveva suscitato molte aspettative. Eppure, tanto più le aspettative sono state grandi dopo la vittoria (ancorché di misura) tanto più, ad una ad una, si stanno rivelando fallaci, a partire dalle questioni sociali: le pensioni e il pessimo "memorandum" sul mercato del lavoro. Anche in tema di diritti civili, non si è riusciti a fare un passo avanti nella regolarizzazione delle coppie di fatto, che pure era parte del programma. Insomma, la delusione è grande, soprattutto dal punto di vista del nostro popolo, tanto è vero che alle ultime elezioni amministrative le forze politiche del centrosinistra sono andate male. Ma non mi sembra che ci sia consapevolezza di questo nel governo.
L'impressione è che sia in corso un'operazione che sta tentando di "normalizzare" la sinistra del centrosinistra, "normalizzare" il sindacato, in particolare la Cgil. E' un'operazione che farà perdere ulteriori consensi al governo. Il rischio dunque ciclico, ahimé, è che venga chiesto alla sinistra, e al centrosinistra, di fare il lavoro sporco (risanamento dei conti pubblici) dopo di che perdiamo consenso, quindi le elezioni, e questo risanamento se lo gode la destra. Desta, inoltre, grande preoccupazione la controffensiva moderata che parte dagli ambienti confindustriali, europei, dalla Banca d'Italia, da una parte del centrosinistra che non rispetta il programma e che, in qualche caso, invoca esplicitamente cambi e/o allargamenti di maggioranza su altri versanti: operazione che avrebbero già fatto se ci fossero i numeri in questo parlamento.

A questo punto, torna la domanda classica: "che fare"? Ho l'impressione che dovremmo accentuare gli aspetti di lotta e mobilitazione sociale, senza i quali saremo assolutamente ininfluenti; e il nostro popolo ce ne chiederà conto, giustamente. In questa fase, sarebbe stata necessaria una maggiore coesione che, invece, dolorosamente non c'è stata, ma l'esigenza dell'unità delle forze della sinistra resta altissima. Quindi, al di là del giudizio sulla riforma pensionistica, che il Pdci ritiene pessima e piena d'inganni, mi sembra che ci sia un giudizio condiviso sulla riforma del mercato del lavoro che sostanzialmente istituzionalizza la precarietà e non interviene efficacemente sul tema della Legge 30.
Questa unità sul "memorandum" proviamo a spenderla nella battaglia parlamentare, fermo restando che bisognerà accentuare gli aspetti di lotta, di mobilitazione fuori dal parlamento. Perché io vedo problemi molto grandi che si accompagnano ad una prospettiva di riduzione molto forte del ruolo delle istituzioni elettive e rappresentative: parlamento e governo. Con uno spostamento fuori dalle istituzioni rappresentative dei luoghi decisionali. Inoltre, è in atto un'offensiva contro la politica che non distingue i privilegi - che vanno abbattuti - e i costi della democrazia. Per cui lo scenario è molto preoccupante. Il nostro partito, con le poche forze a disposizione, ha iniziato a mobilitarsi. Dunque, chiediamo alle altre forze della sinistra di fare un fronte comune su tali questioni: o ci riusciamo tutti insieme o saremo travolti.

Franco Giordano (Prc): Parto dalla vicenda delle pensioni e del welfare. E' evidente che questa vicenda ha un valore simbolico e un valore concreto (cioè riguarda la condizione di vita della gente). E ha a che fare anche con la questione dell'unità politica e sociale del governo. Noi siamo stati molto critici sull'aumento dell'età pensionabile, cioè sulla famosa riforma dello scalone. Ci è sembrato che il governo, nella sostanza, sia partito dal punto di vista delle destre. Si sia limitato a diluire nel tempo gli effetti dello scalone. Invece abbiamo apprezzato quella parte della riforma - sulla quale anche noi ci siamo impegnati - che riguarda l'allargamento della platea di soggetti che sono sottratti a questo elevamento dell'età pensionabile. In particolar modo, quelli che hanno 40 anni di contributi, quelli che lavorano alla catena, i turnisti, i lavoratori a vincolo, tutti i lavori gravosi. Ma se poi succede che nell'ultima stesura dell'accordo - modificata all'ultimo momento e all'insaputa dei sindacati - ci troviamo di fronte al fatto che quella platea di esenti è vincolata da una soglia di 5.000 unità, quella platea è drasticamente ridotta. Per questo ritengo che la battaglia, anche la battaglia parlamentare, per migliorare lo scalone, la dobbiamo fare tutti insieme. Mentre rimane da fortificare e acquisire il dato del rendimento delle pensioni dei giovani al 60% piuttosto del 40% come era previsto dalla legge Dini.

Sul mercato del lavoro invece le cose stanno molto male. In realtà non si è messo mano alla modifica della Legge 30 e sostanzialmente si è determinato un meccanismo che è tutto interno alla filosofia dell'impresa. Qualcuno mi può spiegare da chi sono presi i soldi per detassare il secondo livello di aumenti contrattuali che modifica significativamente il sistema contrattuale, e da dove vengono i soldi per la detassazione degli straordinari? Sono tutti presi dalla fiscalità generale. E tutti con una logica interna alla vecchia idea di competitività d'impresa e non invece investendo sulla qualità, sull'innovazione, sulla ricerca.
Credo che siamo tutti d'accordo sul fatto che dobbiamo fare una battaglia comune su queste cose. E poi c'è un problema politico più generale, che riguarda noi tutti, determinato dal salto di qualità che si è prodotto con il Partito Democratico. C'è una tolda di comando nel governo, guidata dal futuro partito democratico, e la tolda di comando propone ogni volta ricette moderate, mette in difficoltà il sindacato, costruisce un modello che riduce perfino l'autonomia contrattuale del sindacato.

Allora, se così stanno le cose, io avanzo la proposta di una mobilitazione unitaria. In autunno, mentre il Partito Democratico decide il leader, noi costruiamo una sorta di piattaforma programmatica e una mobilitazione di massa in grado di definire l'entità politico-culturale della sinistra unitaria. E io penso che debbano essere non solo i temi sociali, ma anche i diritti civili, al centro dell'iniziativa: vorrei recuperare la grande mobilitazione del Gay Pride che secondo me è stato un fattore di liberazione della società italiana. Penso a una grande manifestazione unitaria, positiva.

Infine, uso la metafora che usa spesso Fabio Mussi: usciamo dalle trincee, ma usciamoci veramente tutti. Il mio partito è pronto oggi a costruire un soggetto unitario e plurale. Vogliamo definire qui gli stati generali della sinistra nel mese di settembre ed organizzarli per prospettare questa ipotesi, facendo nascere una mobilitazione ed una partecipazione popolare e contemporaneamente costruendo le condizioni per una soggettività politica che viaggia di pari passo? Questa è la mia proposta.

Angelo Bonelli (Verdi): A me convince molto quello che ha detto Giordano, cioè di fare in autunno una fase di mobilitazione. Le realtà che si confrontano oggi a questo tavolo hanno determinato e costruito le grandi mobilitazioni per la pace, per la difesa dell'ambiente, sull'acqua. Abbiamo dato già una grande dimostrazione di avere punti di contatto. Ora io raccolgo la proposta di una grande mobilitazione in autunno. L'elettorato di centrosinistra è molto critico e disilluso non solo nei confronti del Partito Democratico, ma anche nei nostri confronti: i risultati elettorali delle ultime amministrative, da questo punto di vista, riguardano tutti. Ecco perché dobbiamo fare e bene questo lavoro di recupero di partecipazione. Dico solo, attenzione: se vogliamo aprire una stagione di mobilitazione la mia unica preoccupazione è di evitare di aprire ulteriori conflitti all'interno del governo. Io vedo una stagione in cui c'è una capacità di proposta riformatrice di una sinistra che sappia anche innovarsi dal punto di vista del suo linguaggio, sappia modernizzarsi, sappia fare delle proposte, sappia rappresentare quei bisogni che classicamente una certa economia non riesce a rappresentare.
Infatti, non è solamente la questione del precariato su cui noi diamo un giudizio estremamente negativo. Il governo aveva detto di voler collocare la questione delle pensioni con la questione delle precarietà. In realtà con il "protocollo su welfare e mercato del lavoro" questo non è avvenuto. Dobbiamo dunque mettere il punto su questo tema del superamento della precarietà in coerenza con il programma dell'Unione.

Ma c'è un aspetto che vorrei sottoporre alla vostra riflessione, già Diliberto lo diceva: mai nella storia di questi ultimi dieci anni un governo aveva dato così tanto dal punto di vista economico, ma anche in spesa corrente, alla classe imprenditoriale di questo paese: pensiamo al cuneo fiscale, a tutta una serie di sgravi fiscali. Abbiamo avuto una Finanziaria basata esclusivamente sulla crescita. Io mi permetto di dire, da ecologista, che penso e pensiamo che lo sviluppo non possa basarsi solo sul concetto di crescita classicamente inteso. Quando Montezemolo dice che il sindacato difende i "fannulloni" pensa ad un paese con meno tutele sociali e meno tutele ambientali. La Fiat ha fatto un balzo di utili storico, più 90%. Ma voglio citare anche gli Aeroporti di Roma: 10.000 occupati, 100 milioni di euro di utili. Ebbene il più grande livello di occupazione stagionale e precaria è concentrato in quell'area. Questi settori imprenditoriali, questi poteri forti stanno approfittando della debolezza del governo per ridisegnare la forma stato di questo paese, per costruire un sistema più decisionale e far venir meno i processi di partecipazione.
Questa è la grande preoccupazione che noi abbiamo e la legge elettorale in questo contesto assume un ruolo non marginale ecco perché anche su questo dobbiamo cercare una proposta unica. Chiudo sulla questione delle pensioni: noi abbiamo sempre detto che non avremmo "operato uno scavalco" delle posizioni del sindacato ma saremmo stati però molto attenti all'espressione che i lavoratori avrebbero dato e che daranno a quella proposta.

Fabio Mussi (Sd): Apparteniamo a forze essenziali per questa maggioranza e per questo governo e abbiamo cooperato per il risanamento dei conti pubblici. Abbiamo contribuito a rimettere la nave in linea di galleggiamento. Ora il problema è se ci sono o meno le condizioni per poter navigare. Proseguire su una strada di azzeramento del deficit e di rapida riduzione del debito avrebbe degli affetti economici e sociali facilmente prevedibili. Il problema, dunque, è capire quale è il programma vero che guida l'azione del governo e quale é la sua missione.

Sulla questione delle pensioni ho un parere un po' diverso da Diliberto e Giordano. Noi partiamo dall'esistenza di due leggi in vigore: la Dini, che prevede ora la revisione del coefficiente, ossia la riduzione generalizzata delle prestazioni previdenziali; e la Maroni che prevede dal primo gennaio 2008 il salto a 60 anni. Questo salto è stato spalmato. Accanto a questa graduazione dello scalone ci sono cose che naturalmente bisogna tutelare: il trattamento differenziale sulle donne; i 40 anni tutelati, cioè i lavoratori precoci; gli usuranti (e qui concordo sul fatto che non si possa accettare un vincolo numerico all'applicazione della tabella degli usuranti); ed, infine, il passaggio dal 40 al 60%. Portare al 60% la pensione minima rispetto all'ultimo stipendio vuol dire tenere fuori alcune generazioni, quelli che fanno lavori atipici, precari, dal puro sistema contributivo. Complessivamente, questa parte sulle pensioni non mi sembra malaccio.
Aggiungo che, ma parlo per me, non ho mai condiviso una certa ossessione previdenziale della sinistra. Primo perché a questi fari accessi sulla previdenza ha corrisposto spesso un indebolimento della luce sul tempo di lavoro, sul tema del lavoro cattivo e mal pagato e quindi il tema della piena e buona occupazione. In secondo luogo perché, tra i molti deficit del welfare italiano, il punto differenziale negativo non è solo sulla previdenza, ma su tutto il resto: tassi di occupazione in particolare femminili, asili nido, investimenti in ricerca e formazione, energie rinnovabili e risparmio energetico.
Sui capitoli competitività e mercato del lavoro esprimo il mio dissenso. Il capitolo competitività è tutto stretto sul costo del lavoro. La competitività per l'Europa è innovazione tecnologica, ricerca scientifica, brevetti, piattaforme tecnologiche. L'Italia, su questo, dimostra la sua arretratezza anche culturale. E ancora: con i tassi di occupazione che abbiamo, favorire la concentrazione di lavoro su un'identica platea di lavoratori aumentando gli orari per raggiungere salari di sopravvivenza è un errore grave. Come un altro errore si è fatto sul mercato del lavoro dove, per la Legge 30, sono previsti piccoli "ritocchi" , lontani da quanto scritto nel Programma dell'Unione.

Veniamo da elezioni che ci hanno manifestato ampiamente quella che con un'immagine ho chiamato "la sommossa dei ricchi ed il disincanto dei poveri" ed è del tutto evidente che dobbiamo ridare una missione al governo.
In momenti critici di questa portata, l'invito che faccio è di calibrare i giudizi, misurare i passi. Naturalmente bisogna compierli i passi, non stare fermi. Sono contrario ad aprire, da sinistra, una crisi di governo, ma non si può neanche stare fermi per ragioni di merito, di contenuto, per ragioni politiche generali. La formazione del Partito democratico procede di pari passo con l'apertura sempre più chiara verso nuove ipotesi di alleanza. Non è solo l'allargamento all'Udc, anche perché se scarichi la sinistra non basta l'Udc, devi andare più in là, e non è un caso che abbondano i documenti sulle maggioranze di nuovo conio.

Dobbiamo prendere di petto la questione del discredito in cui è caduta la politica, la sua perdita di legittimità e autorevolezza, e prendere di petto la questione dei costi della politica. Dobbiamo avere il dovere di agire politicamente sul governo. Politicamente vuol dire porre sul tavolo il programma vero di questo governo e la questione della sua struttura.
Abbiamo litigato sulle pensioni, forse continueremo a litigare, ma non rinuncio al progetto di un'unità della sinistra politica. Questo è un paese che non può restare senza una sinistra ed è del tutto evidente che questo vuol dire immaginare, nella prospettiva, un soggetto politico. Questo può avvenire rinnovandoci tutti.
Usciamo dalle trincee? Sono favorevole. La sinistra che deve provare a ritrovare la via dell'unità è una sinistra che guarda al futuro. Per esempio, con il Patto per il clima stilato dai Verdi entriamo nel cuore del problema del sistema con le questioni della svalorizzazione dell'ambiente che vengono messe in relazione alle tendenze globali della svalorizzazione del lavoro. Bertinotti parla di socialismo del XXI secolo. Chiamiamolo come ci pare, ma guardiamo al futuro e non restiamo semplicemente i naufraghi di tempeste del passato. In autunno sono d'accordo a realizzare, tutti insieme, un evento partecipativo, capillare e di massa.

Oliviero Diliberto (Pdci): Sulla previdenza abbiamo una posizione diversa da quella espressa da Mussi. Peraltro, ci è risultato abbastanza strano pensare che un governo di centrosinistra, ancorché diluendola nel tempo, portasse l'età pensionabile a 62 anni, per giunta con l'inganno delle "quote", che per essere tali devono essere flessibili.
Detto questo, tra noi vorrei fare una discussione di prospettiva, perché se guardiamo indietro, gli ultimi 15 anni della storia italiana sono stati caratterizzati dalla logica dei petali: ad uno ad uno sono stati tolti diritti e conquiste che, in larga parte, la nostra generazione aveva già trovato. Si è iniziato nel '92 con l'abolizione della scala mobile, poi nel '95 c'è stata la riforma delle pensioni, la "Dini", che ha scavato un solco tra generazioni. Berlusconi provò con l'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma per la prima volta non ci è riuscito. Perché? Grazie alla forte mobilitazione di massa, merito della Cgil. Prima ancora c'era stata la pessima riforma del lavoro con la Legge 30. E oggi è arrivato il colpo definitivo al sistema previdenziale, con l'innalzamento dell'età pensionabile; ma anche al mondo del lavoro, con un'attenzione pressoché inesistente alla stabilizzazione. Persino il lavoro a progetto, che è una delle forme più odiose e più diffuse e utilizzate al di fuori di qualunque progetto, non è stato toccato.

Ogni volta che è stato tolto un diritto si è chiesto alla sinistra di esercitare "senso di responsabilità" che noi abbiamo sempre esercitato. Ma a furia di esercitarlo, si rischia di smarrire la ragione sociale della sinistra che è quella di stare dalla parte dei ceti subalterni. Il malcontento è di coloro che oggi lavorano: la precarietà, infatti, prima ancora di toglierti futuro, ti toglie presente, perché sei ricattabile. Il mondo del lavoro sta diventando invisibile nel mondo della politica: chi difende i lavoratori? Io credo che sia venuto il momento che almeno qualcuno dica basta.
Il senso di responsabilità è una cosa molto seria, e continueremo ad esercitarlo, ma lo chiediamo anche agli altri, perché dal '92 ad oggi hanno pagato sempre gli stessi. L'impresa, infatti, ha avuto nel corso di questi ultimi 15 anni incalcolabili guadagni e, progressivamente, un pezzo della sinistra, quella che oggi si accinge a diventare Partito Democratico, ha assunto le ragioni dell'impresa contro quelle del lavoro e dei lavoratori. Qualcuno deve ripartire da questo punto e se non lo facciamo noi non lo può fare nessuno. Sono d'accordo con Mussi, se aprissimo la crisi di governo faremmo solo un regalo a chi lavora per farlo cadere. Ma se da un parte va incalzato, dall'altra, bisognerà cercare di organizzare un movimento di lotta.
Io non trovo nessuna contraddizione tra l'essere all'interno del governo e lottare anche contro alcuni decisioni del governo di cui faccio parte e che non condivido. Ad iniziare da una battaglia di emendamenti - che spero si possano concordare tra noi - sulle questioni sociali, alla ripresa autunnale. Ma è necessario lottare insieme anche fuori dal Parlamento cercando di organizzare dei movimenti il più possibile ampi. Ma saremo in grado di farlo solo se coloro che chiamiamo a lottare avranno la sensazione che vogliamo difenderli per davvero.

Ripeto, io sono per provarci fino in fondo a costruire l'unità tra noi, ma per quanto ci riguarda è un'unità che parte da una precisa connotazione di classe. Voglio riprendere non casualmente a parlare anche un certo linguaggio perché anche su quel terreno abbiamo perduto la sfida dell'egemonia culturale. La Confindustria sta facendo lotta di classe, e la sta vincendo. Vorrei almeno cercare di combatterla, non so se la vincerò ma vorrei provare. L'unità a sinistra - che proponiamo da tempi non sospetti - per il Pdci deve partire da questo dato. E dunque proveremo a dare un positivo, leale, unitario, corretto, beneducato scossone a questo governo, per il bene del governo medesimo perché se continua così magari dura ma perderà progressivamente consensi.
La nostra mobilitazione potrebbe partire in autunno con una grande manifestazione su una piattaforma che abbia esattamente i criteri e i contenuti che ho provato sommariamente ad indicare. La preoccupazione è davvero grande perché noi non stiamo patendo le contraddizioni tradizionali di una formazione politica che si trova al governo del paese e quindi deve fare compromessi. Qui c'è qualcosa di più: stiamo scontentando la nostra base sociale, almeno da quando è stata varata la "controriforma" pensionistica. Da quel giorno non intendo più accettare la logica del senso di responsabilità a prescindere perché è perdente per tutti e quindi io vedo un autunno "di lotta e di governo".

Franco Giordano (Prc): Oggi abbiamo fatto una discussione molto seria e anche molto vera. Abbiamo registrato una differenza sulla riforma della previdenza, ma credo che noi siamo in grado sul terreno parlamentare e sul terreno dell'iniziativa sociale di tradurre in positivo questa differenza, ottenendo un miglioramento degli accordi sulle pensioni, anche sul punto dolente della riforma dello "scalone".
Ora però ritorno al punto dell'unità della sinistra, perché Fabio ha introdotto una discussione molto seria: su quali basi culturali? Noi abbiamo bisogno di costruire una soggettività unitaria politica, e per poterlo fare dobbiamo aprire un dibattito culturale sull'ipotesi di alternativa di società. Allora, la vicenda del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita - alla quale accennava Mussi - è fondamentale. Oggi il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita è interamente dominato dalla logica di impresa. Io chiedo: dove sta scritto che i processi di risparmio che sono stati determinati dalla innovazione tecnologica e dalla ricerca debbono essere rimessi in circuito e riconsegnati non alle forme di socialità ma al capitale e ai suoi processi di accumulazione e di investimento? Da nessuna parte sta scritto. In un modello diverso di società questi risparmi possono essere destinati allo sviluppo delle relazioni umane, del tessuto sociale, dei servizi, e alla difesa dell'ambiente. E qui io tocco un punto che riguarda drammaticamente il nostro futuro: dobbiamo trovare la forza e i modi per fermare l'aggressione capitalistica alla natura.

Ma la crisi della politica che cosa è oggi? Secondo me la crisi della politica ha due aspetti. Da una parte è una crisi di partecipazione; noi abbiamo quella che Gramsci avrebbe chiamato una vera e propria rivoluzione passiva; e allora bisogna ricostruire una soggettività politica in grado di realizzare forme di protagonismo. C'è una seconda parte che, secondo me, è ancora più drammatica: la politica rischia di essere ininfluente sui processi economici, cioè rischia di essere riconsegnata al capitale e diventare ancella del processo di valorizzazione del capitale sullo sviluppo globale. E non ha più la possibilità di svolgere una funzione di regolazione sociale. Da questo punto di vista la "missione" del governo diventa decisiva in questa fase. Se surrettiziamente il governo diventa il perno di questo processo di subordinazione al capitale - vedi l'idea del risanamento del debito come unico elemento sovraordinatore - è evidente che tutte le ipotesi di risarcimento sociale e di redistribuzione vengono confinate in uno spazio estremamente ristretto. Allora ha ragione Mussi: c'è un programma di governo che sembra non essere più attuale? Bene, si ricontratti, tutti insieme, punto per punto, ogni aspetto del programma, rompendo lo schema della plancia di comando. Io mi chiedo: possibile che si debba fare una proposta di riforma del mercato del lavoro senza che i ministri Mussi, Ferrero, Bianchi o Pecoraro Scanio ne sappiano nulla, e discuterne con i sindacati mettendoli alle strette e dirgli che è inemendabile? A nome di chi parlano?

Allora ricostruiamo la "missione" di questo governo, ridefiniamo passaggio per passaggio i punti programmatici. Da questo punto di vista, però, io penso che sia decisiva una mobilizzazione nostra che manifesti sia sul terreno della democrazia, sia sul terreno dell'identità politica e culturale. Mi spiego meglio: penso che la manifestazione che propongo per autunno non deve avere come unico obbiettivo, seppur importante, di metterci nelle condizioni di avere più forza contrattuale dentro al governo, e cercare di essere più efficaci, (cosa che è, diciamo, il prius dell'azione politica di questa fase rispetto al governo), ma deve avere anche l'obiettivo di costruire una soggettività politica unitaria; esattamente quello che la gente ci chiede in giro e le cui aspettative credo siano condivise da tutti. Io allora vedo due ipotesi, la costruzione in maniera diffusa di questa mobilitazione con un appuntamento nazionale; e contemporaneamente la definizione rapida degli stati generali di queste nostre forze con la soggettività più larga oltre ai nostri partiti: perché non possiamo dare l'idea che tutto si riduce a noi quattro, ma da noi quattro deve partire un segnale.

Angelo Bonelli (Verdi): Penso che ci è chiaro, lo diceva prima Mussi, il ruolo che il Partito Democratico esercita e intenderà esercitare nel futuro; del resto Rutelli ha detto, e non solo nel suo manifesto, che l'obiettivo è ridisegnare i confini del centrosinistra. E' evidente che la presenza della sinistra viene considerata transitoria dalla parte maggioritaria del Partito Democratico. La funzione che dobbiamo esercitare con grande forza e caparbietà e quindi responsabilità nei confronti del paese è quella dell'unità dell'Unione. La domanda è come riusciamo ad esercitare un ruolo per far sì che in un prossimo futuro questo paese non conosca una "grande coalizione". Penso che sia urgente costruire questa mobilitazione. La struttura sociale del paese non è più quella di 20 anni fa. Noi abbiamo avuto destrutturazioni sociali fortissime che hanno ridefinito modalità, relazioni sociali, umane, affettive; una destrutturazione che ha contribuito a costruire una nuova società, che in alcuni casi per noi, e parlano anche i dati elettorali, è abbastanza oscura. Non c'è una connessione, non c'è un'interlocuzione con queste nuove soggettività.

Io non provengo come è noto dalla tradizione comunista ma mi sento un uomo di sinistra; dico questo per far comprendere che le potenzialità di un area così vasta sono grandi. Però non condivido che questo soggetto possa o debba avere una connotazione di classe; io penso ad esempio che riguardo al "patto per il clima" sia necessaria un'alleanza con quel mondo dell'impresa che non è rappresentata da Montezemolo e che ha scelto l'innovazione tecnologica, una scelta legata anche ad una sorta di codice etico.
L'iniziativa su cui stiamo ragionando per l'autunno deve essere accompagnata da una elaborazione programmatica che ci porti ad un manifesto politico da presentare al paese. Manifesto legato alla questione forte della lotta al precariato, che veda al suo interno la questione del contrasto alle povertà sociali, che parli del reddito di cittadinanza, che parli della questione climatica nelle sue articolazioni legate ad un nuova politica energetica, che inevitabilmente pone anche nuove questioni nel rapporto con il sindacato. L'altro giorno sotto al ministero dello Sviluppo economico c'erano i lavoratori dell'Enel di Porto Torres a chiedere la centrale a carbone; ciò ci pone un problema di interlocuzione col mondo sindacale su quale politica energetica adottare. E quindi anche un'articolazione dal punto di vista climatico del discorso dei trasporti e delle infrastrutture. Voglio essere chiaro: il ministero diretto di Di Pietro non segna alcuna discontinuità con l'era Lunardi. Parlare di valutazione di impatto ambientale, di superamento della "legge obiettivo", in questo paese sembra una cosa da estremisti. Come sembra da estremisti chiedere il rispetto delle norme europee. Per non parlare della questione legata alla difesa del suolo.

Dobbiamo lanciare un'offensiva sulla questione "stop al consumo del suolo" in questo paese e quindi dotarci di una legge urbanistica che dica che nel futuro ci sarà un consumo del suolo zero e quindi il futuro è la riqualificazione delle nostre periferie. Altra grande questione è quella della ricerca, dell'innovazione, della scuola: abbiamo la necessità di dare una giusta accelerazione per andare almeno alla stesa velocità degli altri paesi. E poi la questione dei diritti civili, perché la battaglia della laicità non è esclusivo patrimonio dei radicali e c'è una sinistra che si deve candidare a parlare con credibilità ed autorevolezza di questi temi. Noi dobbiamo parlare di contenuti, con un linguaggio molto chiaro e diretto al paese, perché dobbiamo assolutamente evitare che questa sinistra sia relegata in un angolo come una sinistra "massimalista" che sa solo protestare, ma che invece ha la capacità di proporre.
Si diceva sinistra "di lotta e di governo". E' un crinale molto delicato e noi dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo per riportare al centro il programma dell'Unione. Ricontrattare il programma? Io non so che significa, vedo che lo sta facendo il Pd, ma appunto perché lo fanno loro noi dobbiamo ricordare con grande forza che il programma è stato votato da milioni di italiani.

Fabio Mussi (Sd): Vorrei aggiungere un breve contributo allo sviluppo della discussione che entra di più nel merito delle questioni. Primo: egemonia. Noi abbiamo largamente dimenticato la lezione: l'egemonia si esercita nel linguaggio, il linguaggio forma il senso comune. Quando le idee egemoniche sono diventate linguaggio e depositate nel senso comune, sono una potenza mai vista. Dunque, dobbiamo agire sul linguaggio smettendo di assumere come scontato un modo di definire le cose che già indica chi sta sopra e chi sta sotto: ad esempio, diamo per scontato che il centrosinistra italiano venga definito come un campo diviso in sinistra riformista e sinistra radicale. Che vuol dire radicale? Se vuol dire intransigenza dei principi, una politica che va alla radice dei problemi, dovremmo ricordare che non esiste una buona politica che non abbia un'intransigenza dei principi.
Secondo: Giordano ha parlato di «lavoro come parte del processo di valorizzazione...». Il lavoro vivo è parte del processo di valorizzazione del capitale e questo da quando è apparsa questa formazione economico sociale chiamata capitalismo. Naturalmente nella storia di questa formazione non ci sono state sempre le stesse condizioni. Il capitalismo nella sua forma originaria non è lo stesso del grande compromesso socialdemocratico, del welfare state; lì qualcosa è cambiato nelle condizioni di vita di milioni di persone, negli assetti della società. Ecco, penso che su questa parte precedente di storia qualche giudizio, meno liquidatorio, su cosa è stato il socialismo su scala europea non sarebbe male. Negli anni passati abbiamo elegantemente discusso sulla cosiddetta "fine del lavoro" e "l'avvento delle classi medie". Quando Carlo Marx invitava i "proletari di tutto il mondo" ad unirsi, questi erano quattro gatti sparsi tra quella che allora era la Prussia, l'United Kingdom e la Francia. Mai c'è stato tanto lavoro salariato come ora sul pianeta e mai c'è stato tanto lavoro intellettuale comprato e venduto alle condizioni di lavoro salariato. Accanto a questo c'è l'altro fenomeno che è il consumo crescente di materia e di energia. E il sistema capitalistico si è scontrato con un principio che è un po' più potente della lotta di classe: il secondo principio della termodinamica. Oggi mettere insieme le questioni del lavoro e dell'ambiente non è un vezzo, è il modo di approcciare criticamente il problema.

Ecco, è su tutte queste cose credo dovremmo iniziare a scambiarci competenze, conoscenze e punti di vista per ricostruire questa sinistra. E' un nostro dovere. Quello di identificare un area di sinistra a sinistra del Pd è diventato un dovere nazionale, oltre ad un'esigenza dovuta al bisogno di rappresentare la nostra gente. Perché se quest'area resta sfaldata, dispersa, divisa, alla fine l'esito neo-centrista o cesarista diventa ineluttabile.