giovedì 31 maggio 2007

Rimpasto subito, dimezzare i ministri

«E' una sconfitta elettorale brutta e seria, un colpo durissimo per tutta l'Unione e il governo. Al Nord e non solo al Nord. Bisogna reagire subito, reagire con un colpo di reni».
Mussi, ministro dell'Università e Ricerca, nonché leader della Sinistra democratica che ha appena abbandonato i Ds, non fa sconti.

E quale sarebbe il colpo di reni?
«Non possiamo stare fermi sulle gambe come il pugile che ha appena preso un cazzotto in faccia. Dobbiamo muoverci. E allora io chiedo un'immediata riunione di tutta l'Unione, insomma un vertice di maggioranza che lanci un forte messaggio al Paese».

Di messaggi ne parlano tutti i leader tutti i giorni, il suo quale sarebbe?
«Il mio è molto, molto concreto. propongo una ristrutturazione del governo, un vero e proprio rimpasto. Ma con l'obiettivo di ridurre drasticamente il numero di ministri e sottosegretari. Una pletora da vergognarsi mentre in Francia Sarkozy ha formato un esecutivo di 15 ministri, con dentro sette donne. Questo è il modello che dobbiamo seguire. Ma subito».

E lei sarebbe disposto a lasciare il suo ministero?
«Assolutamente sì, sono a disposizione. Il lavoro che faccio mi piace, ma bisogna che ognuno di noi si metta in gioco se vogliamo reagire».

E questo sul piano dell'immagine, invece sulla sostanza politica cosa cambierebbe?
«Intanto si tratta di un'immagine piuttosto sostanziosa. In ogni caso, mi pare che il governo abbia i motori fermi, trova grandi difficoltà a tenere aperto il dialogo con la società, a sollevare consensi e energie. Penso allora che dovremmo cambiare radicalmente la linea di politica economica e sociale. Contrastando la povertà, sostenendo il lavoro in tutte le sue forme (gli operai hanno salari da fame e i giovani sono tutti precari, ancor di più le donne), spingere sull'innovazione, cioè scuola, ricerca, tecnologia, e riformare la politica, dai suoi costi alla legge elettorale».

Lei parla di cambiamento radicale della politica economica, in altre parole il ministro Padoa-Schioppa deve lasciare?
«Io penso che lui abbia fatto un eccellente lavoro per risanare il bilancio del Paese, è la cosa migliore del nostro governo. Ma non si può restare piantati a custodire il tesoretto, è un esercizio deprimente. Il bilancio risanato non è un feticcio che sta lì e tutti lo guardiamo incantati. Serve a fare altro, aiutare il lavoro, l'impresa, risarcire chi ha di meno, investire sulla formazione... Dopo di che io non faccio questioni di uomini e di nomi, parlo di scelte politiche da compiere. E che devono essere molto diverse da quelle compiute finora».

A proposito di scelte e di uomini, il premier Prodi nell'intervista di ieri a «Repubblica» accusa gli alleati di non lasciarlo governare e avverte: o decido io o me ne vado.
«Questa sua sfida agli alleati mi turba. Il braccio di ferro non mi pare fertile, piuttosto cerchiamo di ritrovare una coesione ridefinendo il Programma, il Progetto che oggi non sono affatto chiari. Io non so chi abbia impedito a Prodi di decidere, ma penso che per evitare mille voci che si sovrappongono dopo aver preso le decisioni, ne occorrono cento che parlino prima di prenderle, le decisioni. Non esistono governi monocolore a voce unica, neanche negli Stati Uniti. Governare significa comunque governare il pluralismo».

A proposito di pluralismo, lei e i suoi compagni ex diessini, abbandonata l'avventura del Partito democratico, avete già stampato 150 mila tessere della vostra Sinistra democratica. Dica la verità: volete fare un altro partito?
«Premetto che i risultati elettorali ci danno ragione, il nascente Partito democratico proprio non attira. Anzi perde. Ma a me un altro Partito proprio non interessa, vogliamo misurare la nostra forza - e i primi segnali, anche elettorali, sono piuttosto incoraggianti - con l'obiettivo di unire la sinistra radicale. Il vertice di domani (oggi, ndr) con Giordano, Pecoraro Scanio e Diliberto serve intanto a mettere giù un'agenda di questioni, soprattutto sociali, sulle quali muoversi uniti. Ma il mio progetto è di arrivare a un'aggregazione di queste forze e di altre, penso anche ai socialisti di Boselli, che possa presentarsi insieme agli elettori già alle amministrative dell'anno prossimo».

di RICCARDO BARENGHI da La Stampa del 31 maggio 2007

Lorenzo Dellai: «Partito democratico del Nord confederato con quello nazionale»

Lorenzo Dellai come Massimo Cacciari - sindaco margheritino di Venezia - lancia la proposta di un «Partito democratico del Nord confederato con quello nazionale».
Il governatore trentino, che già la settimana scorsa, prima del voto amministrativo, con un'intervista a l'Adige aveva espresso fortissime preoccupazioni per come sta nascendo il Partito democratico a livello nazionale, soprattutto per il distacco dalla sensibilità del Nord del Paese - «è troppo romanocentrico» aveva detto - ora torna alla carica. E il presidente non risparmia frecciate - senza citarli - a chi come il senatore Giorgio Tonini (Ds), il verde Marco Boato e Gianni Kessler presidente dell'Associazione per il partito democratico, lo avevano attaccato duramente per la sua idea di partito territoriale. «Ha perso la bussola politica» aveva detto Boato, mentre Kessler: «Il Pd nasce comunque, anche senza Dellai».

Presidente Dellai, il voto in Veneto, Friuli, Lombardia, Piemonte ha confermato che il Nord è un problema per il centrosinistra. Si aspettava risultati così drammatici?
Questi risultati non mi hanno sorpreso perché i progetti politici o marciano nei territori o non marciano affatto. Non c'era bisogno di attendere la batosta elettorale, assieme ad altri colleghi del Nord (Chiamparino, Bresso, Cacciari, Ndr.) lo stiamo dicendo da tempo. Io l'ho detto la settimana scorsa e sono stato sommerso di critiche.

Cacciari ha dichiarato che quello che serve oggi è la costruzione di un Partito democratico del Lombardo-Veneto, è d'accordo?
Certo, serve un grande partito riformista del Nord che si confederi con un grande progetto riformatore del Nord. Quando Prodi dice che al Nord abbiamo dei problemi si riferisce a questo. E non è questione di separatismo ma di rifondare la politica del centrosinistra con caratteristiche e linguaggi peculiari che sappiano dialogare con la società del nord.

Prodi a commento del voto ha parlato dell'organizzazione del Pd come partito federato, sta venendo sulla strada che la Margherita trentina sta sostenendo da tempo?
Mai come in questo periodo ho una grande stima del presidente Prodi , anche l'intervista di oggi (ieri su Repubblica, Ndr.) mi è sembrata molto lucida. Credo che Prodi abbia capito che questo è l'unico modo per togliere il processo di costruzione del Pd dalle secche in cui è caduto e rimetterlo sui binari. Altro che discutere della leadership o di accelerare la costituzione del Partito democratico. Il Pd non può essere concentrato sugli equilibri romani. La questione Nord c'è tutta intera e va affrontata. Se il problema non viene colto subito il futuro nazionale del centrosinistra lo vedo difficile e non si risolve mettendo qualche esponente del Nord nel comitato per la costituente del Pd.

Cosa vuol dire partito democratico del Nord?
Il Nord è un crogiolo di territori che hanno un minimo comune denominatore che è quello di guardare ai problemi economici e sociali in una certa maniera e quindi si devono affrontare i temi della sicurezza, del welfare, delle infrastrutture, come la Tav, dei rapporti tra istituzioni e imprese, tenendo conto di questo.

Pensa a una Lega nord del centrosinistra?
Per carità, si può essere anche schizzinosi su questa proposta. Vorrà dire che allora il Nord sarà rappresentato solo dalla Lega e dal centrodestra, con buona pace di tutti quelli che dicono: "ah fate i leghisti". Non è così, non penso a un progetto localista ma articolato in modo diverso sul territorio. Il centrosinistra fatica a comunicare con la società del Nord. Ci sono anche ombre in questa società, ma è questa che siamo chiamati a interpretare. Non è che possiamo fare finta di niente, qualche problema c'è. Io non penso sia un problema del governo Prodi, di scelte o non scelte, ma di grammatica politica. C'è da reimpostare una strategia per interpretare un'area più vasta di quella che si riconosce in Ds e Margherita. E questo nel Nord è essenziale.

In Trentino l'anno prossimo con le elezioni provinciali ci sarà il prossimo test per il centrosinistra. Riuscirete ancora ad arginare il centrodestra, unica isola nel Nord?
Fino ad ora ci siamo riusciti. In Trentino, con il nostro percorso, penso che potremo essere utili a promuovere il progetto che parte dal territorio, come sto dicendo da tempo, nonostante quanto vanno dicendo tutti questi scienziati della politica.

A chi si riferisce?
A chi risponde con delle sentenze a chi tenta di fare dei ragionamenti politici che per di più, dopo pochi giorni, si rivelano non essere così sballati.


di LUISA PATRUNO da l'Adige del 31 maggio 2007

mercoledì 30 maggio 2007

Di Salvo: «voto preoccupante, sottovalutato il malessere sociale»

«IL NOSTRO GIUDIZIO sull’esito del voto è molto serio e preoccupato. Ma non siamo sorpresi: se si analizzano i flussi elettorali del 2006 si vede che c’è un voto dei ceti popolari già molto orientato verso il centrodestra: c’è un malessere sociale che questo primo anno di governo non ha risolto». Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sinistra democratica, è molto netta: «L’azione del governo non ha ancora risposto ai bisogni materiali di giustizia sociale certificati dall’Istat. La discussione sul tesoretto e alcune esternazioni sull’età pensionabile appaiono come una sottovalutazione di quei problemi. Nella Finanziaria ci sono stati dei segnali e anche sulla lotta all’evasione fiscale e al lavoro nero, ma bisogna andare avanti. Sulle pensioni bisogna dare dei segnali chiari: eliminare lo scalone e rivedere i coefficienti».

C’è chi dice che il voto al Nord derivi soprattutto da una delusione dei ceti produttivi.
«C’è una somma di richieste di rappresentanza che non si ritengono accolte. Io credo che il governo di centrosinistra dovrebbe ascoltare le richieste di chi vive in condizioni difficili, a partire dai precari: sarebbe coerente col programma dell’Unione».

È stato un voto contro il governo?

«È sbagliato tradurre automaticamente il voto amministrativo in un giudizio sul governo. Ma sarebbe miope non vedere come le due cose si influenzano. C’è un astensionismo che ha penalizzato il centrosinistra e che nasce anche da una distanza tra la politica e le persone. Poi ha pesato la discussione sul contratto degli statali: abbiamo dato l’impressione di un governo in difficoltà nel fare un atto normale».

C’è un problema di leadership nella maggioranza?

«C’è un modo per uscire dalle difficoltà: stare al programma, che non è usurato e incrocia le esigenze reali di un Paese che non è ancora uscito da 5 anni di declino berlusconiano».

Sembra che voi siate soddisfatti delle difficoltà dell’Ulivo. Eppure in moltissime liste eravate insieme...

«A Taranto no e abbiamo avuto un risultato lusinghiero. Le prove migliori il centrosinistra le ha realizzate dove c’erano candidati sindaco con un profilo nettamente di sinistra».

Mussi parla di una debacle per il Pd. Ma alle elezioni non c’era ancora...

«Non in quanto tale, ma le liste dell’Ulivo preludono a questa scelta. Non si può non vedere che gli elettori non l’hanno premiata. Il dato è omogeneo: in tutta Italia l’Ulivo ha avuto una riduzione consistente».

Anche Rifondazione non è andata benissimo...

«Mi pare che i risultati migliori li abbia quando sostiene candidati unitari della sinistra. E poi il sostegno leale al governo può essere stato pagato in termini elettorali.

da l'Unità del 30/05/07

Giordano: l'azione dell'esecutivo non va, è a rischio»

Onorevole Franco Giordano, senta: lei, conversando in Transatlantico, ha detto che la sconfitta dell'Unione alle amministrative non è un campanello d'allarme...
Ma un campana. Una campana che rischia di suonare a morte.

Sembra che davvero lei abbia una percezione molto grave di quanto è accaduto.
Grave? Solo grave? Sa cos'è accaduto? Un terremoto.

Con quale epicentro?

Il Lombardo-Veneto. Ma le onde del sisma si sono propagate in tutto il Paese. Poi, se posso continuare nella metafora...

Prego.
Poi è venuta giù, e questo sarebbe onesto che tutti lo ammettessero, la costruzione su cui stavano organizzando il Partito democratico.

Non è che voi di Rifondazione siate andati tanto meglio, anzi.

Lo so, lo so... Sono il segretario del partito e non mi sottraggo ai numeri. Ma, appunto, io, almeno io, avverto l'urgenza di cominciare a riorganizzarci, esattamente come si fa dopo un forte sisma.

Ha già in mente un piano?

Guardi, io dico che occorre accelerare il processo di unità di tutte le forze della sinistra.

È un progetto affascinante, ne parlate da settimane ma poi...

Invece siamo, credo, già abbastanza operativi.

Può essere più preciso, segretario?

Domani mattina ci riuniremo a Roma. Noi, i Verdi, e poi i Comunisti italiani e, naturalmente, quelli di Sinistra democratica. Una riunione per cominciare a mettere giù un po' di punti fermi sul terreno economico- sociale...

Segretario, lei usa toni...
Glielo dico io, che toni uso: da contrattacco. Io dico alle forze di sinistra: fuori dalla trincea!

Verso quali fronti?
Verso i fronti più urgenti: pensioni, salari, precarietà. La grande questione settentrionale, divenuta urgente in queste ore, è, in realtà, la questione degli operai. Che molte forze governative, però, ignorano. Per questo, a Palazzo Chigi occorre cambiare agenda, passo...

Se no?

Io non voglio usare toni minacciosi, ma è chiaro che, a questo punto, dobbiamo cominciare a far valere gli effettivi rapporti di forza che ci sono in Parlamento.

Lei vuol dire che, in alcuni passaggi parlamentari, la sinistra potrebbe non votare...

Io dico che se noi non siamo buoni per decidere, forse potremmo non essere buoni per votare.

Messaggio chiaro. Ma perché, scusi: non vi coinvolgono nelle decisioni?

Mah... quelli del Pd, ormai è il caso di dirlo chiaramente, tendono a decidere un po' troppo per conto loro.

Leggendo queste sue parole, segretario, molti elettori del centrosinistra potrebbero trovare conferma di una spiacevole sensazione...

Quale?.

Quella che spesso la coalizione di governo ha linee molto, troppo divergenti. Per esempio: dopo la sconfitta patita in Sicilia due settimane fa, il vostro capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, disse che la colpa era del ministro Tommaso Padoa-Schioppa...

Guardi, oggi, risultati alla mano, è evidente che il problema è complessivo e riguarda l'intera azione del governo.

Segretario, lei forse non era mai stato così critico con Romano Prodi.

Non è questione di essere critici. Ma realisti. Perché il governo o non decide, o decide in luoghi troppo frequentati da rappresentanti del Pd, oppure, più semplicemente, sbaglia i tempi.

Per esempio?

Ha chiuso la vertenza con gli statali, l'altra notte, mentre era in corso lo spoglio. Politicamente un errore più che stupido, imbarazzante. Non potevano chiudere un mese fa?.

Qualcuno, leggendo questa intervista, crederà di sentire i tamburi di guerra rifondaroli. Il governo, segretario, è a rischio?

I rischi, il governo, li corre se non si sbriga a mantenere le promesse fatte agli elettori.

di FABRIZIO RONCONE dal Corriere della Sera del 30/05/07

Le malattie della politica che pensa solo ai leader

Sarebbe facile, e anche piuttosto stupido, ironizzare sull’insuccesso elettorale del partito democratico. Sarebbe facile, e anche piuttosto presuntuoso, scrivere «ve l’avevamo detto». Il voto parla a loro, ma dice cose a tutto il centro-sinistra. Palla al centro, e ricominciamo. Innanzitutto con uno sforzo reciproco di attenzione. Parto da Taranto. Qui l’uomo del Pd è arrivato secondo e ha preso otto punti meno della coalizione. Avevano ragione quelli che ne avevano contestato la candidatura. Il Pd ha due strade: prende atto che il suo candidato non va e sceglie di far vincere chi è arrivato al primo posto o fa patti con la lista Cito (Cito, vi dice qualcosa questo nome?) e cerca una vittoria truccata. Vorrei conoscere l’opinione di Salvati, Vassallo e Parisi. Non guasterebbe un’opinione di Veltroni e Chiamparino.
Il caso Taranto è importante perché decide se nel centro-sinistra si può riavviare un dialogo o siamo destinati alla definitiva guerra civile politica.
Questo risultato elettorale ha, infatti, il contorno del dramma, per questo viene meno la voglia di scherzare. Neppure il successo di Cialente all’Aquila o l’affermazione delle liste socialiste unitarie in Puglia fa venir meno il compito di ragionare avendo di mira l’insieme della coalizione piuttosto che singoli sopravvissuti al naufragio.
La scelta del Pd è stata sbagliata. Pezzotta non ci sta a nome dei cattolici, Luca di Montezemolo dà voce al distacco dell’imprenditoria, i sindacati, tutti, si tengono fuori, l’area socialista nel suo insieme lavora alla Costituente. Il Nord ha già seppellito la novità politica. I tg sono pieni della storia dei rifiuti a Napoli, il più elementare spot anti-Partito democratico autoprodotto. Insomma il Pd non sarà né l’incontro fra sinistra e cattolici, né tiene insieme la sinistra riformista né, grazie a Napoli, può sbandierare il tema del buongoverno.
Il Pd ha accelerato la crisi della politica alimentando nuove fratture, isolando una classe dirigente autoreferenziale. La cultura dell’emergenza suggerisce ai piloti di questa nave fantasma di andare avanti a qualunque costo. La memoria di culture politiche robuste suggerirebbe di fermarsi a ragionare. La crisi della politica indica tre malattie: la scorciatoia istituzionale (cambiamo le regole così si sana il sistema), la politica con il passamontagna (non ti dico chi sono, né dove vado), l’intreccio fra politica e affari (datemi un banchiere amico e solleverò il mondo). La politica è altro. È sempre stato altro. È progetto, missione storica, visibilità dell’identità, gioco dei simboli. Poi ci sono anche le cose da bassa cucina che nessuno disprezza, il voto d’interesse, il finanziamento, le lobby e quant’altro. Nessuno vuole fare il moralista, ma se si inverte l’ordine dei fattori si va al disastro. (...)

di PEPPINO CALDAROLA da il Riformista del 29/05/07

lunedì 28 maggio 2007

D’accordo la crisi c’è ma che si fa?

È vero, c'è una crisi della politica, ma non basta denunciarlo. Occorre capire da dove origina e cosa fare per fronteggiarla. Rinviare tutto, sperando nei miracoli del Pd come fanno i suoi sacerdoti è penoso. La crisi della politica trae origine anzitutto dalla crisi della maggioranza e dal deficit di guida politica nel governo del Paese. I governi Berlusconi diffamavano la politica con il conflitto di interessi e le leggi ad personam. Oggi c'è solo l'impotenza di una maggioranza paralizzata da veti incrociarti. Ieri “Europa” ha pubblicato un editoriale che rispecchia quel che dico. «Dieci priorità, cinque, nessuna», è il titolo dell'articolo in cui si racconta come il governo risponde a questa domanda: che cosa farete dei soldi in più ricevuti dalle tasse degli italiani? La risposta è che si indicano «ben cinque priorità, sapendo che ognuna di essa a prenderla sul serio chiuderebbe l'impiego dell'interno ammontare.... il che equivale a comunicare il nulla». La storia si ripete per le pensioni, gli statali, gli ospedali, i Dico e tutto il resto. A Caserta, dove si stabilì l'agenda per l'anno in corso, infatti, dice “Europa” le priorità erano addirittura dieci. E i membri del governo sono centodue!

di EMANUELE MACALUSO da il Riformista del 23/05/07

Lunelli: «Alla costituente del Pd lista diversa da Kessler»

È sbalordito Giorgio Lunelli, coordinatore provinciale della Margherita, per l'attacco durissimo sferrato ieri a Lorenzo Dellai dal deputato e presidente dei Verdi trentini, Marco Boato, che ha paventato «il rischio di una deriva cossighiana nella pluralità di esternazioni del presidente, che non portano da nessuna parte, come quelle sulle ipotesi di modifica della legge elettorale».
Lunelli risponde a Boato difendendo in presidente, ma ribatte anche a Gianni Kessler, presidente dell'Associazione per il Partito democratico in Trentino, avvertendolo che: «Il 14 ottobre prossimo alla costituente nazionale del Pd la Margherita trentina ci sarà, con tutti coloro che ci staranno, con il suo progetto di partito territoriale e confederato. Kessler faccia pure la sua lista centralista».

Coordinatore Lunelli, Boato dice che Dellai ha perso la bussola politica e contesta le sue esternazioni solitarie che non coinvolgono la coalizione. Anche la Margherita soffre questa mancanza di coinvolgimento da parte dei presidente?
Boato lo considero un uomo prezioso per la coalizione però non capisco l'atteggiamento che ha assunto negli ultimi mesi, prima sulla vicenda A22 (quando aveva accostato il nome di Grisenti alla stagione delle tangenti di Pancheri, Ndr.) ora con l'attacco al presidente. Boato è un uomo politico di grande esperienza e che sa costruire e questo è il momento di costruire. Se come segretario del partito di maggioranza relativa ho il compito di tenere le fila della coalizione mi assumerò questo ruolo nei prossimi giorni.

Boato si aspetta che sia il leader della coalizione a coinvolgere la coalizione e comunque dice che con le aperture alle ipotesi di modifica della legge elettorale Dellai smentisce sè stesso e gli accordi di maggioranza, che erano di non toccare la legge. Ha sorpreso anche lei?
Non so perché il presidente abbia voluto toccare questo argomento. Io intendo mantenere fede agli accordi di coalizione quindi la legge elettorale non si tocca, salvo eventualmente il limite al numero di assessori. È pericolossissimo aprire un qualsiasi varco. È necessario, questo sì, recepire la norma sulle quote rosa, come adeguamento alla Costituzione, e se Forza Italia vuole impedirlo se ne assumerà la responsabilità. Tutte le altre discussioni sulla soglia di sbarramento o sul fatto di eliminare l'incompatibilità tra assessori e consiglieri sono puramente accademiche.


Gianni Kessler sostiene che parlare di un partito territoriale e originale confederato con il Pd nazionale è fumo negli occhi. Cosa risponde?
Dico a Kessler che per il 14 ottobre prossimo lui faccia pure la lista del Partito democratico centralista, io mi farò carico di presentare una lista che abbia come obiettivo quello di portare nel Partito democratico nazionale un assetto confederato.

Cosa vuol dire? Ci saranno più Partiti democratici trentini?
No, io sto parlando dell'appuntamento dell'assemblea costituente del Pd nazionale, dove si presenteranno più liste. Siccome da sempre si chiede una consultazione vera, con liste non bloccate che si confrontano, sarà una bella sfida, vediamo chi riuscirà a mobilitare più gente. La Margherita sarà presente perché possa prevalere in Trentino una proposta di partito confederato. Il partito territoriale non è quello degli omini verdi con le antenne ma l'esatto contrario di quello centralista che a livello nazionale sta portando al baratro. Perché tutto il Nord non è rappresentato ed è ignorato. Io temo che i risultati delle comunali di domani (oggi per chi legge, Ndr) rischino di essere devastanti con Verona, Belluno e Gorizia che cambiano bandiera.

Il Partito democratico sta nascendo troppo romano e per questo avulso dai territori?
Il Pd così come sta nascendo a Roma dimostra l'incapacità di capire i problemi del Nord e trovare le soluzioni ai bisogni.

Kessler dice che il Pd in Trentino nascerà anche senza Dellai.
Le leadership sono espresse dalle comunità non certo da poche élites.

di LUISA PATRUNO da l'Adige del 28/05/07

Alberto Pacher: «Capisco lo smarrimento, Dellai muoviti»

Il sindaco diessino di Trento, Alberto Pacher, è sempre stato tra i più caldi sostenitori del Partito democratico e non ha perso l'entusiasmo. Anzi, ora che il progetto sta entrando nella fase costituente a livello nazionale chiede che anche in Trentino Ds e Margherita, insieme al leader, Lorenzo Dellai, si diano una mossa per dare corpo «entro la fine dell'estate» a quel soggetto con caratteristiche territoriali con cui poi confrontarsi in ottobre a Roma.

Sindaco Pacher, come sta nascendo il Pd a Roma e a Trento?
Sta nascendo male. Dobbiamo riconoscere che non è entusiasmante il modo in cui è partito a livello nazionale, però almeno è partito e penso che riuscirà a raddrizzare le cose strada facendo. L'importante era partire.

In Trentino invece non si è ancora partiti, cosa succederà?
Qui, anche sta nascendo male. Tutti gli interlocutori o quasi sono convinti che è bene che dalle nostre parti il Partito democratico abbia una connotazione che in qualche modo rispecchi una peculiarità locale. E penso che alla fine sarà così dappertutto. Il problema è che qui non si è ancora fatto nulla. Si va avanti a dichiarazioni e a interviste che rimandano ad altre interviste.

La colpa di questo ritardo di chi è? Della Margherita, dei Ds o di Lorenzo Dellai?
Io penso che tutti dobbiamo provare a mettere le carte in tavola. Mi aspetto che nelle prossime settimane si possa riuscire a fare partire questo qualcosa che sia diverso, così il 14 ottobre quando ci sarà la costituente noi possiamo arrivare dicendo: guardate che da noi stiamo facendo questo, un parente stretto del Partito democratico nazionale.

Quindi lei come il senatore Tonini vorrebbe da Dellai che prendesse un'iniziativa concreta?
Certo che condivido l'analisi di Tonini. Noi non possiamo limitarci - e non mi riferisco solo all'intervista di Dellai - ad annunciare una diversità. Se diversità deve essere e penso che possa esserlo bisogna realizzarla, deve diventare arricchimento di un processo nazionale. Sono convinto per altro che perché un nuovo partito rimetta in moto un po' di entusiasmo e riesca a coinvolgere i giovani è inevitabile che sia legato a dinamiche nazionali e internazionale. Perché se ci aspettiamo che dei giovani si appassionino alle Comunità di valle o allo statuto di autonomia mi sa che andiamo poco lontano. Non è che sono temi che muovono passioni travolgenti e se ci fosse un giovane che si fa travolgere dalle Comunità di valle sarei preoccupato per lui. E allora cosa serve? In questo contenitore ideale, il Partito democratico autonomista, dobbiamo trovare spazio per parlare dei cambiamenti climatici, della pace, della lotta alla povertà nel mondo, perché i giovani si spendono soprattutto su questi temi, e per questo dobbiamo essere agganciati a un treno nazionale.

Lei pensa come Gianni Kessler che il Partito democratico possa fare a meno di Lorenzo Dellai?
Dellai è il leader del centrosinistra in Trentino e io penso che se si chiarisce cosa mettere nel nuovo partito il problema non si porrà. Premesso che un progetto politico può fare a meno di chiunque, va detto però che Dellai è quello che ma messo in piedi il centrosinistra trentino quindi sono convinto che in questo contenitore che dovrà essere pronto entro la fine dell'estate ci sarà.

Il deputato verde, Marco Boato, ieri ha attaccato Dellai perché non coinvolge i partiti della coalizione nella ricerca di una soluzione a una realtà politica che non lo soddisfa. Condivide?
Io capisco lo smarrimento di qualche forza politica, non solo dei Verdi, per le esternazioni di Dellai, perché lui dice delle cose ma non fa il passo successivo. Mi auguravo che con la chiusura delle piste da sci fosse finita la stagione del Cermis ( il riferimento a all'intervista di Dellai a febbraio, Ndr. ) e si potesse andare oltre. Noi non possiamo dire solo no, dobbiamo dire un invece. È questo che manca ancora. Un «invece» possiamo costruirlo insieme.

Dellai però ha detto che in Trentino il Partito democratico non basta, perché non ha la forza per rappresentare la maggioranza dei trentini e la coalizione rischia grosso, serve dell'altro. È d'accordo?
Sono d'accordo. Quando Dellai ha detto che si deve affiancare altro alle elezioni del 2008 non mi sembrava una brutta idea. Quando ci sono state le elezioni a Roma, Veltroni aveva un tale ventaglio di liste che lo sostenevano che mancava la lista «fascisti per Veltroni» e c'erano tutti. Insomma, è normale cercare di coinvolgere un'area più vasta. Lui e parte della Margherita dicono che nelle valli il Pd non ha consenso a sufficienza, io dico costruiamo qualcosa d'altro a fianco in questa fase di transizione, che permetta di confermare la valenza del progetto, e poi ce la giochiamo con il tempo.

di L. P. da l'Adige del 28/05/07

Pezzotta: il Partito democratico? Non c'è posto per noi cattolici

L'inizio, come si dice, è tutto un programma, «di certo bisogna riconoscere a Rosy Bindi di averci provato». Savino Pezzotta è un bergamasco tenace e diretto, non usa l'ironia per eludere le domande. Si parla di famiglia e della conferenza governativa di Firenze, e da lì alle prospettive politiche dei cattolici il passo non è poi così lungo. Difatti il portavoce del «Family Day», tutto considerato, non le manda a dire: «Guardo con preoccupazione alla fine, nel Partito democratico, della cultura del cattolicesimo democratico di matrice sturziana e degasperiana. Non per tirare in ballo Gramsci, ma l'esigenza che in Italia ci sia una presenza organizzata dei cattolici in politica esiste eccome. Lo dico così, senza volermi contrapporre a nessuno. Come si esprimerà non lo so ancora. Ma di certo è una necessità che si avverte fra la gente. E mi pare proprio che il Partito democratico, per come si sta costituendo, non dia una risposta».

Perché dice che il ministro della Famiglia, a Firenze, «ci ha provato»?
«Abbia pazienza: Prodi ha detto una cosa, Padoa- Schioppa un'altra, Visco un'altra ancora, alcuni ministri manco c'erano. Problema: che farà il governo domani? Spero che Rosy riesca a metterli d'accordo...».

Prodi ha assicurato che i due terzi del «tesoretto» andranno alle famiglie...
«Bene, io stesso avevo chiesto si destinasse a loro. E sarebbe accettabile se i due terzi, in effetti, lo fossero».

E non è così?
«Ahimè, no. Si parla di politiche sociali che certo hanno influenze sulle famiglie, ma non sono interventi specifici sul tema. È un po' come quando, da sindacalista, distinguevo tra spesa assistenziale e previdenziale. Tra emergenza e prospettive. Il governo deve saper distinguere e avere il coraggio di scegliere».

In che senso?
«La famiglia è un'altra cosa. Certo i poveri vanno aiutati e subito, si figuri! Se Prodi dice che vuole farlo sono contentissimo, del resto ricordo bene l'allarme lanciato dall'arcivescovo Bagnasco sulla povertà. Ma sono due piani diversi: è un tema che terrei distinto dalle politiche familiari, le quali hanno bisogno di continuità nel tempo, anche oltre il "tesoretto". E pure le famiglie vanno aiutate da subito, ne va del futuro del Paese».

Sì, ma come si fa?
«Con buona pace degli "altolà" di Padoa-Schioppa, il governo dovrebbe definire nel Dpef e in Finanziaria tre priorità: debito pubblico, famiglie e contrasto alla povertà. Punto. Parliamoci chiaro: l'Italia destina alle famiglie l'uno per cento del pil, la metà della media europea, un terzo di Francia e Germania, un quarto dei Paesi scandinavi. È troppo chiedere che si arrivi almeno al livello dell'Europa? Quanto agli altri, interessi e corporazioni varie, si mettano in fila».

La Cdl ha parlato di spot elettorale.
«Non so se fosse uno spot e non è un problema mio. Io aspetto il 7 gennaio 2008 per vedere se, nella Finanziaria, alle parole corrisponderanno i fatti».

Qualcosa che ha apprezzato di Firenze?
«La proposta del ministro Bindi di creare un tavolo bipartisan per garantire continuità alle politiche familiari. È un'idea di sostanza, un metodo che dovrebbe coinvolgere anche le associazioni familiari e andrebbe allargato alle questioni eticamente sensibili. La vita non può essere un compito del governo, il parlamentare deve poter riconquistare la sua libertà. Questo è stato l'errore sui Dico. E per questo ho trovato sorprendenti gli interventi di Pollastrini e Amato».

Sorprendenti?
«Sui Dico o il testamento biologico la loro intransigenza è inconcepibile. Un po' di prudenza, andiamo: perché affermare cose che turbano la nostra coscienza? Significa non aver capito niente di quanto è successo al Family Day. Non vedere che c'è un popolo che ha detto: fate altre cose. Piero Fassino e, ogni tanto, Rosy Bindi lo hanno compreso».

C'è chi dice: con i principi «non negoziabili» addio democrazia.
«E perché? Per un laico democratico la libertà o la giustizia sono forse principi negoziabili? Se uno mette in discussione i miei principi mi oppongo e poi si vede, no? No: non si vuole che parliamo! E poi faccio una battaglia laica, mica chiedo di sposarsi in Chiesa».

Già, ma a chi nel centrosinistra cerca un dialogo come risponde?
«C'è chi ha scelto di convivere? Per carità. Non li obbligo ad andare in Comune né in Chiesa. E so che hanno dei bisogni da risolvere sul piano della loro scelta individuale: attraverso il diritto comune, il codice civile. Tutto qui. Ma la questione di fondo è un'altra».

Quale?
«La visione antropologica. C'è chi ritiene non si debba destrutturare la società ma mantenere come punto costitutivo la famiglia e chi invece ha un'idea di società individualista e libertaria. Due visioni del mondo difficilmente conciliabili».

Eppure conciliare quelle visioni sarebbe l'ambizione del Partito democratico, no? «Io non so se ce la fanno. Ho già detto che non entrerò nel Pd e sto a vedere che succede. Mi siedo sulla riva del fiume. Per carità, i miei amici popolari possono rischiare...».

E ai «teodem» che direbbe?
«Li invito ad assumere la virtù della prudenza. È meglio prendersi un po' di tempo in più e fare le cose per bene».

Ma non sta andando troppo per le lunghe?
«Mah, io avrei pensato al Pd come a un "partito area", un contenitore nel quale le diverse tradizioni politiche avessero potuto mantenere la loro identità e autonomia. Forme organizzate che si associano. Un luogo che garantisse alla mia cultura di vivere. Ma non è avvenuto».

Quindi?
«Mi batto per i miei valori, per una cultura che in Italia deve mantenere la capacità di esistere. Perché devo annullarmi, scomparire?».

Addio bipolarismo?
«Ma no, semmai sono per un bipolarismo mite. Non dico questo contro nessuno. Nel sindacato ho sempre vissuto un rapporto sereno con i comunisti. Si può vivere anche nella diversità. Certo, bisogna semplificare il quadro politico, ma il pluralismo non è in contasto con il bipolarismo».

In un convegno su don Mazzolari ha detto a Veltroni: non mettetelo nel Pantheon.
«Il Pantheon è l'inizio del declino dell'impero. Quando non si riusciva più a governare hanno messo là tutti gli dèi perché in realtà ce n'era uno solo: l'imperatore. Per questo detesto il sincretismo».

Parlava del «popolo» del Family Day...
«Sono sommerso da e-mail che ci incitano ad andare avanti».

E ora?
«Non è che ce ne torniamo a casa. Ci sono altre questioni eticamente sensibili: il testamento biologico, per dire. Questa è la svolta del Family Day: il mondo cattolico non è più solo un serbatoio di voti, ma una soggettività che può mettere in campo i propri valori».

di GIAN GUIDO VECCHI dal Corriere della Sera del 28/05/07

Che cos'è l'anti-politica?

In questa fase l'attenzione di molti tra politologi e commentatori sembra focalizzarsi sull'antipolitica e sul suo crescente appeal. C'è chi la vede come un rischio imminente e chi invece -ed è la maggioranza- la percepisce già nella realtà vissuta in questi nostri tempi. In Italia tale riflessione ha conosciuto un rinnovato interesse come dimostrano i recenti interventi sul tema di autorevoli personaggi. Del resto, questo argomento non è nuovo al dibattito italiano nel quale l'antipolitica è stata denunciata. Antipolitica o populismo, i fenomeni di "degenerazione" o "snaturamento" della politica si sono evidenziati con forza nel periodo post-tangentopoli con l'ascesa della Lega Nord di Umberto Bossi prima e poi con la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel '94. Tra le tante analisi si cela una dicotomia tra politica e antipolitica o tra democrazia e populismo. Al di là delle considerazioni teoriche, è opportuno soffermarsi su alcune domande sull'antipolitica e le sue caratteristiche. Cos'è l'antipolitica, come nasce e come si esplicita e che cosa la connota? Come si pone rispetto al populismo? Sono queste domande importanti che ci aiutano a capire meglio quello che oggi è una crisi profonda della politica.
Va sottolineato in via preliminare il fatto che la parola antipolitica si configuri spesso come un concetto teleologico nel senso che il suo significato varia a secondo dell'idea di chi ne fa uso. Forse è questa flessibilità di linguaggio che autorizza ogni tipo di ragionamento e non consente di valutare il fenomeno e la sua consistenza reale. Quindi per evitare semplificazioni che rischiano di conseguire sottovalutazioni mistificatrici o agitazioni fantasmagoriche, è utile chiarire questo concetto e il suo esplicitarsi. Se l'antipolitica si caratterizza con la sua natura "anti" cioè se l'antipolitica nel suo significato letterale rinvia a "l'essere contro la Politica", va anche detto che ciò non basta per spiegare un fenomeno che oggi investe la politica e che può avere implicazioni diverse. In altre parole, non basta dire che si tratti di un fenomeno di rifiuto o negazione dalla Politica anche perché ciò non è sufficiente a chiarire né le forme né tanto meno gli esiti che la "contestazione" della politica può assumere. Dal nichilismo all'anarchismo, dal terrorismo al qualunquismo, dal populismo alla disaffezione elettorale, l'antipolitica può far appello a diverse strategie e può avere mire diverse. Basti pensare che le risposte antipolitiche se la prendono a volte con la democrazia o con le sue istituzioni (governo, parlamento e partiti) e altre volte ancora con le ideologie o la stessa legittimità del potere politico.

In generale le spinte antipolitiche sono effetti patologici e degenerativi la cui causa va ricercata nella crisi di legittimità dei partiti e nella loro scarsa capacità di governare i processi sociali e di definire un progetto di società in seguito al tramonto delle ideologie del Novecento. Quel che è venuto meno è l'efficacia della prospettiva nazionale della politica di fronte alla mutazione genetica della società moderna con l'avvento del globalismo. Sta qui il senso di impotenza che delegittima il sistema dei partiti che sempre più sono incapace d rinnovarsi e di operare una riforma della politica. Un vuoto e uno spazio dove appunto alcune forze si inseriscono denunciando la crisi della politica e candidandosi come alternativa. Si sa che la Natura ha orrore del vuoto! E ciò vale anche per la politica. Questa mi pare il punto di partenza per ogni considerazione sull'antipolitica e la sua forma più incisiva nelle società contemporanee che è il populismo. Il declino delle ideologie, la crisi di sovranità dello Stato e infine l'inerzia del sistema dei partiti sono le cause principali della crisi della Politica. Nell'età matura della società moderna basato su regimi democratici forse il populismo resta la forma più concreta di politica antipartitico. Si rammenta che il concetto di populismo nacque contro l'aristocrazia tradizionale e si batteva per un sempre maggiore allargamento, in estensione e in profondità della democrazia. All'origine i populisti ritenevano che la sovranità del popolo fosse confiscata e che la democrazia sia stata soffocata dall'opprimente potere degli interessi finanziari, degli uomini politici corrotti e via dicendo.
Come tutte le forme di antipolitica anche il populismo si alimenta della crisi dei partiti, della loro debolezza e incapacità a rappresentare l'interesse generale. In questo senso esso si muove nel solco della democrazia e con un linguaggio non convenzionale tenta di far accettare la sua deliberata offerta di soluzione e di futuro. Spesso la sua proposta acquisisce credibilità in quanto "exit strategy" dall'inerzia dei partiti la cui denuncia trova consenso sempre più nell'opinione. Il populista spesso riesce a dire ciò che la maggior parte della gente vede, cioè che la politica in crisi non è una cosa bella né utile per la gente, che la politica ha smesso di essere una missione, un servizio ma un affare di cui beneficiano solo i politici. Quindi è del tutto evidente che il suo linguaggio e la "sua offerta politica" appaiono tanto più attraenti quanto più la politica continua a galleggiare nel politicantismo e i partiti restano dei gruppi auto-referenziali senza visione né progetto per la società. Una politica che diventa sempre più spesso una questione di conquista del potere o di marketing elettorale tra forze concorrenti ma convergenti sul grande gioco.
Va detto che non solo il populismo ma anche altre istanze o "produttori di senso" stanno lì pronti a proporsi come alternativa. Poiché la crisi della politica è anche una crisi di valori prima ancora che di efficacia, allora si spiega quanto l'attivismo di nuovi centri di produzioni di valori siano impegnate a soddisfare la domanda di senso. Penso al discorso delle religioni e della religiosità che assumono sempre più centralità nella vita pubblica. La crescita dei fondamentalismi è proporzionale alla crisi delle ideologie e della politica, gli integralismi più o meno violenti fioriscono con la debolezza dello stato. Il rinnovato dibattito sulla laicità è la prova di quanto non sia stata risolta la questione e quanto la voglia di tornare alle "fondamenta" sia forte. Dal caso Welby ai DICO il tema di una compatibilità tra morale laica e etica pubblica è più che mai presente. Insomma si potrebbe dire con una battuta che il "tempio" è in perdizione tornate allo spirito assoluto cioè al dogma della verità rivelata per la vostra salvezza. Se la politica non riesce a risolvere la sua crisi, se le forze politiche tradizionali non sono in grado di auto-riformarsi, se non ci si inventa una nuova Politica della Politica allora fenomeni di antipolitica saranno sempre pronti a colmare il vuoto e il rischio che ne deriva per la democrazia e per la società è evidente. Si rammenta che l'antipolitica è un affare che rende nel momento in cui l'inerzia della politica porta alla disaffezione dei cittadini e coloro i quali vogliono investire su questo terreno sono molti.

di ALY BABA FAYE da Aprileonline del 25/05/07

domenica 27 maggio 2007

Kessler sfida Dellai «Pd anche senza di te»

«Il Partito democratico nascerà in tutta Italia il 14 ottobre 2007, Trentino compreso, che Dellai lo voglia o no. Io mi auguro che anche lui ci sia, ma è chiaro che il progetto è indipendente da Dellai e da quello che deciderà di fare personalmente». Giovanni Kessler, ex deputato dei Ds e oggi presidente dell'Associazione per il Partito democratico in Trentino, è stanco di vedere le titubanze di Margherita e Ds, che pendono dalle labbra del leader Lorenzo Dellai e non si muovono prima di sapere cosa farà il governatore. E intanto annuncia che l'Associazione prenderà l'iniziativa con un'assemblea l'8 giugno per dare vita, assieme a Ds e Margherita se ci staranno, al comitato che a livello locale dovrà organizzare la partecipazione trentina e dunque le liste per la costituente nazionale di ottobre.

Giovanni Kessler, il governatore Dellai non risparmia critiche al modo in cui sta nascendo il Partito democratico e ne prende le distanze dicendo che in Trentino va costruito qualcosa di diverso, più territoriale. Questa posizione del leader del centrosinistra trentino rischia di boicottare il progetto secondo lei?
Dellai non può fermare quanto sta già accadendo. Anche il Trentino parteciperà alla costituente del Partito democratico ovvero anche gli elettori trentini interessati avranno la possibilità di scegliere la classe dirigente del nuovo partito nazionale e anche quella del centrosinistra trentino. L'Associazione farà di tutto perché partecipi il maggior numero di persone e soprattutto per fare in modo che i candidati siano un gran numero di volti nuovi, specie giovani e donne.

Come avverrà tutto questo?
Ci saranno liste aperte che non saranno, probabilmente, né solo della Margherita né solo dei Ds, si voterà sui collegi dei deputati e il Trentino avrà diritto a circa 15 dirigenti nel Partito democratico nazionale. Io mi auguro fortemente che Dellai a tutto ciò partecipi, facendo venire a votare tanta gente, candidandosi anche lui, però, ciò detto, deve essere chiaro che queste votazioni in tutta Italia, anche in Trentino, avverranno che Dellai lo voglia o che non gli interessi niente.

Vuole dire che il Partito democratico può anche fare a meno di Dellai?
Io osservo semplicemente che non è che le sorti del centrosinistra trentino dipendono solo da Dellai. Mi sembra che un certo dibattito si sia sviluppato, non solo da parte sua ma anche di chi gli risponde, sull'interrogativo: "Oddio, 'sa falo Dellai?". E i dellaiologi si scatenano nelle previsioni.

Ma finché riconoscete che Dellai è ancora il leader del centrosinistra non è del tutto ininfluente sapere che intenzioni abbia, non pensa?
Il partito che nascerà anche in Trentino il 14 ottobre esprimerà poi anche il suo candidato alla presidenza della Provincia nel 2008 scegliendolo con le primarie. Io mi auguro fortemente che Dellai ci sia nel nuovo Partito democratico e che partecipi alle primarie per il candidato alla presidenza dove è presumibile che non avrà difficoltà a vincere, ma nella malaugurata ipotesi che lui non partecipi, sappia che lo farà qualcun altro e questi altri faranno una loro lista del Pd con un loro candidato. E a quel punto voglio vedere come Ds e Margherita potranno presentarne una loro.

In questo caso, potrà esserci una sfida Kessler-Dellai?
Il candidato sarà scelto dalle primarie, ma il Pd avrà il suo candidato anche se lui non ci sarà. Io dico a Dellai che i suoi programmi di vita non possono condizionare la nascita del Pd. Trovo un provincialismo spaventoso nel fare dipendere tutto da cosa pensa lui.

Dellai e la Margherita non dicono no al Pd ma insistono sull'esigenza di creare un soggetto territoriale, originale, federato a quello nazionale. Non condivide questa esigenza?
Questo è fumo negli occhi. Mi dovete spiegare cos'è il partito territoriale. Avete mai visto un partito extraterritoriale. Com'è? È fatto di omini verdi con le antenne sulla testa e le alette? Il Partito democratico lo faranno gli elettori trentini e sceglieranno tra candidati trentini, che saranno il primo nucleo fondante del Pd trentino. Sarà una esperienza rivoluzionaria.

Per questo ci sono tante resistenze?
È chiaro, da parte dei vertici di partito consolidati che non sono abituati a essere messi in gioco così, e di chi pensa solo al suo posto in lista alle provinciali del 2008.


di L. P. da l'Adige del 26/05/07

Boato: «Dellai ha perso la bussola politica»

Marco Boato è preoccupato per il comportamento del governatore Lorenzo Dellai e dichiara: «Ha perso la bussola politica». Lo preoccupano le sue prese di posizione a sorpresa affidate ad interviste, da quella del febbraio scorso sulle piste del Cermis, alla più recente, rilasciata sempre all' Adige , venerdì scorso, in cui ha bocciato il Partito democratico, ha parlato della crisi della politica e ha spiazzato tutti riaprendo il dibattito sulla riforma della legge elettorale provinciale, chiesta dal centrodestra. Si tratta di una serie di riflessioni sul futuro del centrosinistra trentino che il leader ha maturato da solo e che ha espresso senza condividerle prima con la sua coalizione e men che meno con la Margherita. Ed è proprio questo pensare da solo e muoversi da solo, senza nessun coinvolgimento dei partiti che compongono la sua maggioranza, con l'obiettivo di cercare un filo diretto con i cittadini, che sta suscitando allarme e malcontento tra gli alleati.
Il deputato e presidente dei Verdi del Trentino parla di questo atteggiamento di Dellai con l'ansia di chi non riconosce più il leader di cui per primo ha proposto la riconferma per le elezioni provinciali del 2008 e ora non risparmia critiche durissime.

Onorevole Boato, cosa la inquieta delle prese di posizione del presidente Dellai?
Io sono molto preoccupato per lui e per noi perché vedo il rischio di una deriva cossighiana in questa pluralità di esternazioni elaborate in angosciata solitudine che non portano da nessuna parte, come quelle sulle ipotesi di modifica della legge elettorale, con cui smentisce sè stesso e gli accordi di coalizione.

Cosa intende per deriva cossighiana?
Non è un'offesa, perché Cossiga è una persona intelligentissima e lo conosco bene, ma con le picconate solitarie non si costruisce un futuro della coalizione. Mi pare che lui esprima insoddisfazione per la realtà politica e sia alla ricerca individuale di una soluzione, ma quelle che ha prospettato fino ad ora sono tutte molto deboli. Il tentativo di rilanciare la coalizione non può avvenire in una angosciata solitudine. Lui si comporta come un uccello in gabbia che sbatte di qua e di là contro le sbarre.

Cosa non condivide delle affermazioni di Dellai?
Io condivido tutta la critica di Dellai su come sta nascendo il Partito democratico, dunque la diagnosi, ma non la terapia. L'alternativa da lui proposta è troppo localistica e provincialistica e non porta da nessuna parte, oltre a non corrispondere alla cultura politica di Dellai e terrebbe fuori il Trentino dai processi nazionali.

Le aperture a modifiche della legge elettorale, come la soglia di sbarramento, non le piacciono perché penalizzano i piccoli partiti come i Verdi?
Non è questo che ci spaventa. L'idea della soglia di sbarramento è stupida politicamente in un sistema con premio di maggioranza. Ma è inaccettabile che lui cambi idea con esternazioni prive di rapporto con la coalizione che suscitano gli elogi di Malossini e Udc. Mi lascia sconcertato. Mi sembra che Dellai dimostri un comportamento irresponsabile, ha perso la bussola politica. Non voglio svegliarmi ogni mattina chiedendomi cosa avrà detto oggi ai giornali.

Basta con questa sceneggiata. Cosa intende per sceneggiata?
Un giorno affida a un gruppo di professori lo studio sulla democrazia di base, un altro dice di aver coinvolto 100 ragazzi per elaborare un nuovo linguaggio della politica, ma dobbiamo ancora vederli, e poi usa parole slogan come «spirito di Land» che dicono tutto e niente. Invece di parlare di Land, inizi a fare qualcosa per riformare lo statuto di autonomia. Dal 2 febbraio quando Prodi è venuto a Bolzano non è ancora partito il tavolo regionale Unione-Svp.

Non mi iscriverò al Partito democratico. Peggio della Dc, niente laicità e tanta nomenclatura.

Caro direttore, che paradosso! Ho sognato per anni la formazione di un Partito democratico, e giusto fino a ieri ho partecipato attivamente a convegni, pubblicazioni, proposte orientate a questa finalità. Invece adesso, quando il momento parrebbe finalmente giunto, ho deciso con enorme sofferenza che a questo partito io non mi iscriverò, e anzi abiuro e rinnego tutte le «belle parole» spese finora. Le ragioni sono molte, e tutte, mi auguro, seriamente motivate.
La prima è che il futuro partito si mostra come la somma di nomenclature già esistenti. Per carità, non ho mai immaginato né desiderato che chi fa politica attiva debba oggi essere licenziato. Ho sperato, tuttavia, che l'ingresso in un nuovo organismo — che dovrà pur fondarsi su idee anch'esse nuove, altrimenti perché lo si fa? — spingesse tutti a rimettersi in gioco, a farsi votare da assemblee costituenti locali, per poi salire su su fino ai massimi livelli nazionali. Qui no: tutto è «rappresentanza», «quota», «visibilità», cioè proprio quei caratteri che hanno reso la politica così antipatica alla stragrande maggioranza dei cittadini. Addirittura, questo partito nasce con le sue correnti già precostituite e dotate di percentuali. Fra l'altro, con la conseguenza che, per rispettarle, le sue strutture saranno per forza mastodontiche, e la politica costerà sempre di più. Altro che svolta verso nuove forme di partecipazione!
La seconda ragione è che il futuro partito — se nuovo — dovrebbe aver già esplicitato le sue scelte e disegnato le sue innovazioni. Quanto meno: qualcuno dovrebbe averne già elaborato un loro schema ideale, in modo da far capire con chiarezza la sua missione, spingere gli aderenti a crederci e magari persino a entusiasmarsi. Mi sarei atteso insomma che poche persone competenti e autorevoli redigessero un manifesto politico e una carta costituente, e la sottoponessero poi al giudizio delle segreterie dei partiti, dei movimenti, delle assemblee degli eletti fino a giungere a una piattaforma di contenuti condivisi. Non l'invocazione astratta contenuta nel Manifesto dei Dieci di qualche tempo fa, ma una vera proposta costituente. Qui no: il comitato dei 45 «fondatori» non contiene di sicuro (perché non ne ha lo scopo) molte persone in grado di leggere e scrivere un progetto di filosofia politica, né molte in grado di strutturare un sistema di regole di partecipazione. Essendo tutti «rappresentanti», potranno al massimo pilotare il traghettamento dagli organismi a cui appartenevano a quelli che li ingloberanno in futuro. Altro che apertura verso nuove maniere di conquistare il consenso della collettività!
Il terzo motivo è che manca la precondizione necessaria per la nascita di un partito democratico, e cioè una solenne dichiarazione di laicità. «Democrazia» e «laicità» sono infatti due sinonimi, persino nell'etimologia: vengono da due parole greche, dèmos e làos, che significano entrambe «popolo», e intendono che il potere di prendere decisioni che riguardano tutti spetti a coloro che vengono eletti da quei tutti, sulla base di valori di libertà universalmente accettati. Se invece alcuni principi derivano da credenze «esterne» — come nelle religioni, che impongono una morale derivante dal loro Dio o dalle loro chiese — ebbene la democrazia non c'è più, c'è una libertà condizionata. Così, mentre democrazia e laicità garantiscono la vita stessa di tutte le religioni, le religioni finiscono per fare esattamente l'opposto. Ebbene, il nuovo partito nasce privo di una chiara espressione di questo spirito. È per natura una Democrazia cristiana con altro nome, anzi con un pensiero teocratico nascosto che quel partito non possedeva in questa proporzione. Il che non fa presagire niente di buono per resistere all'offensiva ideologica di papa Ratzinger in questo momento in atto. Altro che partito kennediano, il cui presidente cattolico affermava che in politica obbediva per prima cosa alla Costituzione!
Resta davvero assai poco da fare, insomma, per chi creda nella cosiddetta «democrazia partecipata». Rimane soltanto il principio di stare rigorosamente fuori da qualunque organizzazione politica, ed esercitare le armi — ahimè un po' spuntate e talora assai altezzose — della critica più severa, soprattutto la critica a coloro che dovrebbero esprimere concetti e sentimenti nei quali in teoria mi identifico, e che invece ne producono l'amaro fallimento. Oppure, per non essere definiti «qualunquisti», applicare alla lettera l'antica osservazione di Carlo Marx: «La rivoluzione non c'è stata, bisogna ancora leggere molto». Ma, in questo Paese così televisivo, ci rimarrà almeno quest'ultima difesa?

di OMAR CALABRESE dal Corriere della Sera del 27/05/07

Sinistra democratica La Roma che sta con Mussi cerca una Casa comune

Roma Testaccio, Garbatella, Tufello. Sono quartieri popolari dove è storicamente è fortemente radicata la sinistra romana. Qui la mozione Mussi-Salvi ha vinto l'ultimo congresso dei Ds, in alcuni casi con percentuali che al tempo del Pci si sarebbero definite bulgare. Con la sinistra si è schierata gran parte della cintura popolare, da Prima Valle a Torre Angela. Ma anche in sezioni con una composizione sociale mista, come Alberone, Talenti, Esquilino, Trionfale, Fassino ha dovuto incassare una pesante sconfitta. Lo stesso è successo a Ostia e Ostia antica, o a Vitinia sulla via del mare. La mozione Mussi è andata bene anche in quartieri né popolari né di sinistra, come la Balduina. Il 23% dei voti a Roma, a cui si aggiunge il 13% della mozione Angius, la cui partecipazione numerica alla formazione della Sinistra democratica «stiamo valutando», ci dice il coordinatore di Sd nel Lazio, Angelo Fredda. Il coordinatore romano, Massimo Cervellini, insiste sulla natura prevalentemente popolare del nuovo movimento e ci suggerisce una riflessione: «In questa città così caratterizzata dal volto e dai modi accattivanti del sindaco Walter Veltroni, ci si sarebbe potuti aspettare un trionfo del metrò che porta al Partito democratico. Le cose non sono andate così, e questo aiuta a capire meglio Roma e le sue sfaccettature». Le scelte individuali sono segnate da tanti elementi. I nomi di spicco, i compagni con ruoli nelle assemblee elettive, dell'area Angius hanno deciso di correre verso il Pd, mentre in quartieri come il Tiburtino o Pietralata chi ha votato la terza mozione congressuale sta passando in massa in Sd. Persino tra i sostenitori di Fassino c'è chi ha già perso le speranze nel Pd, «colpa dell'accentramento burocratico e dei contenuti sempre più centristi. Sta avvenendo all'Esquilino, dove alcuni compagni vengono con noi», dice Cervellini.
Nelle piazze e nei mercati
La prima considerazione del cronista che ha visitato sezioni e incontrato molti compagni e compagne del movimento «Sinistra democratica per il socialismo europeo», è che a Roma esiste e resiste una sinistra forte. E' militante, appassionata, legata al territorio («i comunisti della capitale»); tiene aperte le sezioni tutti i giorni e al sabato garantisce una presenza al mercato di quartiere con i volantini e i questionari, come succede al Testaccio il cui segretario di sezione, Vincenzo Smaldore, ha appena 23 anni; le lotte per la casa e la sanità si alternano con gli attivi su «fase politica e nostri compiti». Gli anziani che abitano le case popolari senza ascensore costruite al Tufello per gli italiani in fuga dalla Libia «li portiamo in braccio al seggio a ogni elezione», racconta il giovane segretario della sezione Fabrizio Picchetti, un figlio d'arte. Le elette e gli eletti nelle circoscrizioni due volte a settimana vanno in sezione ad ascoltare problemi e richieste della «gente».
Sono in molti quelli che dopo aver condiviso o (mal)sopportato tutte le svolte e le trasformazioni del vecchio Pci non sono tornati a casa, né si sono adeguati al nuovo Pd che forse avanza e forse no, anzi ritrovano il gusto di fare politica in una forza che dice di non voler fare un partitino ma di contribuire a riunificare la sinistra. Di anime, però o per fortuna, ce ne sono molte in Sd. C'è chi, trentenne, non ha mai preso tessere e chi la tessera l'aveva stracciata in una delle tante giravolte del dopo muro di Berlino. C'è chi aveva tentato altre strade, in Rifondazione o nel Pdci, ma era rimasto con l'amaro in bocca. Ci sono movimentisti e partitisti. Ci sono tanti delegati, quadri e dirigenti sindacali. Nelle sezioni incontri militanti con un passato nel Manifesto, in Lotta continua, in gruppi cattolici. Ma a Roma incontri soprattutto una forte domanda di partecipazione politica di chi si aspetta un processo unitario nel territorio.
Una fucina del dissenso
La Villetta è la sede storica del Pci alla Garbatella, «presa nel '44, era la sede del Fascio», ricorda il segretario Natale Di Schiena, un ex manifestino «natoliano» che si batte come un leone perché la sezione venga assegnata a Sd: «Abbiamo vinto il congresso con il 61,9% dei voti, a cui se ne aggiungono alcuni della mozione Angius». E' stato eletto segretario dei Ds, e non smetterà di esercitare il mandato congressuale finché non sarà definito il destino della sezione. Qui a Garbatella la sinistra è da sempre egemone, e nel Pci-Pds-Ds è egemone la sinistra. Già nel '66 nei locali dedicati ai partigiani Francesco e Giuseppe Cinelli (uccisi dai nazisti alle Fosse ardeatine), si respirava aria ingraiana. Dopo la svolta di Occhetto fu molto forte la componente che scelse di fondare Rifondazione, conquistando un piano della Villetta. Quartiere popolare, struttura architettonica fascista di pregio nata per garantire al regime il controllo sociale e diventata una fucina del dissenso sociale e politico romano. La Villetta è un punto di riferimento per un quartiere vissuto da operai, impiegati, pensionati e giovani coppie, in cui sono attivi anche il Prc, il centro sociale La strada («con loro mai litigato né fatto iniziative insieme, salvo la dovuta solidarietà in caso di provocazioni fasciste»), una sede dello Sdi. Le iniziative non mancano, dal Festival jazz al Festival dei popoli, alle Feste dell'Unità a cui forse si affiancheranno le Feste di Aprile. Ora Sd sta tentando di costruire un coordinamento nel quartiere tra le forze di sinistra «su casa, salute, welfare», sapendo che «la spinta unitaria è più forte nella base che nei gruppi dirigenti».
«Non abbiamo vinto puntando sul ricordo del passato, una memoria che pure conta: il motore di Sd non è la nostalgia ma la politica, punti di vista precisi sulla questione sociale, la precarietà, il rifiuto della guerra, la laicità», dice Natale. Laicità? «Vai a spiegarlo ai compagni che non hanno mai visto di buon occhio il rapporto Dc-Pci che il futuro è nel Pd con i post-democristiani». Qui tutti pensano che alla prossima scadenza elettorale, le provinciali romane, «la sinistra dovrà presentarsi unita». Per sinistra si intende la sinistra, naturalmente non si parla del Partito democratico che «per una citazione di Togliatti ne fa cinque di De Gasperi«. Alla Garbatella, se sull'Afghanistan si facesse un referendum tra i 123 iscritti della Mussi («Fabio è iscritto da noi»), «si schierebbero tutti per il ritiro».
Anche a Testaccio sventola da sempre la bandiera rossa, affiancata da quella giallorossa della Roma. «Difficile dire chi vincerebbe il referendum sull'Afghanistan, forse finirebbe 50 a 50», dice il consigliere comunale Roberto Giulioli. Paolo «lo splendido sessantenne» sottolinea i rischi di una «fuga da Kabul», Vincenzo il giovane segretario teme «la vendetta dei talebani sulle donne», gli altri compagni e compagne che mi ricevono in sezione scuotono la testa, poco convinti di tutti quei se e quei ma. Più del 60% dei testaccini vota «ancora» a sinistra, il 40% sceglieva i Ds. In questa sezione che comprende anche Aventino e San Sabba, la Mussi ha raccolto il 59%, Angius il 6% e Fassino s'è fermato al 35%. Il quartiere ha subìto una trasformazione radicale, una sorta di rivoluzione che rischia di farne un'area snob della capitale: pub, ristoranti, soprattutto discoteche «che fanno casino fino alle 6 del mattino e la gente non ne può più, la notte non si dorme e non si circola, sembra di essere in via Condotti il sabato pomeriggio». Evi sta preparando un questionario per addentare questa contraddizione e rivendica l'autogoverno del territorio, contro l'accerchiamento del Monte dei cocci. Il 60% dei testaccini vive ancora nelle case ex Iacp, la popolazione sta invecchiando. I militanti di Sd vogliono mettere il becco su tutto e difendono la vivibilità e la composizione sociale del quartiere, in cui convivono tradizione e presunta modernità. I «cavallari» con le stalle e le carrozzelle che di giorno «spupazzano» i turisti tra i Fori e piazza del Popolo vivono accanto all'area in ristrutturazione del vecchio mattatoio dove finirà un pezzo di Università, le Belle arti e quant'altro, «altre 25 mila persone che pendoleranno sul Testaccio, un incubo».
Mentre discutiamo con i e le militanti di Sd nell'ala sinistra della sezione, un sottile muro ci divide dalla riunione dei Ds, anzi dei non più Ds e non ancora Pd. Qui, come al Trionfale, le sedi saranno divise in due («Potevamo forse buttar fuori quel 35% di compagni fassiniani?», si chiede Giulioli. Lunedì il movimento è stato presentato al quartiere in un'assemblea numerosa e partecipata. «C'è entusiasmo - assicura la consigliera municipale Gabriella Casalini - ci siamo liberati da un incubo. Io vengo dal Pdup, e mi devi credere se ti dico che al tempo dei girotondi eravamo accusati di lavorare contro il partito». «Liberazione, ma anche dispiacere per la rottura E un po' d'incertezza per il futuro», corregge un'altra militante. Stringere i rapporti con il resto della sinistra, «lavorare per presentarci unitariamente alle elezioni, ma sapendo che noi abbiamo una cultura di governo, gli altri meno», sostiene Paolo che non nasconde le sue origini «extraparlamentari» ma contesta l'idea che «noi saremmo la tradizione e i fassiniani la modernità». Tutti pensano che il patrimonio culturale cresciuto nel quartiere vada salvaguardato e valorizzato, fermando «i tentativi di trasformare il Testaccio in un parco divertimenti che mettono a rischio la convivenza civile». Qui c'è la prestigiosa Scuola popolare di musica di Giovanna Marini, ma c'è anche un tessuto artigiano «che è una risorsa, non un residuo». I rapporti con il governo? «Lealtà e senso di responsabilità, lo sfascio non serve ma ci sono dei limiti, oltre i quali è importante riconquistare un'autonomia politica», dice Gilioli. «Non si può andare avanti all'infinito agitando lo spauracchio Berlusconi». Il segretario rivendica una continuità con le lotte contro la guerra e le basi americane. Nel volantone colorato che tappezza il tavolo della sezione sono elencate le priorità di Sd: «Lotta alla precarietà; pari opportunità; difesa dell'ambiente; laicità dello stato; etica della politica; pace». «Ci sono gli apparati anche tra noi, ma è più forte la spinta unitaria. Chi aveva come priorità la difesa di un posto, di uno status, ha scelto di trasmigrare con Fassino nel Pd», dice Roberto. Ma è inutile negarlo, anche il Testaccio sta cambiando, nella composizione sociale e nella testa della gente. Mentre mi salutano, i testaccini di Sd, vogliono che appunti sul quaderno un ultimo pensiero collettivo: «Sarebbe bello trasformare questa nostra sede in una Casa comune della sinistra». Fuori, il sole è tramontato, il traffico aumenta e le discoteche si preparano ad accogliere il popolo della notte.
Percentuali bulgare per Mussi
Anche la sezione del Tufello ha una storia ingraiana, massicciamente schierata nel '90 contro la svolta di Occhetto. Le mozioni Mussi e Angius hanno raccolto addirittura l'81% e il 5%. Operai, qualche delegato sindacale, molti edili, pensionati, impiegati, insomma popolo: venerdì scorso hanno partecipato in tanti all'assemblea di presentazione di Sd nel territorio, «abbiamo dovuto mettere le trombe fuori perché la gente non entrava tutta in sala», dice con una punta d'orgoglio il segretario, Fabrizio. Nessuno mette in dubbio la destinazione futura della sede: «anche volendo, i fassiniani non potrebbero tenerla aperta». Nel quartiere operano anche il Prc, lo Sdi, il centro sociale Astra, la Sinistra rosso-verde nata da una fuoriuscita dal Pdci. «Stiamo creando le condizioni per aprire una Casa comune di tutta la sinistra». Il Tufello è accerchiato da speculazioni edilizie e ipermercati, anche qui il controllo del territorio è al vertice dell'iniziativa di Sd.
La Cgil romana non ha una particolare tradizione di sinistra. Eppure, molti quadri e dirigenti hanno sostenuto con convinzione le posizioni di Mussi. A partire dal segretario regionale del Lazio Walter Schiavella che insiste sul carattere personale delle scelte, perché «la Cgil deve restare autonoma». Perché Sd? «Perché non si sente l'esigenza di un altro partito più vicino all'impresa che ai lavoratori. Se è vero che viviamo in una società complessa, le ricette semplici hanno le gambe corte». Tiene a precisare: «Sto con Sd, ma a condizione che lavori a produrre unità e non nuova frammentazione a sinistra». Lavoro e precarietà, casa e servizi, «in una città dove con la modernità crescono aree di marginalità». Una ricetta per invertire la tendenza: «La partecipazione».

di LORIS CAMPETTI da il Manifesto del 25/05/07

La Sg senza guida e senza ruolo nel Pd

Come scrissero qualche tempo fa in un articolo a firma congiunta Francesco Mosca, segretario nazionale della Fgs, e Antonio Pataffio, primo firmatario della seconda mozione della Sinistra Giovanile, la Sg con l'elezione di Filibeck alla presidenza dell'Ecosy avrebbe dovuto difendere l'ortodossia dei giovani socialisti europei anche in Italia. Chissà cosa hanno pensato i nostri coetanei compagni europei quando, all' invito fatto giustamente dallo stesso Francesco Mosca al segretario nazionale della Sinistra Giovanile Fausto Raciti a partecipare alla manifestazione del Coraggio Laico di Piazza Navona, quest'ultimo ha risposto negativamente motivando il rifiuto con la volontà di non alimentare uno scontro frontale fra fazioni opposte che rischiano di non far avanzare i diritti civili. Una risposta che poteva essere del tutto legittima se fosse venuta da Pina Picierno, presidentessa dei Giovani DL; direi invece il contrario nel caso di Raciti poiché deriva da chi è diventato segretario della Sinistra Giovanile con una tesi che sosteneva che all'interno del nuovo soggetto politico, il Pd, ci possono essere le condizioni per tenere a sinistra il nascente partito e per far prevalere all'interno di esso le idee di una sinistra nuova e riformista.
Ci duole dire al caro compagno Raciti e a tutti quei compagni che lo hanno sostenuto che noi giovani della Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo, forti della tesi di Antonio Pataffio che abbiamo appoggiato nell'ultimo congresso nazionale della Sg, ci siamo ritrovati sabato scorso a Piazza Navona. Come abbiamo già detto, e oggi più che mai ne siamo convinti, l'attuale gestione Raciti-Speranza si sta spostando verso una forte convergenza a destra affievolendo sempre più la volontà di continuare la battaglia sui grandi temi della Ecosy, dei diritti civili e sociali nel nostro paese, della identità di sinistra all'interno del Pd, ma soprattutto della reale volontà di continuare un'appartenenza alla Ecosy.
Se state già pensando ed agendo come se la Sg sia già di fatto sciolta o reinventata in un nuovo soggetto giovanile per il Pd, beh ci sembra che siate sulla buona strada. Noi notiamo con piacere come quella autonomia che distingueva la Sg dal gruppo maggioritario dirigenziale Ds sia stata messa da parte. Oggi più che mai vorremmo invitare quei compagni indecisi che votarono la tesi Raciti-Speranza, e gli stessi segretario e presidente nazionale, ad una serena riflessione sulla direzione che ha intrapreso la Sinistra Giovanile, se mai davvero ne abbia presa una chiara.
Questa maldestra mentalità giovanile dimostra il precoce invecchiamento della direzione nazionale della Sg, rispecchiando lo stato d'animo che si vive oggi all'interno del costituendo (o precostituito) Pd. Come i Ds non c'erano a Piazza Navona così non c'era la Sinistra Giovanile. E oggi la cosa che ci appare più evidente è che Sg non è nemmeno nel comitato del Pd per la costituente di ottobre. Né il nome del segretario Fausto Raciti, né il nome del presidente Roberto Speranza. Chi c'è al loro posto? Ottaviano del Turco e Marco Follini. Beh, come inizio per il Pd non c'è male.
Ma noi ve lo avevamo detto.

di GIULIANO GIRLANDO (SD) da Aprileonline del 25/05/07

I timori in casa DS e il lungo silenzio della Margherita

Come accadde nell’estate del 2005, quando Unipol tentò la scalata alla Bnl, anche sul caso che sta coinvolgendo il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, si stanno riproducendo nell’Ulivo gli stessi schieramenti di due anni fa. Solo che rispetto ad allora Ds e Margherita hanno dato vita al Partito democratico. Quella polemica però non sembra avere fine, torna puntualmente con l’arrivo della stagione calda. E stavolta si concentra sul trasferimento (mancato) di quattro ufficiali delle Fiamme Gialle da Milano, e per il quale l’anno scorso Visco avrebbe fatto (senza successo) pressioni sul comandante della Guardia di Finanza Roberto Speciale. Ora che la procura di Roma ha aperto un fascicolo sulla vicenda, e il Polo chiede la testa del viceministro, il centrosinistra non si mostra compatto. Anzi, è evidente la faglia che si è aperta nel Partito democratico.
D’altronde già un anno fa la questione fu al centro di un duro scontro nel governo. A luglio, durante un vertice a Palazzo Chigi tra Romano Prodi, i due vicepremier e Tommaso Padoa-Schioppa, Francesco Rutelli si oppose al trasferimento dei quattro graduati che avevano anche collaborato all’inchiesta della procura milanese su Unipol. Dopo essersi consultato con un altro ministro della Margherita, Linda Lanzillotta, il capo dei Dl mise il veto: «Non sembrerebbe un normale avvicendamento — disse nel corso della riunione — e rischierebbe di venir interpretato come una sorta di rivalsa». Rutelli — che insieme alla Lanzillotta fu tra i più strenui oppositori alla scalata di Unipol alla Bnl — l’ebbe vinta.
Ecco forse il motivo per cui i vertici della Margherita in questi giorni non si sono spesi per esprimere solidarietà a Visco. Anzi, Arturo Parisi — un altro fiero avversario dell’operazione Unipol — ha sottolineato che la questione «resta aperta». È chiaro che dinnanzi alla mozione di sfiducia presentata dal centrodestra al Senato la maggioranza voterà compatta, non concederà mai la testa del numero due dell’Economia. «Visco non si tocca», ha ripetuto il premier in questi giorni, né l’intervento della magistratura ha cambiato il suo convincimento: «Si tratta di un atto dovuto».
Ma è evidente il solco che divide le due anime del Partito democratico. Pubblicamente Piero Fassino se la prende con l’opposizione, la accusa di «manovra a fini elettorali, di cui non si sentirà più parlare dopo il voto». E come il leader dei Ds, anche il ministro Pierluigi Bersani parla di «un polverone che cesserà come tutti i polveroni». Ma il dalemiano Nicola Latorre avverte il venticello e si ribella: «Il collegamento che si fa con il caso Unipol è strumentale, perché la vicenda del trasferimento avviene dopo la chiusura dell’indagine. Perciò dove starebbe la questione morale che qualcuno prova a sollevare?». Il vice capogruppo dell’Ulivo al Senato si riferisce al Polo, «che sfrutta ogni cosa pur di alimentare polemiche», ma appena gli si evidenzia lo strano silenzio della Margherita, replica con malizia: «Non me n’ero accorto».
In realtà se ne sono accorti tutti nella Quercia, e ieri la solidarietà del ministro dl Beppe Fioroni a Visco — strappata dai cronisti di agenzia a margine di un comizio in Veneto — ha reso più fragoroso quel silenzio. Questa sottile linea rossa non divide solo il Pd, perché il resto della maggioranza non è affatto compatto. Mentre il segretario del Prc Franco Giordano ha telefonato a Visco per esprimergli la propria vicinanza, «perché sono convinto che la vicenda sia inesistente», Cesare Salvi, uno dei capi della Sinistra democratica ed ex compagno di partito del viceministro, chiede «chiarezza»: «Non ho dubbi sull’onestà di Vincenzo, però la cosa è seria, suscita molti interrogativi, e noi sulla questione morale saremo intransigenti. D’altronde — ecco la stoccata — a suo tempo criticai la scalata Unipol».
«Questione morale» e «caso Unipol» sono insomma il refrain che accompagnano il «caso Visco». E certo colpisce questo clima, quasi si dimenticassero i meriti dell’alfiere della battaglia all’evasione fiscale. Un clima che fa risaltare la posizione di un garantista come Roberto Villetti. Il dirigente dello Sdi parla agli avversari del Polo — accusandoli di «doppiopesismo giustizialista» — perché gli alleati intendano. Il venticello però non accenna a placarsi, soffia nei ragionamenti del ministro Antonio Di Pietro e in quelli del sottosegretario dl Nando Dalla Chiesa: «Serve una smentita cristallina. Eppoi esistono anche delle leggi non scritte».
Servirebbe forse un intervento più energico di Prodi per cancellare quella sottile linea rossa, ma il premier ha scelto per ora il basso profilo per non alimentare l’offensiva dell’opposizione: ieri, quando gli è stata chiesta la disponibilità a riferire alla Camera, non si è tirato indietro, «però prima del venti giugno non posso». I capigruppo dell’Unione hanno fatto muro, ma attendono di sapere le mosse successive, «perché finora — ha spiegato il presidente dei deputati ambientalisti Angelo Bonelli — non c’è stato alcun tipo di comunicazione: "Cose vecchie, cose vecchie", ci dicono. Ma in giro c’è imbarazzo e vorremmo capire».

di FRANCESCO VERDERANI da il Corriere della Sera del 25/05/07

Per Giulia Rodano, assessore alla cultura del Lazio, i valori del «rodanismo» trovano spazio nella Sd

Giulia Rodano è assessore alla cultura della Regione Lazio. Le è toccato in sorte un cognome impegnativo: il padre Franco è nella storia dell'antifascismo romano, nel '43 fondò il movimento dei comunisti cattolici, mentre la moglie Maria Lisa Cinciari ne era responsabile del gruppo femminile. Con Ossicini e Tatò diede vita al Partito della sinistra cristiana guadagnandosi, nel '45, la scomunica ad personam di Pio XII. Poi il Pci, dove Franco svolse un ruolo importante di confronto e raccordo tra comunismo e cattolicesimo. Ha avuto un rapporto stretto con Togliatti, poi con Berlinguer come «architetto» del compromesso storico. Il rodanismo è stata una componente originale della sinistra romana.

Quanto pesa nel nuovo movimento l'anima partitista?
Sinistra democratica nasce programmaticamente non per fare l'ennesimo partitino ma per essere forza «coalizionale». L'obiettivo è la riunificazione della sinistra, restituendole dignità e diritto di parola. Per dire che il re è nudo, cosa che in epoca di pensiero unico non si dice più. Che sono sbagliate molte privatizzazioni e lo è il metodo adottato per realizzarle. Che serve un'autonomia della politica...

Dalla società è talmente autonoma da non vederla più.

Naturalmente intendo autonomia dall'economia. Io credo nell'intervento pubblico, perché serve un potere democratico che governi il mercato. Va cambiato il cammino imboccato dall'Unione europea che oggi è solo politica monetaria e Bolkestein, con un'iniezione di politica economica e di politica sociale. Per tornare in Italia, come Sd abbiamo a cuore lo scandalo dei costi della politica che hanno qualcosa a che fare con la caduta della partecipazione popolare e democratica: prima che una questione morale, come direbbe Berlinguer è una questione democratica.
Coalizionali, ma per non perdere tempo avete già le tessere.
Per svolgere una funzione politica dobbiamo costituire dei gruppi nelle istituzioni, anche per essere un punto di riferimento per chi vuol tornare a fare politica, e sono tanti. I rischi di apparato esistono, come forma di resistenza, ma possono essere sconfitti. A Roma il congresso è andato bene perché c'è un elettorato d'opinione di sinistra, non solo scontenti e apparato. Così come non credo in un nuovo partitino, non credo nelle fusioni fredde tra gruppi dirigenti delle forze esistenti. Credo invece che dovremo arrivare a una presentazione unitaria già alla prossima tornata elettorale. In Regione abbiamo costituito un coordinamento tra le forze di sinistra, ci vediamo settimanalmente per definire gli interventi comuni.

Esiste ancora il «rodanismo»?
E' una domanda difficile. Certo non esiste una corrente rodaniana in Sd, dove però vivono molte idee di mio padre, certamente più che nel Pd. L'eredità più importante è una concezione profondamente laica della politica.

La laicità dei catto-comunisti?
Certamente, a partire dalla consapevolezza che «il Regno non è di questo mondo». Un'altra eredità consiste nella convinzione che il mercato va governato, perciò serve un'autonomia della politica. Infine, se posso citare un libro di mio padre («Lezioni di storia possibile», ndr), pensiamo che è sempre possibile un'altra storia ed è nelle mani degli uomini e delle donne.

di Lo. C. dal il Manifesto del 25/05/07

sabato 26 maggio 2007

Firme a valanga sulle scuole paritarie: undicimila trentini per il referendum

Undicimila firme contro il finanziamento delle scuole paritarie. Un successo al di là di ogni aspettativa per il gruppo promotore del referendum che ieri ha reso noti i risultati dell'iniziativa.
Oggi alle 16 le firme saranno consegnate al presidente del Consiglio provinciale che dovrà successivamente verificarne la autenticità e indire la consultazione popolare.
«Finora - ha dichiarato Vincenzo Bonmassar , segretario della Uil scuola - abbiamo contato undicimila firme regolarmente certificate con le attestazioni rilasciate dai Comuni. Ritengo che altre cinquecento siano in via di definitiva convalida». Un numero che supera di gran lunga l'obiettivo delle ottomila adesioni richiesto dalla legge provinciale che regolamenta il referendum.
I promotori chiedono l'abrogazione di due parti della legge Salvaterra: il comma 7 dell'articolo 35 che riguarda la distribuzione delle scuole paritarie all'interno del piano provinciale del sistema educativo e l'intero articolo 76 che contiene disposizioni per la concessione di assegni agli alunni e di contributi alle scuole paritarie (compreso il finanziamento per l'acquisto di arredi e di attrezzature, una novità introdotta dalla legge Salvaterra).
«Una legge orrenda - ha commentato Bonmassar - approvata alla fine di luglio del 2006 in modo inconsapevole da un ceto politico palesemente in crisi».
Evidente la soddisfazione dei promotori. «Le undicimila firme - ha affermato il consigliere provinciale di Rifondazione comunista Agostino Catalano - rappresentano una risposta forte da parte della gente. Il nostro obiettivo è quello di aprire un dibattito a difesa della scuola pubblica, da troppo tempo umiliata e presa in giro con mezze riforme. Questo risultato è di buon auspicio per l'esito del referendum».
In risposta alle affermazioni di monsignor Umberto Giacometti , rettore del Collegio Arcivescovile, l'esponente di Rifondazione ha chiesto al rettore dell'Arcivescovile di «rientrare nei limiti di un dialogo civile» perché «ha passato il segno in un crescendo iroso di dichiarazioni alle quali le istituzioni provinciali dovrebbero rispondere».
Il consigliere della Sdr Mauro Bondi ha evidenziato i costi tutt'altro che contenuti delle scuole private. La scoperta di un nuovo finanziamento di 77.000 euro della Regione all'Arcivescovile ha convinto l'esponente dei Ds a presentare una interrogazione per conoscere l'ammontare preciso dei contributi pubblici alle scuole paritarie sotto le diverse voci. «Soldi sottratti alle scuole pubbliche - ha sostenuto Bondi - in contrasto con il "senza oneri per lo Stato" stabilito dalla Costituzione».
Per Antonio Iovene , insegnante del direttivo della Uil, il finanziamento alle paritarie è indice di un modello di scuola non repubblicano, non democratico, non costituzionale.
Paolo Maccani ha ricordato le lotte del movimento degli studenti contro il sostegno alle scuole private.
Fabrizia Bort , esponente dei Leali, ha chiesto ai politici di uscire dall'ambiguità e di schierarsi.
A sostegno delle proprie tesi, Nicola Zoller ha citato il passo di un discorso del cattolico John Kennedy del 1960: «Io credo in un'America dove nessuna chiesa o scuola confessionale abbia finanziamenti pubblici o preferenze politiche».
Tutti hanno sottolineato che il referendum non rappresenta una battaglia contro le private («Che nessuno vuole chiudere»), ma a favore della scuola pubblica.
«Undicimila persone - ha concluso Bonmassar - hanno dimostrato che esiste un Trentino diverso da quello tradizionalista che ci viene continuamente propinato». Il presidente del Consiglio provinciale ha quindici giorni di tempo per verificare la validità delle firme. Il referendum potrebbe tenersi alla fine di ottobre.


di PAOLO BARI da l'Adige del 26/05/07

Dellai stronca il Partito democratico

Il governatore Lorenzo Dellai, stimolato dal dibattito - nazionale e locale - sui mali della politica e le disillusioni dei cittadini, offre una sua analisi della situazione e indica anche alcune misure «non con valore taumaturgico» - precisa - per dare segnali concreti e tentare di riformare la politica.
Tra queste, annuncia a sorpresa - visto che fino ad oggi i partiti della sua coalizione hanno detto no alle richieste avanzate del centrodestra - l'esigenza di «ridiscutere la legge elettorale provinciale nel segno della semplificazione istituzionale». E cita tre possibili modifiche utili: «Un tetto al numero di assessori provinciali, che oggi non c'è; meccanismi elettorali per disincentivare il proliferare di liste, come la soglia di sbarramento; infine, l'eliminazione della distinzione tra il ruolo di assessore e quello di consigliere provinciale, se si trova un consenso largo».
Ma soprattutto Dellai boccia - ora senza più remore - il Partito democratico, in particolare per il modo in cui sta nascendo a livello nazionale. E ne prende le distanze anche alla luce di come è stato costituito mercoledì il «comitato dei 45», che dovrà guidare la fase costituente del nuovo partito. Il governatore trentino sposa le preoccupazioni di Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, che è rimasto escluso dal comitato.

Presidente Dellai, il Partito democratico riuscirà a rappresentare quel cambiamento necessario a dimostrare che la politica non vuol dire solo privilegi, ma esercita una funzione importante per la società? La composizione del «comitato dei 45» è parsa più il risultato delle vecchie logiche di spartizione tra correnti, non è un bell'inizio, non pensa?
Non è da oggi che sono scettico su come a livello nazionale sta venendo avanti il Partito democratico e dunque non mi meravigliano queste esigenze di equilibrio così come non mi meraviglia vedere sulla stampa nazionale un insieme di prese di posizione soprattutto al Nord Italia, dove il centrosinistra fatica moltissimo.

Si riferisce al sindaco Chiamparino che ha sottolineato come Piemonte, Liguria e Nord-Est siano sostanzialmente esclusi dal comitato?
E non solo lui. Emerge il limite molto forte del modo in cui si sta facendo nascere il Partito democratico. Il fatto che dal mio amico Chiamparino ed altri si sia sentita l'esigenza di dire che quello che è nato è un comitato fortemente romanocentrico, rende ancora più importante quello che noi abbiamo sempre sostenuto e cioè che i nuovi soggetti politici nascono nei territori, oppure rischiano di non nascere. C'è bisogno di forti proiezioni nazionali e internazionali, ma c'è bisogno anche di forti radici territoriali. La gente può riavvicinarsi alla politica anche attraverso questa duplicità: grandi valori universali, ma forti radici territoriali. Tutto questo non c'è nel processo, così come non c'è la volontà di costruire una nuova cultura politica, che non vuol dire solo l'aggiornamento di quella del '900.

Lei dunque si chiama fuori?
Nessuno mi ha chiesto di entrare nel comitato nazionale. E comunque penso che in Trentino noi saremmo più utili alla politica nazionale se ci liberassimo dal complesso di dover fare le cose con la regia, nei tempi e con le sigle dettate a Roma e tirassimo fuori dal nostro territorio gli elementi per una nuova politica. Noi possiamo portare elementi molto più innovativi e più significativi.

Il suo progetto per il Trentino se non è il Partito democratico, cos'è? Ce lo spiega?
In Trentino serve una proposta politica più globale e generale, noi non dobbiamo costruire schemi ad immagine delle nomenklature politiche, solo così la politica può essere partecipata. La Margherita quando è nata per me era in sé un piccolo Partito democratico, anche se ancora una via intermedia. L'idea che si costruiscano soggetti politici del 2000 e non del '900 non può non affascinare chi non è nostalgico e noi non siamo nostalgici, ma deve essere questo però. Se non è questo non ha senso e il Partito democratico non mi pare che sia questo, oltre ad essere troppo nazionalista. In fondo forse l'errore a livello nazionale è stato quello di legare troppo le sorti del Partito democratico a quelle del governo. I partiti se nascono bene devono avere un orizzonte che va oltre la durata di un governo: questo avrebbe consentito maggiore libertà e una percezione più positiva.
La classe politica del nostro Paese riuscirà a riformare sé stessa o verrà travolta?
Il dibattito di questi giorni, a livello nazione, sui costi della politica è importante, se non ha secondi fini, perché può portare nuove regole, misure di sobrietà nelle istituzioni, tentativi di fare cose veramente nuove e non scopiazzate, può rappresentare un pacchetto di misure per la ricostituzione dell'interesse della politica verso i cittadini. Quando parlo di secondi fini mi riferisco al timore che questo dibattito feroce in realtà miri al semplice abbattimento del governo attuale per sostituirlo con l'ennesima esperienza del «governo dei migliori», espressione magari delle corporazioni più forti.

Pensa che ci sia chi sta cavalcando questo malessere?
Non vorrei che ci fosse dietro l'idea che abbiamo bisogno di un nuovo Berlusconi, magari meno di destra, uno che non venga dalla politica a cui affidare le sorti del Paese. Ma io penso che ci sia bisogno di ricostruire la politica non di trovare l'ennesima scorciatoia.

Ma resta il fatto che la sfiducia dei cittadini è forte, perché secondo lei?
Penso che le ragioni siano molteplici. Tra queste c'è la disillusione verso il messaggio del berlusconismo, che prometteva di garantire ricchezza, successo e felicità personale a tutti, insieme alla riforma federalista che non c'è stata e che pesa soprattutto al Nord, ma dall'altra parte c'è la grande disillusione rispetto all'aspettativa ulivista e ciò che ci si attendeva dall'attuale governo. Poi, ovviamente, c'è l'idea che la politica sia luogo dei privilegi e in questo non si fa distinzione tra livello nazionale e locale, anche se noi siamo stati gli unici a riformare le pensioni dei consiglieri provinciali.

Certo il Trentino non è paragonabile all'andazzo della Sicilia o di altre Regioni, ma non pensa che si possa dare qualche altro segnale di sobrietà?
Penso che effettivamente, anche se non ha valenza taumaturgica, possiamo cercare di dare un segnale semplificando l'istituzione politica, ad esempio modificando il sistema elettorale.

Come?
Se si vuole aprire un dibattito possiamo pensare di stabilire un numero massimo di assessori provinciali. Non escludo neppure che si possa parlare di eliminare l'incompatibilità tra consigliere provinciale e assessore - e non per ragioni economiche - se ci sarà una larga condivisione e anche di soglia di sbarramento (come chiesto da Forza Italia, Ndr).

Lei nominò 12 assessori nel 2003 (ora ha perso Grisenti), sono troppi? Quanti ne bastano?
Penso a un limite più basso.

Ma la sua maggioranza ha detto no a modifiche alla legge elettorale.

Non voglio intromettermi, dico infatti che le modifiche si fanno solo se c'è larga condivisione.

E le «quote rosa»?
Il centrodestra ha minacciato l'ostruzionismo se non otterrà in cambio altre modifiche. Questa è tattica politica e non la giudico. Ma è evidente che se c'è l'ostruzionismo le quote rosa non passano e non possiamo farci niente.

di LUISA PATRUNO da l'Adige del 25/05/07