venerdì 31 ottobre 2008

Il medico olandese bacchetta i politici: "Politici, ascoltate gli scienziati"

«Il problema della politica è che spesso esprime posizioni prima di ascoltare i tecnici, i medici. E invece dovrebbe fare il contrario: studiare, discutere e poi prendere decisioni». Eduard Verhagen è al Meyer per il convegno dei neonatologi. Lo studioso olandese che ha realizzato la carta di Groningen, dove si illustra l'assistenza di fine vita per i neonati e in caso di certe malattie si ammette l'eutanasia, non ha l´aria da "dottor morte", come lo ha definito qualcuno. E´ un serio e un po' timido studioso che premette di non voler imporre il suo pensiero. «La Chiesa? Rispetto le sue idee ma a volte vorrei che spiegassero come arrivano a certe prese di posizione. Le occasioni di confronto che ho avuto con suoi esponenti sono saltate all´ultimo momento».
Verhagen, la cui presenza ha scatenato polemiche e pure interrogazioni al presidente del consiglio, ha tenuto la sua relazione senza mai accennare all'eutanasia. Era previsto che non lo facesse, e infatti ha illustrato come vengono trattati in vari paesi i prematuri con problemi che non danno scampo, quando vengono comunque rianimati e quando si decide di staccare le macchine. Poi, a margine il medico olandese, che ha detto di essere di religione protestante, ha risposto ad alcune domande.

Il suo arrivo a Firenze è stato preceduto da molte polemiche, che idea si è fatto?
«Partecipo ad una decina di convegni ogni anno, alcuni anche in Italia ma non mi era mai capitata una cosa del genere. Mi spiace che l´attenzione caschi su di me a scapito di questo incontro scientifico, dove è importante la discussione tra chi lavora in questo paese. Io porto le mie conoscenze e racconto quello che facciamo in Olanda ma non ho nessuna intenzione di dire agli italiani quello che devono fare. Le nostre culture sono molto diverse».

Qual è il messaggio del suo intervento?
«E´ necessario che si discuta del momento in cui si interrompono le cure. Noi medici tendiamo a parlare dei miglioramenti della tecnica, che ci permettono di curare persone per cui un tempo non c´era speranza. Nelle neonatologie si presta giustamente attenzione a come intervenire sui bambini per guarirli. Ebbene lo stesso tipo di sensibilità va adottata anche per decidere che non c´è più niente da fare, e che quindi il trattamento sanitario va limitato o addirittura interrotto. I medici devono essere in grado di spiegare alla società cosa succede in quei momenti, come mai vanno prese certe decisioni. E fare sempre tutto d´accordo con i genitori».

E perché si arriva a decidere l'eutanasia?
«Il percorso che ha portato il mio paese a legalizzare questa pratica è stato lungo. Si applica solo a bambini che soffrono tremendamente per una malattia che non dà scampo. Abbiamo creato un protocollo per fare chiarezza su come comportarsi in questi casi, sempre rispettando la volontà dei genitori. Dal 2007, poi, in Olanda non ci sono stati più casi di eutanasia su bambini perché abbiamo esteso la diagnosi prenatale».

Conosce il caso di Eluana Englaro?
«In Olanda abbiamo avuto un caso simile 25 anni fa che dimostra come due paesi possono affrontare in modo molto diverso gli stessi problemi. A quel tempo ci fu un ricorso ad un tribunale da cui arrivò la decisione che l´alimentazione artificiale è un atto medico. Dunque poteva essere sospeso perché viste le condizioni della persona non serviva a nulla. Non si tratta di omicidio, non si tratta di eutanasia. Da allora non abbiamo più avuto casi del genere. Sono contendo che in Italia si discuta di un caso come quello di Eluana e mi auguro che alla fine il risultato sia positivo per la ragazza, per la famiglia e per tutta la società italiana».

di Michele Bocci da la Repubblica del 31 ottobre 2008

martedì 21 ottobre 2008

Le vere cause del crac

Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d´alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L´elenco comprende banche di deposito e banche d´affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell´ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini. 
Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c´è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l´altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell´energia. 
La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ´33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento � una delle cause del crollo del ´29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un´infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all´ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000. 
Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un´occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall´altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all´auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.
Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all´altro, lunghi passi in direzione d´una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo. 
La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch´essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V´è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.

di Luciano Gallino da la repubblica del 21 ottobre 2008

Un Paese che esilia i giovani talenti distrugge il suo futuro

Nell'autunno 1922 due navi tedesche (poi note come Philosophy Steamers) trasportarono da Pietrogrado alla Germania centinaia di intellettuali, la crema dell'intelligentsia russa pre-rivoluzionaria. «Una deportazione di cervelli senza precedenti» (Heller), che eliminava ogni scomoda opposizione in nome di un obbligato conformismo, e che inferse alla cultura russa un colpo mortale. Non fu un caso isolato. Ci sono ideologie, regimi, situazioni che rigettano gli intellettuali, la ricerca, il pensiero creativo (il caso meglio noto è quello della Germania nazista, ma anche l'Italia fascista fece la sua parte, con intellettuali ebrei e non). Non meno massiccia di quelle è l'emigrazione forzata di giovani talenti dalla prospera e smemorata Italia degli ultimi vent'anni: secondo l'Istituto di ricerca economica di Berlino (febbraio 2008), da anni il nostro Paese esporta migliaia di ricercatori e per ogni dieci che se ne vanno meno di uno viene, o torna, dall'estero. Ma in nome di che cosa i Governi italiani, in ammirevole sintonia bipartisan, s'industriano a favorire la diaspora dei migliori giovani dal Paese? Dietro questa ostinazione c'è un'ideologia, un progetto? C'è un'idea dell'Italia, del suo futuro?
I risultati del Consiglio europeo delle ricerche (Erc) sono un'allarmante cartina al tornasole. Erc è la nuova agenzia di ricerca dell'Unione Europea, che per distribuire i suoi 7,5 miliardi ha adottato una metodologia interamente basata sul talento degli studiosi e sul merito delle loro idee. Il primo bando, riservato ai ricercatori più giovani (con un tetto di 2,5 milioni a persona), si è chiuso qualche mese fa; il secondo, per gli studiosi più avanti in carriera (con un tetto di 3,5 milioni) si è chiuso in questi giorni. Quali i risultati italiani? Sia negli starting grants per i più giovani che negli advanced grants, l'Italia è stata prima per numero delle domande (1.760 su 9.167 nel primo caso (19,2%), 327 su 2.167 nel secondo (15%): sicuro indicatore che il Paese abbonda di ricercatori di ogni età, ma anche che essi disperano di trovare in patria i finanziamenti necessari. Ma quante domande hanno avuto successo? 
Negli starting grants, i vincitori italiani sono 35, al secondo posto dopo la Germania, precedendo Gran Bretagna, Francia e Spagna; è dunque chiaro che l'Italia ha offerto a questi studiosi (età media: 35 anni) adeguata formazione e ambCiente di ricerca. Se però si guarda alle sedi di lavoro scelte dai vincitori, l'Italia precipita al quinto posto. Dei 35 vincitori italiani, solo 23 resteranno in patria, gli altri (coi loro fondi europei) preferiscono altri Paesi con migliori strutture di ricerca; e dall'estero in Italia arrivano solo due polacchi e un norvegese. Al contrario, in Gran Bretagna restano 24 vincitori su 29, ma se ne aggiungono 35 da altri Paesi (6 dall'Italia); in Francia restano 26 vincitori su 32, ma ne arrivano altri 12 (2 dall'Italia). 
Negli advanced grants, i risultati italiani sono ancor più preoccupanti. Prima come numero di domande, l'Italia è al quarto posto per il successo (23 vincitori), dietro Gran Bretagna (45), Germania (32) Francia (30). Ma dei 23 vincitori italiani, ben 6 portano il proprio grant in altri Paesi, contro un solo non-italiano (un inglese) che ha scelto una sede italiana (Pisa). Al contrario, negli altri Paesi il rapporto fra "uscite" ed "entrate" di vincitori dei grants è molto più favorevole: il saldo netto (contro il totale di 18 grants da spendersi in Italia) è di 56 in Gran Bretagna, 32 in Francia, 26 in Svizzera. Per attrattività l'Italia è dunque all'ultimo posto, anzi sostanzialmente assente. In compenso, il Paese svetta in cima a tutte le classifiche per numero di studiosi che hanno deciso di trasferirsi altrove coi loro cospicui fondi europei. Il bilancio è disastroso: prima per numero di domande (cioè per potenzialità), l'Italia è ultima in Europa per capacità di attrarre studiosi da fuori, ma anche di trattenere i propri cittadini.
In nome di che cosa maggioranza e opposizione, ministri e deputati assistono passivamente a questa emorragia di forze intellettuali? Nessuno potrà credere sul serio che alla base vi sia un calcolo economico. È evidente che formare nuove generazioni di ricercatori per poi "regalare" i migliori ad altri Paesi non è un buon investimento. Eppure, nella strettoia che l'università italiana sta attraversando questi dati non sembrano avere alcun peso, quasi per corale cecità di un Paese determinato a indietreggiare. I severi tagli della legge 133/2008 incideranno seriamente sul futuro dell'università. Sarebbe ingiusto non riconoscere le gravi difficoltà economiche del momento, come lo sarebbe non ammettere i troppi casi di cattiva amministrazione delle risorse da parte degli Atenei. 
Il paradosso è che i finanziamenti per università e ricerca in Italia sono da troppi anni strutturalmente insufficienti (meno di un terzo dell'obiettivo fissato dall'agenda di Lisbona) ma al tempo stesso le scarse risorse vengono spesso sprecate o mal spese. Ma nessuna scure che si abbatta alla cieca ha mai generato nuove forme di virtù: colpendo in misura eguale chi ha gestito malissimo le proprie risorse e chi lo ha fatto al meglio, la legge Tremonti non ha dato all'università italiana il segnale giusto.

di Salvatore Settis da il Sole 24 ore del 21 ottobre 2008

domenica 12 ottobre 2008

Il mercato senza fiducia

Secondo fiumi di inchiostro questa crisi ridisegna i confini fra stato e mercato. Per uscirne ci vorrà più stato e meno mercato, si scrive ormai da mesi. Anche su questo giornale. Non ci sarebbe niente di preoccupante se si trattasse solo di una disputa dottrinaria.
Una disputa alimentata magari da pensatori poco aggiornati che intravedono, non senza qualche smania di rivincita, una rivalutazione del loro capitale umano. Ma il fatto preoccupante è che queste letture della crisi stanno offrendo ai governi nazionali il pretesto per riprendere il controllo delle banche. Doveroso che lo Stato intervenga, ma solo pro tempore, in attesa che i mercati tornino ad operare. Ci vogliono paletti, limiti temporali precisi all´intervento dello stato nel capitale delle banche. Per capire perché basta ricordare cosa erano le "notti delle banche" quando i partiti si azzuffavano per spartirsi i posti nei consigli di amministrazione delle "banche di interesse nazionale", basta ricordare i lunghi spostamenti e le interminabili attese cui queste bin ci costringevano per compiere le operazioni più semplici.
Per capire invece perché oggi lo Stato deve fornire capitale di ultima istanza alle banche che ne fanno richiesta non c´è bisogno di risalire così indietro nel tempo. Basta rileggere, col senno di poi, quanto è successo negli ultimi 13 mesi.
Questa è una crisi di fiducia. Per questo è così generale. Per questo non può che essere temporanea. Chiediamoci come sia possibile che mutui ipotecari che contano per non più dell´1% del debito mondiale abbiano scatenato questo putiferio. Chiediamoci perché a più di un anno dall´inizio della crisi nessuno, neanche chi istituzionalmente è più informato, sappia ancora offrire una misura delle perdite del sistema finanziario. Si è passati dai 50-100 miliardi di dollari paventati dalla Fed nel settembre 2007 ai 200-300 miliardi stimati dall´Economist nel dicembre 2007, ai 945 miliardi nelle valutazioni di aprile 2008 del Fondo Monetario, quando la Bank of England dichiarava che eravamo ormai fuori dal tunnel. Martedì abbiamo letto le nuove stime del Global Financial Stability Report: 1.400 miliardi. Non si sanno valutare le dimensioni del crac perché non ci sono più mercati che permettano di valutare molti titoli in circolazione, dunque il vero stato patrimoniale di molte banche. E non ci sono mercati perché non c´è informazione, non ci si fida gli uni degli altri. Prima della crisi erano le agenzie di rating a trasmettere questa informazione. Sembravano più affidabili del giudizio del singolo banchiere sul grado di affidabilità del debitore. Paradossalmente questo ruolo crescente delle agenzie di rating ha reso i mercati finanziari sempre più opachi. Le banche di investimento si finanziavano emettendo strumenti finanziari sempre più complessi fatti apposta per ottenere rating positivi. Mettevano insieme tipologie di prestiti e di debitori diversi rispettando principi di diversificazione del rischio per cui se ci sono insolvenze da alcuni debitori, queste verranno compensate da andamenti migliori del previsto di altre categorie di debitori. Ma le agenzie di rating non erano attrezzate per tenere conto di rischi sistemici, che colpiscono tutti, come il crollo del mercato immobiliare. E anche quando avrebbero potuto non hanno voluto tenerne conto perché i loro profitti erano crescenti nel numero di emissioni delle banche di investimento. Colpa di una cattiva regolamentazione. Colpa di regole prudenziali applicate a macchia di leopardo. Bisognerà rivedere le regole e il modo con cui si vigila sul loro rispetto. Ci vorrà del tempo per farlo.
Ci vorrà del tempo anche per spacchettare questi titoli "tossici", guardarci dentro, speriamo trovando non solo sorprese negative. Come ci vorrà del tempo per identificare i manager che ci hanno trascinato sull´orlo del baratro separandoli da quelli che sono solo stati contagiati dalla crisi. Bisognerà fare tutto questo per evitare che la crisi si ripeta. Adesso però, subito, bisogna occuparsi di tenere in piedi il sistema, se non vogliamo tornare all´economia del baratto, quella in cui davvero non c´è più carta.
La mancanza di fiducia ha dunque portato alla ritirata dei mercati. Le banche per svolgere il loro mestiere hanno bisogno di scambiarsi soldi fra di loro: c´è chi è più attivo nel raccogliere risparmi presso le famiglie e chi invece è maggiormente specializzato nei prestiti alle imprese. Ci sono scadenze diverse cui fare fronte sui due versanti, impieghi e depositi. Oggi le banche hanno paura a concedere prestiti ad altre banche temendo che queste siano insolventi. Così le banche hanno smesso di prestarsi denaro tra di loro o lo fanno a costi esorbitanti. Per questo non servono neanche gli interventi delle banche centrali sui tassi di interesse. Gli occhi di molti sono in questi giorni puntati sugli indici di borsa, ma il vero polso della crisi lo si ha monitorando i tassi interbancari. La misura dell´inefficacia del taglio generalizzato dei tassi deciso martedì lo si ha con l´Euribor a tre mesi rimasto invariato. Per tamponare la crisi non bastano più neanche le massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, che ormai si succedono da mesi. Il fatto è che la crisi ormai è fatta anche di banche insolventi, non solo di banche che hanno problemi di liquidità.
Qualcuno deve oggi riempire i vuoti aperti da mercati che hanno cessato di operare, prima che questi vuoti aprano voragini. Questo qualcuno non può che essere lo Stato. Bene perciò che lo Stato fornisca capitale di ultima istanza a quelle banche che lo richiedessero espressamente, come deciso dal Consiglio dei Ministri straordinario di mercoledì sera. Ma deve essere un intervento con precisi limiti temporali, tenuto il più lontano possibile dalla politica, dalle mani dei Governi. Interventi di questo tipo sarebbero stati meglio gestiti a livello europeo, come richiesto dall´appello lanciato da lavoce.info e sottoscritto da 300 economisti europei. I governi dell´Unione hanno invece sin qui dato una pessima prova di se stessi andando ognuno per la sua strada, indice peraltro del fatto che hanno ambizioni di controllo e che temono che siano gli altri a finire per controllare le loro banche. Ma la gravità della crisi potrà indurli a più miti consigli e il nostro paese può comunque cercare un approccio integrato con quei paesi dell´Unione che ci stanno. In ogni caso, la gestione di queste eventuali partecipazioni dovrà essere affidata ad organi terzi, separati dal Tesoro. Bene che si tratti di azioni senza diritto di voto, ma ricordiamoci che anche con le azioni privilegiate o di risparmio si partecipa ad assemblee e che qualunque partecipazione rilevante è influente perché apre la strada al ricatto di mandare tutto all´aria uscendo dall´azionariato. Questi interventi verranno, per forza di cose, finanziati emettendo debito pubblico. Solo ponendo un ferreo limite temporale a queste partecipazioni avremo solo un incremento temporaneo nel debito, magari riusciremo anche a ridurlo rivendendo le azioni a prezzi più alti in un mondo uscito dalla crisi. Anche per questo è bene assicurarsi sin d´ora che ci sarà una ritirata, e far sì che sia una ritirata vera.

di Tito Boeri da la Repubblica del 10 ottobre 2008

mercoledì 8 ottobre 2008

Il mondo drogato dalla vita a credito

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l´inpennata dei costi del carburante, dell´elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.
Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C´era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l´Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l´intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all´epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l´offerta seguiva l´andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l´obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell´offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l´offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi. 
L´introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l´appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l´ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c´era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell´appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l´essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l´unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po´ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali. 
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l´incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell´onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie. 
L´odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell´uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l´industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l´industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare? 
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L´ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L´insegnamento dell´arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell´indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest´occasione è che l´uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d´uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga. 
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all´istante. È però l´unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all´enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.

di Zygmunt Bauman da la Repubblica del 8 ottobre 2008
(Traduzione di Emilia Benghi)

lunedì 6 ottobre 2008

L’allarme del World Social Forum: uno Stato senza welfare genera solo paura

(ASCA) - Roma, 26 set - C’e’ bisogno di uno Stato che torni ad occuparsi delle persone in concreto, sollevando il sistema dell’assistenza dalla burocrazia, con un’opzione decisa per il Terzo settore. Ma c’e’ bisogno anche che le fondazioni bancarie scelgano che mestiere vogliono fare: se gestire banche o occuparsi di chi e’ in difficolta’, come vorrebbe la normativa. E anche che il volontariato faccia bene il suo mestiere, attaccato alla sua mission e non alla rincorsa permanente di finanziamenti. Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Roma e ”padre” del World social summit che si conclude oggi a Roma con l’intervento di Zygmund Bauman, famoso teorico della societa’ liquida, traccia con l’ASCA un bilancio dell’iniziativa e spiega la sua ricetta contro la paura del nostro secolo.

D: Perche’ la gente di questo secolo ha paura?
E: Lo scenario cui assistiamo non ci presenta un quadro dissimile da quello di epoche lontane come quelle delle grandi invasioni barbariche, delle pestilenze che cancellavano interi stati o delle guerre mondiali. L’umanita’ allora ha resistito Oggi il terrorismo, le pandemie, la crisi ambientale, generano paure che pesano in misura imprevista quando vanno ad annidarsi nell’intimita’ dell’individuo che, squassato dalla perdita di alcuni grandi valori come la fede, la famiglia, la politica, subisce la crisi della propria identita’ e la trasferisce nella realta’ economica, che ne risente anche per la crisi del welfare. Se crolla la prospettiva di lavoro di una famiglia, il futuro di uno studente, la possibilita’ di inserirsi o re-inserirsi nella societa’, infatti, anche tutti gli altri problemi diventano drammaticamente piu’ vicini all’individuo, lo terrorizzano e lo costringono a rimanere nel terrore.

D: Come si interviene in questo scenario?
E: La mia proposta, che reiterero’ nelle conclusioni, richiama, innanzitutto, ad una riscoperta dei valori fondanti l’individuo e la societa’ come l’istruzione, la cultura, cioe’ quelle colonne che possano sorreggerle. C’e’ bisogno, pero’, anche di una riforma del welfare state che, a fronte di uno Stato che arretra perche’ non riesce piu’ a sostenere il peso di questi problemi, puo’ essere portata a compimento solo dal non profit, quel terzo settore al quale ho dedicato tanti anni, e che a mio avviso e’ l’unico a poter consegnare all’uomo quelle risposte che l’umanita’ sembra aver smarrito. Mi ha fatto piacere sentire dagli studiosi dei Paesi emergenti intervenuti al Social summit che a loro avviso la soluzione ai problemi delle loro megalopoli e’ quella solidarieta’ che noi pratichiamo da secoli.

D: Qual e’ il ruolo della politica in questo passaggio?
E: La disattenzione della classe politica rispetto alla dimensione sociale e’ uno dei principali problemi che abbiamo. Il 46% dei cittadini di tutto il mondo, ma in particolare italiani, intervistati dal Censis sulla natura delle proprie paure, non ha risposto che teme il bandito, il diverso, il Rom, ma che ha paura dell’incertezza che gli e’ data dal non poter piu’ contare sulle garanzie di uno Stato sociale che funzioni e gli dia una risposta certa. Ci sono tante realta’ che potrebbero rispondere a questo bisogno, ma se come non profit dobbiamo pagare le tasse come le imprese, non avere cittadinanza attiva perche’ non veniamo riconosciuti con la dignita’ costituzionale che meriteremmo -visto che la sussidiarieta’ e’ stata appiccicata come una pezza alla nostra Costituzione ma non gli si e’ dato ne’ un corpo ne’ una rete - siamo messi in condizione di arenarci.

D: Con il federalismo, tuttavia, lo spostamento di alcune competenze in capo ad Enti locali non in grado di sopportarne il peso di gestione oggi mette in condizione parte del Terzo settore di annunciare la propria estinzione.
E: Sono convinto che non usciremo da questa crisi se non si risolve un grosso problema: dobbiamo sollevare il sistema dell’assistenza da quel grave peso (e costo) che la struttura statale carica nel veicolare le risorse dalla fase di produzione alla destinazione del servizio. Dev’essere il cittadino a modulare la richiesta, a gestirla nella propria autonomia, interrompendo questa lunga catena grazie alle strutture agili ed elastiche che il volontariato ha costruito e che fa funzionare da sempre, rendendo fluido il rapporto tra risorse e cittadini. Non penso, vorrei chiarirlo, che questo sia possibile spostando questo ruolo di ‘’smistamento’ delle risorse sui Centri per i servizi al volontariato - rispetto ai quali, come e’ noto, ho una visione molto critica - perche’ con questo modello rischiamo di ricreare quel sistema ingessato che oggi non permette di operare al pubblico. Non sento alcun politico sostenere questa proposta.

D: Ma non c’e’ il rischio di consumismo dei servizi da parte dei cittadini?
E: La nostra esperienza e i dati ci dicono il contrario. Dobbiamo rieducare i cittadini a un diritto certo ed esigibile, quando serve. Con un pubblico che non gestisce ne’ eroga,ma indirizza e controlla il welfare, potremmo corrispondere in modo piu’ efficace alle aspettative del singolo. Se posso, ad esempio, fruire di un coupon con un pacchetto di prestazioni certe, non credo che accrescero’ la mia domanda di assistenza ma tentero’ di amministrarla con saggezza. Se continuera’, tuttavia, una disattenzione da parte dello Stato, sara’ inutile, a mio avviso, parlare di socialita’, di welfare, visto che questo argomento che dovrebbe essere quello principale finisce, di fatto, ad essere abbandonato in Italia.

D: La politica, dunque, non sta svolgendo fino a fondo il suo ruolo?
E: Anche nel corso del Social summit abbiamo riflettuto tanto sull’intervento pubblico. In America le principali banche sono state nazionalizzate, mentre, ad esempio, in Italia Alitalia sembra dover essere per forza affidata ai privati secondo una formula molto incerta. Io non sono a favore di un intervento illimitato dello Stato, ma di un intervento regolatore si’, anche di fronte ai nuovi strumenti della finanza dei quali abbiamo parlato molto qui in questi giorni. Nel nostro Paese passiamo da un eccesso all’altro: nel caso dell’individuo, dove ci sarebbe bisogno di una personalizzazione dei servizi, lo Stato non lascia spazi al privato sociale perche’ teme un consumismo delle prestazioni che non c’e', ma dall’altro, dove c’e’ gia’ una voragine, lo Stato arretra e la lascia ai privati. Qualcuno dovra’ spiegarci la schizofrenia di questo comportamento pubblico perche’ qualcosa non torna.

D: Quale ruolo possono giocare le fondazioni nel cambiamento da lei auspicato?
E: Parto da una critica che muovo in casa mia. Le fondazioni debbono decidere: o fare come noi della Fondazione Roma, che ci occupiamo esclusivamente delle persone che hanno bisogno, della sanita’, della ricerca scientifica, della cultura, del volontariato, oppure scegliere di gestire le banche e la finanza. Altre fondazioni vogliono fare, in realta’, solo questo: Cariverona, Montepaschi , solo per fare qualche esempio. Noi, al contrario, abbiamo piccole percentuali finanziarie e assicurative, con le quali diversifichiamo, ripartiamo il rischio e destiniamo tutti i proventi ad aiutare la povera gente. Non e’ vero che la filantropia non rende: noi, pur con una scelta di campo molto netta, abbiamo registrato un rendimento annuo di circa il 10%. Ai miei compagni di strada dico: scegliete la filantropia, oppure fate altro, pagando le tasse adeguate ad un’attivita’ di mercato. E che lo stato assicuri a chi fa solo volontariato un trattamento anche fiscale adatto alla sfida.

D: E al terzo settore che cosa chiede?
E. Che faccia bene il proprio mestiere, con professionalita’ e grande coerenza rispetto alla propria mission, senza inventarsi ogni mattina professionista della questua, dedicando tempo e risorse prevalenti al fund raising, con proposte improvvisate e inutili. Sono scelte che, alla lunga, non pagano nessuno, e alimentano incertezza, precarieta’ e paura.