sabato 20 dicembre 2008

Il Paese senza dimissioni

Le dimissioni in Italia sono sempre state una nobile rarità. Ma solo ora sono diventate ignobili, ripugnanti e vili. E dunque davvero qui non si dimette più nessuno.
Nessun topo si sente fuori posto nel formaggio, e nessuno ha l´autorevolezza di imporre le dimissioni a nessuno. Eppure in passato nessun Bassolino e nessuna Iervolino avrebbero potuto resistere al consiglio imperioso di lasciare la poltrona fosse pure per sacrificarsi, nel rito collettivo del capro espiatorio, al bene comune e a un´idea alta di futuro.
E una volta ci si dimetteva anche per amor proprio. Al contrario di quel che pensa Rosa Russo Iervolino «vado avanti per difendere la mia onorabilità» si lascia non solo quando ci si sente "al di sotto", ma anche quando ci si sente "al di sopra", come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E´ un piacere ascoltare il silenzio di quest´uomo».
Insomma, le dimissioni, specie quelle che non vengono date ma sempre rimandate, misurano, oltre che la struttura morale dell´individuo, la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle.
E basti pensare alla debolezza di un partito che applaude il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, perché sentendosi fuori posto egli si è incatenato al suo posto. Dinanzi alla giustizia non ci sono partiti e il segretario di un partito non è un avvocato. In questi casi, la solidarietà o è inutile o è astuta, o è insensata o è corriva. Non si possono confondere i due piani e, infatti, tutti sanno che Veltroni ha per esempio, sotto sotto chiesto, senza riuscire ad averle, le dimissioni di Bassolino al quale è stata tuttavia espressa solidarietà pubblica: «piena e totale fiducia» dunque, ma secondo la famosa formula filosofica del "qui lo dico e qui lo nego", bene illustrata al paragrafo due, comma quarto dell´autorevole trattato «Mamma, Ciccio mi tocca; toccami Ciccio, che mamma non c´è».
Alla fine dunque si capisce solo che Veltroni non ha la forza di fare dimettere Bassolino e la Iervolino, ma neppure Villari e Loiero? Eppure una volta ci si dimetteva perché amavi e credevi, oltre che nelle istituzioni, anche nel partito: uscivi per rafforzare il tuo partito. Mi racconta un dirigente del Pd di un Veltroni sconsolato: «Nessuno mi ha creduto e io stesso ormai faccio fatica a credermi. Ma sono mesi che chiedo la testa di Bassolino». Sfiducia in privato, fiducia in pubblico.
Il punto è che non è vero che dimettersi significa ammettere la propria colpevolezza penale ma soltanto la propria inadeguatezza. Dimettersi è dire "sorry" e scansarsi, confessare l´errore e non il crimine, e magari anche l´illusione, il sogno fortissimo: scusatemi, pardon. Dimettersi, prima d´esservi costretti, è anche intelligenza, eleganza, è una battuta di spirito.
Prendete invece l´assessore di Firenze Graziano Cioni che, da solo, ha pronunziato una dopo l´altra tutte quelle frasi del repertorio militare alle quali sempre si ricorre a ridosso della fine, da «rimango al mio posto di combattimento» a «non mi arrenderò mai». E infatti qui è un tripudio di «vado avanti» (Villari e Iervolino), «se mi dimettessi sarei un irresponsabile» (Loiero e Bassolino), «non mi consegnerò ai nemici» , «io sono un combattente». Sono tutti Menenio Agrippa, tutti Coriolano, tutti Enrico Toti. E però la metafora di guerra non precede le dimissioni, che in fondo non compromettono il futuro, ma l´irreversibile uscita di scena, la sconfitta definitiva.
E´ vero che in Italia anche in passato le dimissioni erano un lungo sfinimento e si ricorda per esempio un discorso di Forlani con tre finali diversi perché la Dc aveva elaborato la rimozione-promozione, il dimettersi per immettersi in nuovi poteri e un´infinità di altre combinazioni, "dimissioni con riserva", "dimissioni mai", "reincarico", "sfiducia". Ma non si era mai vista una resistenza così estesa e così bipartisan. E poi, diciamolo chiaro: non eravamo abituati alla faccia tosta di sinistra, alla sfrontatezza di sinistra, all´impudenza di sinistra che non si vergogna di se stessa. Ancora un passo e arriviamo a Cuffaro che non solo non si dimetteva, ma disarmava il Diritto festeggiando la condanna con i cannoli.
Ecco dunque Villari che può autoproclamarsi eroe della democrazia perché nessuno ha i titoli per farlo vergognare. Villari ha ragione a iscrivere anche il proprio trasformismo nella democrazia italiana. Da La Marmora a Mastella, dai ribaltoni di De Pretis e Minghetti a quelli di D´Alema e Bossi, dalla cacciata di Ricasoli alle cacciate di Prodi: «cospirazioncelle di gabinetto» le chiamava già il primo direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli-Viollier. E però anche dentro il trasformismo nessuno poteva sfuggire all´imposizione delle dimissioni che alla fine smontavano i conflitti e disarmavano le ideologie. E invece qui Agazio Loiero annunzia «non deporrò le armi», Bocchino pensa che l´accusa contro di lui sia «kafkiana», Lusetti ammette d´essere «distratto», ma di dimissioni non ne parla nessuno.
Per non dire del sottosegretario all´Economia Nicola Cosentino, coordinatore di Forza Italia in Campania, indagato per fatti terribili.
Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga. E Marta Vincenzi, sindaco di Genova, quando arrestarono il suo portavoce annunziò: «E´ il giorno più triste della mia vita». Dimissioni? «No. Farò piazza pulita». Ma i portavoce, i sottopanza, i segretari e gli alterego sono solo disgrazie? Gli italiani hanno il diritto di pensarli come protesi, come il guanto che indossa la casalinga per toccare i residui di cucina senza sporcarsi. E l´errore? Quanti errori bisogna commettere prima di ammettere l´incompetenza che non te li ha fatti riconoscere?
Eppure i non dimissionari, dietro l´inadeguatezza dei loro predecessori, furono pronti a scoprire coraggiosamente i delitti e le complicità: delitti non penali ma civili, delitti di indecenza, di sciatteria, di volgarità politica. Ebbene adesso dietro la propria inadeguatezza tutti coraggiosamente scoprono che esistono le cattive azioni senza autore, le malefatte senza malfattori, i colpevoli dall´innocenza adamantina. Così il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara, che è stato arrestato ma non si è ancora dimesso.
Insomma le dimissioni sono state definitivamente cancellate dalla politica italiana. Le sole che continueremo a ricordare sono quelle di Francesco Cossiga che, travolto dal senso di colpa, lasciò il ministero dell´Interno dopo l´assassinio di Aldo Moro, e quelle di Dino Zoff che da allenatore della Nazionale non sopportò gli insulti del premier Berlusconi. Nel paese del "posto fisso", ecco dunque chi si dimette: il disturbato e il galantuomo.

di Francesco Merlo da la Repubblica del 19 dicembre 2008

venerdì 19 dicembre 2008

Bertinotti: "Caro Walter, ammettiamolo il partito leggero ha perso"

ROMA - "Il partito leggero di Veltroni è fallito. È diventato il partito degli assessori, ecco perché è permeabile ai potentati economici". Fausto Bertinotti spiega così la questione morale nel Pd. 

Presidente Bertinotti, siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli, che si abbatte sul Pd, oppure si tratta di singoli episodi di corruzione e malaffare? 
"Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Partito democratico semplicemente per la ragione che il Pd, contrariamente a quel che pensano quasi tutti, è la frontiera più avanzata dell'innovazione. Ed è proprio una certa innovazione del nostro sistema la causa prima di quel che sta succedendo". 

Ma è come nel '92? 
"La Tangentopoli di allora e i fatti di oggi sono fenomeni diversi, due risposte sbagliate alla crisi della Prima Repubblica. La Tangentopoli del '92 è fotografata dall'analisi di Berlinguer. I partiti per salvare se stessi occupano tutto, fagocitano lo Stato. Craxi, nella sua chiamata di correo alla Camera, dice: l'ho fatto per salvare i partiti. Che naturalmente non lottano più in nome degli ideali ma provano a sopravvivere attraverso una crescita del loro potere". 

La Tangentopoli di oggi? 
"E' quasi il contrario. I partiti diventano partiti del leader e si dissolvono. Nel Pdl, Berlusconi "a machiavella", come direbbero dalle mie parti per intendere machiavellico, tiene insieme il partito del capo e le singole forze politiche, come la Lega e An. Il Pd invece, in questo senso più innovatore, è il partito del leader allo stato fluido, come direbbe Bauman. Ma la dissoluzione del partito cosa fa nascere? I potentati locali. Senza una reale struttura oligarchica al centro, fragile, si appoggia al partito dei sindaci. Sotto il partito del leader ecco così i potenti locali. Il baricentro del potere si è spostato qui. Comandano gli amministratori". 

Ma perché la dislocazione "in basso" dovrebbe essere veicolo di corruzione? 
"Non di per sé, ma è la miscela con altri fattori che provoca l'esplosione. Intanto, un rovesciamento dell'etica costituente: oggi l'economia comanda sulla politica, che è sempre sotto schiaffo, tende a farsi gradita alle grandi banche, ai costruttori, agli immobiliaristi, ai potentati". 

Un fenomeno non nuovo... 
"Aggiungiamo l'ultimo elemento: una vera e propria controriforma del quadro istituzionale. Il Parlamento è svuotato rispetto al governo ma è ancora nulla rispetto a quel che è successo a livello locale. I consigli comunali letteralmente non contano più niente. Le giunte sono un insieme di assessori dotati di potere sovrano. Ogni singolo assessore è fuori controllo: ha una delega dal sindaco, il quale è in grado di intervenire solo sulle cose su cui sta, e non risponde di fatto al consiglio comunale. I centri di potere locali sono così diventati irresponsabili democraticamente. Chiamati ad occuparsi di servizi pubblici ormai privatizzati...". 

Erano servizi spesso costosi e inefficienti. 
"Non lo nego. Ma quando la mensa degli ospedali era un servizio interno, non da affidare in appalto, il rapporto fra affari e politica era precluso a monte. Lo stesso può valere, che so, per le lavanderie degli ospedali. Oppure per i cimiteri, che ormai non sono più luoghi di culto ma di affari. Il tutto, mentre vengono meno le funzioni pubbliche". 

In che senso? 
"Perché è diventato così ingombrante il peso di costruttori e di immobiliaristi? Ma perché i piani urbanistici, e quindi il ruolo pubblico, subiscono una revisione attraverso quel che viene definito urbanistica contrattata. Il potere pubblico entra sistematicamente in una contrattazione con i privati, ti cedo una parte del territorio e tu mi fai un'opera. Un ragionamento analogo si può fare per gli inceneritori. Così si è spalancata alla strada alla discrezionalità. Non a caso nessuno degli episodi emersi riguarda il finanziamento illecito ai partiti ma lo scambio diretto fra un dirigente politico dotato di potere amministrativo e un soggetto economico". 

Il partito degli assessori allora agisce solo per sé. 
"Ma è un'organizzazione del consenso elettorale, ovvero il punto nevralgico del nuovo partito leggero. Privo della forza dell'oligarchia, e senza la forza della pressione di massa, il partito leggero ha come stella fissa la vittoria delle elezioni. Voti non olet. Quello che olet lo fa il potentato locale, che "scherma" il partito. Per questa ragione la sollecitazione a "bonificare", per quanto sacrosanta, temo sia inefficace. Per bonificare, bisogna mettere mano a quel sistema. Togli una mela marcia e ne marciscono altre dieci. Il contagio è ambientale. La politica non può delegare alla magistratura". 

Si fronteggiano due modi di affrontare la bufera, vedi Napoli. Il sindaco Iervolino giura sulla sua onestà, rimpasta la giunta e va avanti. L'Italia dei Valori esce a tappeto da tutte le giunte della Campania. 
"Dipende dal livello delle indagini ma ci sono casi in cui non ce la fai comunque. Sulla moralità della Iervolino sono pronto a mettere la mano sul fuoco, ma superato un limite di soglia c'è il problema di come un atto politico viene percepito in una città, in un territorio. Non cedo nulla al populismo ma devi poter ritrovare la parola, e a volte per farlo non resta che una discontinuità assoluta, e il voto. Magari per ripresentarsi. Detto questo, io penso però che bisognerebbe cominciare dal grande per arrivare al piccolo".

Dal vertice del Pd. 
"Occorre riaprire la discussione sulle forme di democrazia nel territorio. Per esempio certe grandi opere meriterebbero il vaglio di una consultazione referendaria. L'altra questione è tutta politica". 

Qual è? 
"E' il momento di reinventare i partiti democratici, di massa e pesanti. La questione morale dovrebbe essere colta come un'occasione di riforma, che intanto riguarda la sinistra. Se il Pd viene coinvolto, invece di scandalizzarsi bisogna guardare alle cause profonde e pensare ad un vero e proprio big bang. Perché oggi in Italia nella lotta politica la sinistra non c'è, e il partito leggero moderno si è rivelato esposto a rischi cui il vecchio Pci, con tutti i suoi limiti, era immune. Ammettiamo che un ciclo è fallito, senza colpevolizzare nessuno. Serve un nuovo inizio, in cui tutti si mettano a disposizione".

di Umberto Rosso da la Repubblica del 19 dicembre 2008

lunedì 15 dicembre 2008

Democrazia, il paradosso dell'antipolitica

«La democrazia non è solamente il voto nell´urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d´Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell´era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un´evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri.

«Oggi il voto non è più un momento d´identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un´identità sociale, oggi esprime un´opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell´interesse comune».

Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?
«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un´elezione e l´altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell´era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».

Di che si tratta?
«La "controdemocrazia" è costituita dall´insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all´esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E´ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».

Lei parla anche di sovranità negativa...
«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell´attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d´impedire e facoltà d´agire, in democrazia. E´ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».

Quali sono le altre forme della controdemocrazia?
«Un´altra componente importante è l´esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall´ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L´atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell´opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».

Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l´antipolitica. Non è un rischio?
«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall´altro, possono anche indebolirla, alimentando l´antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell´antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un´appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».

Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?
«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell´interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l´amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un´incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».

In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...
«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d´innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un´illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».

Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?
«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E´ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l´appoggio di altre forme di legittimità».

In che modo?
«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall´imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C´è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l´uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell´istante. Infine, c´è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l´accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell´allargamento della concezione della democrazia».

Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?
«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all´interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».

di Fabio Gambaro da la Repubblica del 15 dicembre 2008

martedì 9 dicembre 2008

Ginsborg: «Questo partito può finire come il Psi»

Lo storico «girotondino» «Da Blair in poi la forza di massa cede il posto allo staff del leader: con D'Alema andò così»

FIRENZE — Paul Ginsborg è appena tornato nella sua casa d'Oltrarno, dopo quattro mesi a Berkeley. Ha davanti il titolo dell'Espresso — Compagni Spa — che ha fatto infuriare il sindaco di Firenze, e i quotidiani con la foto di Domenici in catene. Cultore di storia repubblicana, «ideologo» della fase nascente dei girotondi e protagonista dell'episodio-simbolo, la disputa con D'Alema al Palasport davanti a migliaia di fiorentini: «Vinsi io, 3 gol a 1. Anche se D'Alema forse non la pensa così».

Professor Ginsborg, Cordova dice al «Corriere» che gli scandali di oggi chiudono, sul versante sinistro, il cerchio di Tangentopoli. È così?
«Non c'è dubbio che la cronaca di questi giorni vada inquadrata in un contesto storico che comincia nell'89. Allora i postcomunisti non riuscirono ad elaborare un progetto forte che spezzasse l'intreccio tra l'azione politica e il clientelismo. Uno storico male italiano: il rapporto verticale tra patrono e cliente. Gli antichi romani l'avevano codificato. Andreotti lo teorizzò nel '57, quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».

La sinistra aveva un atteggiamento diverso?
«Non ho mai mitizzato il Pci. E non amo parlare di questione morale. Ma a sinistra questo male veniva studiato: penso al lavoro di Mario Caciagli su Catania, di Percy Allum su Napoli, di Amalia Signorelli sul Salernitano; Chi può e chi aspetta era il felice titolo del suo libro. E a sinistra c'era l'orgoglio della diversità, della fibra morale, della connessione tra etica e politica».

C'era. E adesso?
«Oggi il rapporto tra patrono e cliente non viene più studiato. In compenso, è fiorito. Il patrono non è più il proprietario terriero che dispone delle cose proprie; è il politico che dispone delle cose pubbliche. Anche molti politici di sinistra».

Berlusconi dice che la questione morale riguarda il Pd.
«Berlusconi è un grande patrono. Lo dimostra anche con il linguaggio del corpo: ha sempre le mani sulle spalle di qualcuno. Ma il clientelismo e il nepotismo si ritrovano anche nelle amministrazioni del Pd. E non vedo tensione su questo tema al suo interno. Neppure il Pd affronta il grave problema della forma e del ruolo dei partiti. Molti meno iscritti, molto meno consenso. Il partito di massa cede il posto allo staff del leader. Il primo è stato Tony Blair».

Si disse qualcosa di simile del governo D'Alema nel 2000, con Velardi e Latorre.
«L'impressione era quella. D'Alema aveva quell'atteggiamento. Ma non solo D'Alema. Se il centrosinistra non cambia direzione, può fare la fine dei socialisti craxiani negli anni '90».

Addirittura?
«Se il Pd non si apre alla democrazia partecipata, se non si rivolge ai cittadini e si limita a fare da mediatore, a tenere i contatti con i poteri forti economici, diventa indistinguibile dagli altri partiti. Il clientelismo di Cioni nei suoi meccanismi non è diverso da quello della destra».

Che succede a Firenze?
«Le racconto un episodio. Quando Domenici fu eletto, fondammo un comitato per lo sviluppo sostenibile dell'Oltrarno. Andammo dal sindaco, portammo proposte per migliorare il traffico e la vita. Lui sembrò disponibile. Distinse tra le cose da fare subito, quelle di medio e quelle di lungo termine. Decise la chiusura temporanea di due strade, un'ora al giorno, per fare andare i bambini a scuola. Buon inizio. Ma tutto finì lì. Fu commissionato a Carlo Trigilia un piano strategico per la città; ma nel 2005 l'intero comitato scientifico si dimise, e oggi l'inquinamento a Firenze è sopra il livello di guardia. Se non hai una visione complessiva della città, finisci per occuparti solo di edilizia, project-financing, poteri forti. Domenici si è comportato come gli altri politici di sinistra con cui abbiamo discusso, da D'Alema a Chiti: ascoltano; spesso ci danno ragione; e poi fanno come se nulla fosse stato. Un muro di gomma ».

Domenici si è incatenato sotto «Repubblica».
«Mi dispiace, ma non lo vedo come vittima. Preferisco prenderla con leggerezza. Non a caso si è incatenato a Roma; se l'avesse fatto a Firenze avrebbe violato il regolamento del suo assessore Cioni. Vietato disturbare la pubblica quiete, vietato esporre targhe e bacheche senza autorizzazione... C'è però una cosa che mi ha colpito molto del caso Domenici. Il cartello che inalberava».
«Sì alla difesa della dignità e dell'onorabilità».
«Ecco, la parola chiave è onore. Sento un'eco della vecchia Italia, della profonda cultura mediterranea. L'Italia ha grandi meriti che il mondo anglosassone non ha; ma nei Paesi anglosassoni non ci si appella all'onore maschile. Ci si difende laicamente in tribunale. La stessa eco la sento nel tragico suicidio di Nugnes: un'altra storia che ci riporta agli anni di Tangentopoli. Perché reagire così? Perché non dimostrare la propria innocenza, oppure patteggiare la pena? Siamo tutti esseri umani, non dei, e possiamo tutti sbagliare».

Lo scontro tra procure?
«Brutto. I giudici non dovrebbero comportarsi così. Molte cose nella magistratura come casta vanno criticate. Ma la sua autonomia è preziosa e va salvaguardata. E gestita in modo responsabile ».

Bassolino deve andarsene?
«Qualsiasi politico indagato, compreso Berlusconi, dovrebbe andarsene. Figurarsi quelli rinviati a giudizio ».

Dove sono però i girotondi? E che fine hanno fatto i «ceti medi riflessivi» da lei teorizzati?
«I ceti medi riflessivi non sono il Pensatore di Rodin. Si muovono. Ma faticano quando vengono sistematicamente irrisi, come fanno anche molti giornali. In tanti sono caduti nel cinismo, e non si impegnano più. Sarà difficile rianimarli, ma non impossibile».

Può riuscirci Di Pietro?
«Ho sempre pensato che Di Pietro doveva restare in magistratura. Ora ho cambiato idea. Non appartengo al gruppo di Travaglio, Flores, Di Pietro, ma condivido le loro battaglie. Voi giornalisti lo considerate noiosissimo, ma all'estero il conflitto di interesse resta il primo argomento quando si parla d'Italia».

Quindi Veltroni non deve rompere l'alleanza?
«Veltroni ha già commesso un grave errore a rompere con la sinistra radicale. Ha ottenuto un vantaggio immediato. Ma poi la sua apertura a Berlusconi non ha portato a nulla. Ora è in arrivo una crisi economica globale di grande drammaticità. O il Pd trova una progettualità forte e ricostruisce un'alleanza alternativa; o entra in un governo d'emergenza nazionale, e allora diventa indistinguibile dalla destra».

intervista di Aldo Cazzullo dal Corriere della Sera del 8 dicembre 2008

venerdì 5 dicembre 2008

Perché non possiamo fare a meno della laicità

Nel testo della Costituzione non c’è il riferimento alla laicità e nemmeno alla libertà di coscienza. Si può discutere sul perché questa che viene considerata la base di tutte le altre libertà non è menzionata, ma lasciamo da parte il discorso, per il momento: certo, se si volesse fare una riforma della Costituzione ben fatta si potrebbe tentare di inserire la tutela della libertà di coscienza.
Il testo della Costituzione non contiene nemmeno la parola “laicità”. La Costituzione non è la somma di leggi costituzionali, di proposizioni autonome, l’una scissa dall’altra, è invece un sistema, è per l’appunto una costituzione. Si vada alla radice latina constituere che vuol dire mettere insieme, formare, dare assetto e non si dà assetto con una somma di impulsi staccati l’uno dall’altro.
La Corte ha ragionato sull’insieme di norme e ha detto che la Costituzione contiene in sé il principio supremo della laicità, cioè un principio che non può essere cambiato nemmeno con una revisione della Costituzione. Perché principio supremo? C’è una ragione storica profonda. Il rapporto tra Politica e Religione, Chiesa e Stato, è un rapporto che troviamo fin dagli albori delle comunità politiche. Roma aveva la sua religione, la religio civilis; c’è un bellissimo articolo di Montesquieu di una decina di pagine, dove si fa l’elogio della religio civilis romana, in quanto sarebbe l’unica religione che ha accompagnato il contenuto della formazione politica senza alimentare l’intolleranza. Ma questo problema della commistione sta proprio agli albori; c’è un testo perduto di Marco Terenzio Varrone, Antiquitates, in cui si distinguono tre tipi di religione, di teologia: la religio civilis, la religio naturalis e la religio mitica.
Prima di Varrone l’avevano già teorizzato altri. I testi sono andati perduti, ma si ricostruiscono dagli scritti di Sant’Agostino. Nei capitoli sesto e settimo del primo libro del De civitate, Sant’Agostino per contrastare le opinioni dei pagani, ci dà definizione precisa dei tre tipi di religione: la religione mitica è quella che si rappresenta nei teatri, dove si raccontano le gesta di Giove e di Giunone, gli attori si rivolgono agli spettatori con lo scopo di farli divertire; la religio naturalis, riportata in onore di recente da papa Benedetto XVI, perché è la scienza della natura di Dio, che è competenza dei filosofi. Il papa attuale vuole unire religione e filosofia, logos e fede. Poi c’è la religio civilis che si rappresenta nei templi, in chiesa diremmo oggi, i sacerdoti ne sono i soggetti principali che vogliono così rafforzare la compagine politica. Agostino se la prende con Varrone, perché sembrerebbe che questi sostenga la tesi che si fonda il potere della città e poi per rafforzarlo s’inventa la religio. Ma Agostino non poteva accettare che si facesse della religione un’ancella della politica, una conseguenza, uno strumento della politica. Sosteneva l’opposto: prima c’è Dio, la religione, la fede e poi c’è la politica e la città. E’ la tesi della prevalenza della religione sulla politica. Noi potremmo sostenere come Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli: nascono insieme, "si scambiano la veste", per usare l'espressione dell'autore. La storia dell’occidente, almeno, ha avuto le sue tappe ed è approdata all’idea della separazione, della distinzione. La posizione cristiano-cattolica naturalmente insiste molto sulla distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio. Anche se, se ci riflettiamo, questa è una formula totalmente vuota di contenuto, perché il problema fondamentale sarebbe quello di sapere cosa è di Dio e cosa di Cesare e chi può dire, quale autorità può definire. Perché si potrebbe sostenere che tutto è di Dio e nulla è di Cesare. La formula evangelica è costantemente richiamata in tutte le encicliche politiche del basso medioevo, da Bellarmino in poi, a dimostrazione del fatto che, è una formula che, si presta a mille usi.

La mia domanda era: perché il principio di laicità è supremo? Perché la posta in gioco è suprema. Non è solo una questione delle interferenze che possiamo giudicare gravi o meno, in un senso o in un altro. Oggi noi abbiamo sotto gli occhi iniziative che sembrano nascondere ingerenze della Chiesa verso lo Stato, ma nulla esclude che sia reciproco, dello Stato verso la Chiesa, il Concordato del ’29 mussoliniano voleva attribuire all’autorità civile la nomina dei vescovi. Il carattere supremo sta a dire che è in gioco una posta suprema. Questo Pontefice, prima di assurgere al trono di Pietro, riflettendo sulla crisi della società occidentale e sui segni di disgregazione, sull’egoismo, il rilassamento dei consumi, concludeva che la società civile non è una societas perfetta. Questa espressione indica quella società che è in condizioni e in grado di perseguire da sé, con le sue forze, il fine per cui è stata creata. La Chiesa è una societas perfetta, ma lo Stato, la società statale non lo è più. Un’affermazione di questo genere ha importanza elevatissima: il diritto costituzionale si basa sul principio che, attraverso questi strumenti, un popolo è in grado di perseguire autonomamente i propri scopi senza avere bisogno di un supporto di autorità diversa. Quando una delle due società una dice all’altra che non è più perfetta, si comincia a rotolare su una china in cui l’autonomia delle due sfere non viene più considerata. Ecco perché è così importante non solo il principio di laicità, ma il carattere essenziale e fondamentale del principio di laicità. Se non si difende il principio di laicità, non si difendono le basi stesse della convivenza tra di noi, che è una convivenza tra persone che professano le religioni più diverse o che non professano alcuna religione. Lo stato è societas perfetta, in quanto è in grado di assicurare la buona coesistenza, la convivenza, tra tutti questi soggetti. Se invece qualcuno ci dice: tu sei società imperfetta e c’è bisogno dell’apporto della religione – badate, non si può sostenere che c’è bisogno dell’apporto di più religioni, perché diventerebbe un fattore distruttivo, la religione può essere cemento della vita civile solo se è una – ecco, cade il principio. Quindi è fondamentale, non tanto per i rapporti tra Stato e Chiesa, quanto per la nostra auto considerazione, per il modo in cui noi cittadini consideriamo noi stessi.

di Gustavo Zagrebelsky*

* Il testo che pubblichiamo è la trascrizione di una parte della conferenza che il presidente emerito della Corte Costituzionale ha tenuto a Firenze, per l'Istituto di Scienze umane, a Palazzo Strozzi, dall'1 al 3 dicembre, dal titolo Di che vive la Costituzione? Variazioni. La trascrizione dell'intervento è a cura di Olga Piscitelli

giovedì 4 dicembre 2008

Rodotà: «No a leggi restrittive, sì a regole dal basso»

L’ex Garante della Privacy è impegnato per una “carta dei diritti” della Rete: «Ma si devono garantire le libertà, non limitarle»

Della dichiarazione di intenti fatta dal premier Berlusconi Stefano Rodotà non è al corrente: si trova in India proprio per partecipare all’”Internet Governance Forum” promosso nell’ambito delle Nazioni Unite. L’ex Garante della Privacy, giurista e docente universitario, è uno dei “padri” della proposta di dotare la Rete di una “carta dei diritti” a garanzia della stessa comunità internettiana. Nel 2006 l’iniziativa è stata presentata al Parlamento Europeo con la partecipazione del ministro della Cultura brasiliano Gilberto Gil.

Professore, il tema di regolamentare Internet esiste?
«Esiste da anni il tema di una Costituzione per Internet. Una sorta di bill of rights, come lanciato nel 2005 dalla Conferenza di Tunisi. Ma lo spirito deve essere quello di garantire le libertà fondamentali e non di introdurre forme di controllo».

Non sembra la stessa forma mentale che anima il premier.
«Infatti si tratta di due visioni profondamente diverse. Noi discutiamo da tempo per rafforzare le “coalizioni dinamiche” che si creano in modo spontaneo in Rete a garanzia di tutti e perché il bill of rights passi attraverso una discussione della comunità internettiana».

Quindi, le regole devono provenire dal basso?
«Esattamente. Anche se io non parlerei di regole che fanno pensare all’”ingabbiare”. Due sono i punti fermi. Il primo è che si deve intervenire non per restringere bensì per garantire le libertà. Il secondo è di non imporre regole dall’alto ma conformemente alla natura della Rete attraverso un processo aperto e condiviso».

E una legge del Parlamento servirebbe allo scopo?
«Ora non ci sono le condizioni. Oggi vedo molti tentativi di ridurre le libertà online per motivi economici, commerciali, di sicurezza...»

O, come in Cina, per motivi repressivi.
«Infatti. Ed è tanto più necessario tutelare la libertà di espressione. La dichiarazione dei cyber-diritti deve rafforzarsi con un processo a partecipazione allargata».

Quale deve essere dunque l’impostazione corretta per stabilizzare il mondo virtuale?
«Ritengo che la via corretta sia quella che stiamo seguendo. Un’impostazione che pensi Internet come un luogo pericoloso sarebbe da un lato un errore e dall’altro provocherebbe fortissime reazioni del popolo di Internet».

Ci sono già. Siti autoscurati, blog in fibrillazione.
«Nel momento in cui c’è un movimento che si va consolidando e sta acquistando riconoscibilità da parte dell’Onu e della Ue, non dobbiamo andare in direzione opposta. È importantissimo convincere la comunità di Internet che servono regole positive».

A cosa porterebbe una legislazione globale sulla Rete?
«La dimensione in cui ci muoviamo è uno spazio globale dove la legislazione nazionale non basta. L’attitudine tipica di tutti i regimi autoritari è frenare le manifestazioni di libertà su Internet. Da Pechino a Singapore, gli stati che cercano di mettere le mani su Internet lo fanno perché offre al dissenso possibilità inedite. Non dimentichiamo che dalla Birmania, nei giorni della repressione, filtravano online notizie superando la rigida censura. Andare in senso opposto sarebbe assolutamente inaccettabile».

L’Italia non è la Cina. Quali sono i rischi di regolamentare Internet per un paese democratico?
«Certo che non lo è. Ma proprio perché l’Italia è in primissima linea nel rafforzare le garanzie per chi naviga, dico che va benissimo se il governo vuole unirsi a questo fronte. Andare in senso opposto invece sarebbe assolutamente inaccettabile».

intervista di Federica Fantozzi da l’Unità del 4 dicembre 2008

mercoledì 3 dicembre 2008

«Corruzione a sinistra, cacicchi scatenati»

ROMA — «Questa è qualcosa di più di un'intervista, è uno sfogo». A parlare così è Gustavo Zagrebelsky, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, ex presidente della Corte Costituzionale, opinionista influente, capofila della scuola piemontese cui hanno fatto riferimento personaggi come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, e un'intera generazione di magistrati «democratici».
Fumo negli occhi per il centrodestra che lo ha sempre temuto come il padre nobile di Mani Pulite e, negli anni, come la punta di diamante giuridica contro le cosiddette leggi ad personam e i provvedimenti sulla giustizia dei governi Berlusconi succedutisi dal 1994.
Ebbene,con il suo consueto rigore more geometrico Zagrebelsky prende oggi pubblicamente atto che un'enorme «questione morale sta corrodendo il centrosinistra». E che quello che Gerhard Ritter aveva definito «il volto demoniaco del potere» ormai è diventa l'altra faccia della politica del Partito democratico. Secondo l'analisi di Zagrebelsky il Pd «a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati». Dalla Campania all'Abruzzo, da Firenze a Genova.

Oggi la questione morale si è spostata a sinistra?
«Sì. Per un motivo antropologico e per uno politico».

Prima l'antropologia...
«E' una questione di antropologia, ma pur sempre antropologia politica. Le leggi della politica sono ineluttabili: la politica corrompe. Ha un effetto progressivamente corrosivo, permea il tessuto connettivo e stabilisce delle relazioni basate sul potere. Nel caso meno peggiore si tratta di relazioni non trasparenti, di dipendenze, di clientele. Siamo un popolo di clienti delle persone che contano. Nel peggiore dei casi, invece, si tratta di vere e proprie relazioni criminali e di malavita».

Anche nel Pd?
«Sì. Nella sinistra, il neonato Pd è la causa della questione morale che constatiamo. Per due motivi».

Il primo?
«Il mancato ricambio generazionale che era la speranza e la scommessa dei democratici. Non che a sinistra ci siano necessariamente gli uomini migliori, ma si poteva sperare in un rinnovamento che avrebbe invertito l'inesorabile avanzata degli effetti della legge della corruzione».

Il secondo?
«La debolezza del partito, dell'organizzazione del partito, la mancanza di comuni linee di condotta...».

Rina Gagliardi su «Liberazione « ieri sottolineava che l'esplosione della questione morale comporta il rischio di implosione per il Pd. Manca il centralismo democratico?
«Certamente non bisogna invocare il centralismo democratico che era anch'esso una degenerazione, ma al centro del Pd oggi come oggi non c'è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati ».

Anche D'Alema aveva definito questa tipologia di politici locali il «partito dei cacicchi». Lei quando parla di caciccato pensa alla Campania del presidente Antonio Bassolino?
«Non conosco direttamente le varie situazioni: certo è che se ne sentono dire di tutti i colori».

Proprio ieri il capo dello Stato, parlando a Napoli, ha fatto un forte appello all'autocritica delle forze politiche in particolare del Mezzogiorno. Condivide le parole di Napolitano?
«Completamente. Anche perché si stanno avvicinando le elezioni amministrative e quello che si vede e si sente ha effetti devastanti sulla tenuta democratica del Paese».

Ci spieghi...
«La gente si sente strumentalizzata, usata per giochi di potere. C'è un drammatico bisogno di ricambio degli amministratori. Molti cittadini hanno veramente creduto nella possibilità di un cambiamento con il governo della sinistra.
E invece, le ferree regole descritte da Ritter ne Il volto demoniaco del potere hanno avuto il sopravvento e si è instaurato il caciccato ».

E nel centrodestra ci sono i cacicchi?
«Il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che ha dimostrato di avere le capacità e le possibilità, anche materiali, di tenere insieme i suoi. Noi constatiamo che a destra il sistema di potere funziona meglio e quindi è meno visibile. Non che questo sia un vantaggio, ma gli effetti degenerativi non sono sotto gli occhi di tutti in maniera così eclatante».

di M.Antonietta Calabrò dal Corriere della Sera del 3 dicembre 2008