martedì 10 ottobre 2006

I quattro volti della sinistra

Chi aveva sperato che dopo il crollo del muro di Berlino la fantasia politica della sinistra, liberata dal dogmatismo marxista, avrebbe preso il potere è rimasto profondamente deluso. Se i partiti politici europei continuano a comportarsi come chi vive di rendita non è certo che i paesi europei continueranno ad essere Stati moderni, benestanti e progrediti. Sono indignato dalla totale mancanza di analisi della situazione dell'Europa nel mondo e dall'assenza di nuove idee che esplorino il politico al di là del nazionale e dell'internazionale. Dov'è la sinistra? Tace. Cosa dicono i sindacati? Sono muti. Cosa propongono gli intellettuali? Il numero selezionato non risponde. Per non essere frainteso: se qualcosa si può raccogliere a piene mani, sono le pigre contraddizioni dell'albero della "giusta" conoscenza. Per tutti i problemi che muovono il mondo - dalla tutela ambientale, attraverso gli intrecci economici e i movimenti migratori fino alle questioni dell'assicurazione regionale e globale della pace - il pensiero nazionale ha perduto la sua competenza politica. Tutto ciò che dà impulso al nazionalismo in Europa - la disoccupazione di massa, i flussi di profughi, le guerre, il terrorismo - ha un carattere ironicamente internazionale.
E allora, what's "left"? Come tante altre cose, anche l'essere di sinistra della sinistra si è in un modo o nell'altro sbriciolato, pluralizzato. Se da un lato si distingue tra "protezionista" e "aperto al mondo" e, dall'altro, tra "nazionale" e "transnazionale", si possono distinguere quattro tipi di "sinistra": la sinistra protezionista, la sinistra neoliberale ("terza via"), la sinistra-cittadella, la sinistra cosmopolita.
In tutti gli schieramenti politici le strategie ortodosse di conservazione dell'esistente sono sulla difensiva. Ovunque si rivendica la "flessibilità" - ciò che in ultima analisi significa che un "datore di lavoro" deve poter licenziare più facilmente i suoi "lavoratori". "Flessibilità" vuol dire anche ripartizione tra gli individui dei rischi dello Stato e dell'economia. I lavori disponibili diventano a breve termine, facilmente revocabili, ossia "rinnovabili". "Flessibilità", infine, significa: "Rallegrati, le tue conoscenze e le tue capacità sono invecchiate e nessuno è in grado di dirti cosa devi imparare per essere utilizzato in futuro".
Contro questa economia politica dell'insicurezza si schiera e si batte la sinistra protezionista. Il suo filtro magico, il suo antidoto è il rifiuto collettivo della realtà. Questi riemergenti fautori di un protezionismo dello Stato sociale caro alla sinistra nazionale non vogliono, semplicemente, prendere atto che la crisi dei sistemi sociali è di tipo non congiunturale. Non c'è dubbio che si tratti di una constatazione amara. Ma ficcare la testa nella sabbia di fronte alla nuova situazione economica e politica mondiale non è mai stato di sinistra. E non aiuta nessuno - al contrario: acuisce i problemi di tutti. Sta per finire un'epoca iniziata con le leggi sociali di Bismarck e che da ultimo in Europa aveva suscitato l'illusione di poter realizzare il grande compito di garantire alla maggioranza delle persone una vita in libertà e in sicurezza. Questa soluzione della "questione sociale" è ora diventata a sua volta un problema sociale. Chi, di fronte ai prevedibili cambiamenti nella composizione per età della popolazione, al decrescente volume del lavoro retribuito nel capitalismo digitale, alla sempre maggiore domanda di lavoro retribuito dichiara intoccabili la quantità e il livello delle prestazioni del welfare, mette in pericolo l'insieme. Il nazionalismo con il paraocchi della sinistra protezionista (al quale inclinano anche i comunisti e gli ambientalisti) facilita la conversione al fronte delle destre xenofobe. Infatti, nella difesa del "nazionalismo del welfare" le ideologie di destra e di sinistra si danno la mano.
La sinistra neoliberale accetta e prende sul serio la sfida della globalizzazione che viene per così dire rifiutata preventivamente dalla sinistra nazional-protezionistica. Qui si cerca un nuovo legame tra lo Stato nazionale e il mercato mondiale, che è stato espresso in particolare dal New Labour, nella forma del programma politico della "terza via". La sinistra neoliberale ricava il suo profilo proprio nell'opposizione alla sinistra protezionista. Da un lato essa vuole dare accesso alle "nuove realtà" in una politica riformatrice di sinistra. Dall'altro, però, essa - che per questo aspetto non è molto dissimile dalla sinistra protezionista - rimane legata al pensiero-container e alla concezione della politica nazionali. Chi vuole cambiare qualcosa a partire da queste premesse indiscusse deve necessariamente essere "ingiusto", ridimensionare le aspirazioni, respingere le pretese, incoraggiare l'iniziativa autonoma, battersi e impegnarsi per un'altra logica, un'altra morale della politica sociale. Per questa "necessità patriottica" del dover essere ingiusti i riformatori neoliberali dello Stato sociale possono chiedere a buon diritto comprensione e approvazione. Tuttavia, essi sono destinati all'insuccesso, perché il campo d'azione degli Stati è limitato al dilemma: o pagare la crescente povertà con maggiore disoccupazione (come nella maggior parte dei paesi europei) o accettare la povertà clamorosa in cambio di una disoccupazione un po' meno alta (come negli Stati Uniti).
La sinistra-cittadella (difficile da distinguere da una destra-cittadella) mostra i denti nell'innalzare confini contro gli stranieri. L'Unione europea difende i confini nazionali con mezzi europei. Gli Stati economicamente più potenti perseguono una politica ispirata a una doppia morale dell'economia di mercato, in quanto esigono il rispetto dei principi del libero mercato per tutti gli altri paesi, mentre proteggono i loro mercati interni dalle "aggressioni straniere". E questo non vale soltanto per la concorrenza economica, ma anche e soprattutto per l'immigrazione. Anziché vedere in una politica mirata dell'immigrazione un vantaggio strategico per l'Europa che sta invecchiando drammaticamente, si valuta per intero l'immigrazione in modo negativo e le si risponde con l'edificazione della "fortezza Europa" - con il grande consenso di tutti i partiti e i governi "europei".
La sinistra cosmopolita è, secondo molti, una sinistra idealista senza apparato di partito, senza chance di potere. Tuttavia, sussiste una nascosta affinità elettiva tra la questione del potere e la questione della giustizia. Forse, si può addirittura affermare che la questione della giustizia è diventata sostanzialmente una questione di potere - questo vale nel quadro nazionale ma anche nel rapporto al contempo locale e mondiale tra le culture e tra le religioni. Rinunciare all'utopia significa rinunciare al potere. La dichiarata mancanza di utopia è un assegno in bianco all'autorinuncia della politica alla politica. Solo chi riesce a entusiasmare ottiene consenso e potere. La riscoperta della questione della giustizia è in fin dei conti più realista del cosiddetto realismo dei pragmatisti privi di grandi visioni. Essa però presuppone un altro concetto della politica, ossia un concetto non nazionale. La domanda chiave, cioè come si possano arginare politicamente i rischi sfrenati dei flussi di capitali diffusi in tutto il mondo, si pone a tutti i governi e a tutti i partiti politici. Perché, allora, non fare entrambe le cose: risparmiare inflessibilmente e sviluppare ed esplorare una nuova politica transnazionale per creare così il presupposto dell'organizzazione dei mercati mondiali e la soluzione dei problemi nazionali fondamentali? La risposta alla globalizzazione consiste in una migliore coordinazione internazionale della politica nazionale, in più forti controlli sovranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nell'eliminazione del dumping fiscale, in una stretta collaborazione tra le organizzazioni transnazionali e nel loro rafforzamento, nel senso di una maggiore mobilità politica e legittimazione democratica. Sono vie, anzi le uniche vie, per restituire alla politica efficacia a livello nazionale. Ecco la strada più lunga: il realismo cosmopolita. Un dare e ricevere multilaterale, nel quale alla fine ognuno può risolvere meglio i suoi problemi nazionali.
Il vuoto di legittimazione dei gruppi industriali transnazionali è palese, ed essi temono la fragilità dei loro mercati che ne deriva. Non pagare tasse e cancellare o trasferire altrove posti di lavoro alla lunga non dovrebbe bastare per creare nuova fiducia e stabilizzare i mercati. Perché allora non perseguire la strategia politica combinata: da un lato abbassare il costo del lavoro e, dall'altro, sollevare pubblicamente la questione di quale contributo offrano alla democrazia in Europa le imprese che danno sempre meno lavoro e realizzano profitti sempre più alti? Perché non riconoscere la pluralità dell'autonomia precaria e renderla calcolabile per gli individui con una politica sociale di sicurezza fondamentale (assistenza sanitaria e previdenziale indipendente dal reddito, finanziata da tutti)? È questo il compito erculeo di fronte al quale una sinistra cosmopolita può sviluppare il suo profilo e la sua autoconsapevolezza, dando buona prova di sé.
Il rinnovamento dei contenuti della politica è la via maestra per il rinnovamento del potere della politica. Dunque, non c'è soltanto un cosmopolitismo idealistico, ma anche un cosmopolitismo capace di elaborare strategie per il potere. Anche l'assolutamente cinico Machiavelli nel perseguire le sue strategie di ottimizzazione del potere dovette convertirsi all'idealismo.
Molti si trincerano, si arroccano e recitano i rosari del postmoderno - "fine della politica", "fine della storia", "insensato", "troppo tardi" -, mentre attorno a loro il politico irrompe di nuovo. Ma questa nuova irruzione avviene proprio all'insegna di un nuovo concetto del politico, che bisogna saper riconoscere, cogliere, sperimentare. Una politica economica "moderna" dovrebbe quindi rispolverare anche nella cooperazione transnazionale di fronte all'economia mondiale l'abicì della politica, cioè il principio che la ricchezza genera l'esigenza di diritti e di giustizia e perciò responsabilizza i potenti. La politica predominante, che tende a radicalizzare le disuguaglianze e a smantellare il diritto, corre senza freni e inevitabilmente verso il muro della mancanza di consenso. Questo intendeva l'ex primo ministro spagnolo Felipe Gonzales, quando diceva: "Noi (socialdemocratici) governiamo ovunque in Europa, ma non siamo al potere". È passato un bel po' di tempo.

di Ulrich Beck da la Repubblica del 10 ottobre 2006

(traduzione di Carlo Sandrelli)

martedì 5 settembre 2006

Ecco perché il socialismo non può morire

I CRITICI del socialismo come movimento sia ideale sia organizzato hanno a mio avviso pienamente ragione a denunciare il dato evidente che al suo interno regna una forte confusione e a ritenere che con esso occorra fare i conti. Stando alle voci che hanno trovato eco su questo giornale, la grande maggioranza pensa che si tratti di chiudere i conti con un'esperienza che ha avuto un'enorme importanza storica, ma che ora si presenta definitivamente esaurita. Amato va controcorrente, però solo in parte, poiché anch'egli non ritiene auspicabile o difendibile la persistenza della sua autonomia organizzativa. In effetti, nessuno può chiudere gli occhi di fronte al fatto che sopravvive un'Internazionale socialista, esiste un Partito socialista europeo, operano nel mondo un numero assai elevato di partiti socialisti, ma che tutti navigano in un mare incerto, nella prevalente difficoltà di elaborare strategie, programmi di governo che diano loro una distinta fisionomia, insomma di presentare un volto ideale e politico ben definito. Se si tratti di morte come affermano Lloyd e Giddens o meno, certo la malattia è grave. Ma l'interrogativo che pongo è il seguente: è solo il socialismo a non essere in buona salute? Dove e chi sono le correnti, le organizzazioni e i partiti in grado di lanciare messaggi limpidi, di proporre piattaforme davvero efficaci in relazione ai problemi sempre più complessi della governabilità dell'Occidente e più in generale del mondo?
Mi pare di ben comprendere le critiche rivolte allo stato attuale del socialismo da Lloyd, Giddens e Touraine, ma devo d'altra parte dire di non poter fare altrettanto per quanto attiene alle loro conclusioni.
Poiché il socialismo è morto o muore se altri è ben vivo, se altre forze sono in grado di recepirne le istanze di fondo che si ammette abbiano una loro autentica validità e di incorporale in sé; altrimenti le cose si complicano. Oggi si parla della morte del socialismo perché esso è in crisi. Ma quante volte è parso che il liberalismo fosse defunto e che lo fosse anche la democrazia? Al solo socialismo bisogna negare la possibilità di una ripresa?
Chi guardi alla scena che si presenta la vede, a mio giudizio, dominata dai seguenti fattori. L'ondata neoliberista nell'era della globalizzazione ha innalzato la bandiera della libertà dei soggetti economici e dell'espansione del mercato; ma i soggetti protagonisti del mercato globale sono i grandi potentati finanziari ed industriali, che piegano la società ai loro prevalenti interessi, esercitano un'influenza decisiva sulle politiche degli Stati e non esitano quando loro conveniente a difendere monopoli e a invocare politiche protezionistiche, sono responsabili in molti paesi di vaste pratiche di corruzione, generano una distribuzione delle risorse che negli ultimi anni ha portato ad un divario sempre crescente tra le quote di reddito dei ceti alti e quelli medio-bassi. La solidarietà sociale viene largamente invocata, ma si attacca come statalismo il prelievo fiscale che può rendere disponibili le risorse necessarie ad attuarla.
L'assistenza sanitaria è assicurata ad alti livelli per chi può pagarla e lo è sempre meno a chi dipende da un settore pubblico impoverito. Mentre i ricchi godono di mezzi che garantiscono loro una tranquilla continuità di reddito ed elevati consumi, troppi sono coloro che dispongono di retribuzioni insufficienti o che lottano in condizioni di precarietà o di povertà per avere un salario.
Ma vorrei sottolineare un altro elemento di importanza allarmante. La libertà dei grandi soggetti economici alla ricerca del profitto è accompagnata dal saccheggio dell'ambiente che non trova gli ostacoli dovuti in molti paesi da parte degli Stati a partire dalla ricca America per arrivare, con scenari inquietanti, ai paesi attualmente più rampanti come la Cina e l'India. Orbene chi se non il potere pubblico, che si vorrebbe ridotto sempre più ai minimi termini, può dotarsi dei mezzi per affrontare le questioni sopra indicate?
Il socialismo moderno è sorto per rispondere a tre esigenze: lottare contro le forme di società che privano gran parte degli individui dei beni materiali e spirituali per sviluppare in modi "umani" la propria personalità; organizzare e mobilitare gli strati sociali privati in parte o in tutto di questi beni; dare alla società indirizzi di governo per pervenire a una distribuzione delle risorse che impedisca a una parte di costruire il proprio benessere sul malessere altrui.
Storicamente questi obiettivi sono stati interpretati e applicati nel Novecento in due maniere diverse: l'una radicale intesa ad agire mediante la rivoluzione, la dittatura e l'abolizione della proprietà privata; l'altra con le riforme, la democrazia, il ricorso al potere pubblico per regolare il mercato, impedire un uso predatorio delle risorse prodotte a favore degli strati privilegiati, varare istituzioni in grado di proteggere i più deboli e di promuoverne il miglioramento non contingente delle loro condizioni. I critici del socialismo anche democratico fanno carico a questo di aver perseguito forme accentuate di statalismo economico con il potenziamento del "sistema misto". Sennonché questo tipo di statalismo - è il caso di ricordare - è stato il prodotto di una tendenza che ha largamente dominato il secolo, tanto da essere stato fatto proprio anche da governi liberaldemocratici e fascisti. I governi socialdemocratici e laburisti ne hanno rappresentato una variante orientata a scopi umanistici e sociali.
La via comunista è andata incontro ad un fallimento; quella socialdemocratica ha ottenuto grandi risultati. Ha però anch'essa irrimediabilmente chiuso il suo ciclo nel 1989? Touraine sostiene che oggi, dopo la fase neoliberista contrassegnata dalla "onnipotenza" dei dirigenti dell'economia, dalla "pioggia d'oro" finita nelle tasche dei manager, dall'acquiescenza degli Stati ai loro interessi particolari, l'opinione pubblica chiede "una sterzata a sinistra". Sennonché non la vuole posta sotto il segno del socialismo. Osservando la debolezza dei partiti socialisti e dei sindacati ritiene che i soggetti atti a farsene carico possano essere piuttosto i movimenti di base, le associazioni, le organizzazioni non governative ovvero "la società civile" (e a opporre al ruolo dei partiti socialisti quello della società civile sono anche Lloyd e Giddens).
Qui sorge la questione di fondo. E' possibile attuare una sterzata a sinistra senza farlo dalle sedi del potere politico, senza disporre delle leve del governo? Chi può mai accedere al potere e al governo se non i partiti? E quale il contenuto di quella sterzata se non la ripresa e il rilancio degli obiettivi propri dei partiti socialisti democratici: fare leva sugli interessi colpiti, offrire loro un referente politico organizzato, affidare al potere pubblico il compito di regolare con obiettivi sociali il mercato (anche con le liberalizzazioni quando queste valgono a colpire rendite di posizione), avendo come stella polare una più giusta distribuzione delle risorse così da conseguire importanti valori e un ordine civile più umano?

di Massimo L. Salvadori del 5 settembre 2006

martedì 22 agosto 2006

Ecco perché sono fiero di essere socialista

Il ministro dell'Interno risponde alla domanda di John Lloyd che aveva chiesto: "Che cosa vuol dire definirsi socialisti?"

Caro direttore,ù l'articolo di John Lloyd, "Che cosa vuol dire definirsi socialisti", pubblicato giorni addietro da "La Repubblica", rivolge ai socialisti la classica domanda esistenziale: ma dopo tanti anni e tanti cambiamenti in che cosa consiste la vostra identità? Siete proprio sicuri che la potete considerare ancora socialista, visto che ora liberalizzate l'economia anziché nazionalizzarla, riducete le pensioni pubbliche e fate spazio alla previdenza privata e fate vostre istanze che un tempo avreste ritenuto moderate e altrui? Siete - sia chiaro - una ammirevole forza di progresso nelle odierne società europee e vi state battendo per valori e principi tutti da condividere. Ma la visione che offrite, il pluralismo, la solidarietà, l'ambientalismo e la passione democratica che oggi connotano voi, e non solo voi, li potete davvero ricondurre alla vostra "fierezza" socialista?
Capisco le domande e condivido l'approdo a cui vogliono portare. Ma da vecchio socialista riformista, che si è sempre battuto contro le visioni autoritarie e stataliste in vario modo prevalse nella mia famiglia politica nel corso del ventesimo secolo, sento il bisogno di rivendicare quei tratti identitari, che il socialismo lo fanno riconoscere più nella sinistra dei diritti e del pluralismo di oggi, che in quella dello statalismo di ieri. Si tratta, del resto, dei suoi tratti originari, perché la grande aspirazione di cui il movimento socialista seppe farsi storicamente interprete, l'aspirazione all'eguaglianza, era geneticamente collegata alla libertà, esprimeva il sacrosanto desiderio dei tanti di avere quel bene - la libertà - di cui soltanto i pochi avevano goduto in precedenza.
Lo so bene che proprio in ragione delle ideologie poi prevalse nel movimento socialista eguaglianza e libertà hanno finito per contrapporsi, tanto da fare del "socialismo liberale" un ossimoro coltivato a lungo da una minoranza e guardato addirittura dai più (all'interno della famiglia) come un cedimento al nemico di classe. Ma la verità delle cose è che da quell'ossimoro, in realtà, eravamo partiti e ad esso siamo infine tornati dopo che le ragioni di quei più si sono rivelate errori, se non vere e proprie tragedie, e che loro stessi hanno finito per accettarne i postulati.
Nella storia, dai greci sino alla rivoluzione francese, l'eguaglianza aveva sempre avuto per metro le libertà e i diritti. E proprio per questo ottenere eguaglianza aveva sempre significato arrivare a condividere libertà e diritti dai quali si era in precedenza esclusi. Non era un'aspirazione diversa, anzi era solo più ampia e diffusa, quella che nell'800 trovò le sue radici nelle durezze del nascente capitalismo industriale mentre perdurava lo sfruttamento nelle campagne. E fu davanti alle sconvolgenti novità di quel tempo che presero corpo, sino a prevalere, ideologie che incrinarono lo storico collegamento fra eguaglianza e libertà, ipotizzando nuove organizzazioni sociali complessive che l'eguaglianza l'avrebbero realizzata attraverso trattamenti uniformi erogati dall'alto e a scapito quindi della libertà. Tutto ciò sarebbe accaduto - si intende - in nome di una "superiore" libertà e in base al principio - incontestabile - che estendere davvero ai tanti le libertà dei pochi non è operazione fattibile estendendo sic et simpliciter gli assetti esistenti: l'istruzione a tutti non la si dà portando un tutore in tutte le famiglie, la si dà creando la scuola pubblica.
Ma l'ubris delle ideologie (non solo socialiste) del tempo fu tale che si andò ben oltre nella progettazione delle future società dell'eguaglianza. E in casa socialista gli elementi di analisi e interpretazione della storia forniti da Marx, indiscutibilmente formidabili, divennero tuttavia ben di più, divennero una scienza che pretese di imporsi alla stessa storia e di farla evolvere secondo regole che, se ben conosciute e applicate senza errori, avrebbero portato ai risultati voluti. A una tale scienza si ispirò il comunismo, ma da essa non fu immune neppure la socialdemocrazia burocratica e deterministica, alla quale, non a caso, si contrappose Bernstein, ricordando che la storia non si dirige verso fini, ma è nutrita di movimenti in cui occorre farsi largo cercando di avere una bussola.
C'è voluto oltre un secolo perché Bernstein avesse ragione e l'avessero con lui tutti i socialisti che avevano visto e vedevano l'inammissibile potenziale di potere, partitico, burocratico e statale, che scaturiva dall'impostazione prevalente: con conseguenze tragiche laddove quel potenziale si era tradotto in regimi comunisti, con conseguenze distorsive, diseguali e dispersive di risorse laddove si era tradotto in nazionalizzazioni e pubblicizzazioni a tappeto in contesti socialdemocratici. Certo si è che oggi a prevalere sono i postulati dell'ossimoro liberal-socialista: la storia non è guidata da regole scientifiche, ma è mossa da azioni e interazioni dall'esito imprevedibile, nessuno può aspettarsi di realizzare un futuro già scritto, garantire la libertà a chi non l'ha significa metterlo in condizioni di camminare sulle sue gambe e non fargli nunc et semper da angelo custode, la pubblicizzazione non è una forma di contrasto del potere privato nell'economia necessariamente migliore dell'antitrust.
Non è il tramonto, è la vittoria del socialismo, sono indotto a dire io. E ci tengo a che la si legga così, altrimenti si rischia ciò in cui anche Lloiyd cade e cioè di vedere sfumare, a questo punto, le differenze più rilevanti fra destra e sinistra. Lloyd dice: a questo punto da voi non mi aspetto differenze eclatanti, mi aspetto solidarietà, integrità e rispetto della "rule of law" in misura "maggiore" che dalla destra. Manca qualcosa in questa lettura, manca la percezione di quella che era e non può non rimanere la bussola basilare dei socialisti: la libertà per i più e non per i pochi. Seguire questa bussola può anche portare a differenze che in più casi si manifestano come quantitative. Ma c'è indiscutibilmente qualcosa di più.
Certo, non posso non essere consapevole della storia, né del fatto che la storia la si paga sempre: non tanto e non soltanto la storia comunista, che non è quella del mio socialismo, quanto la storia della stessa socialdemocrazia, per la parte rilevantissima in cui questa finì per immedesimarsi con un ruolo dello Stato nell'economia che, specie dopo la crisi del '29, ebbe anche ispirazioni diverse, produsse positivi effetti di stabilizzazione, ma è oggi largamente superato. Una tale immedesimazione pesa ancora oggi sull'identità socialista, di sicuro pesa sulla lettura che gli altri ne danno e quindi sulla sua stessa capacità di attrazione. D'altra parte il socialismo liberale, in ragione della sua storica e pur immeritata minorità, non potrebbe mai bastare a realizzare da solo il fine della "libertà eguale". Deve tenerlo distinto e lontano dalle accentuazioni individualistiche che avvelenano le società del nostro tempo e deve per questo sapersi legare ai movimenti, in genere di ispirazione religiosa, fortemente orientati alla solidarietà collettiva ed alla responsabilità verso gli altri. Con loro e non solo con loro deve altresì creare una rete che, in ogni parte del mondo, la libertà eguale la radichi e la faccia maturare, tagliando l'erba sotto i piedi, non solo ai tradizionali fattori di sfruttamento e di emarginazione, ma anche alle ideologie radicali e ai populismi che, in nome della emancipazione, minacciano di produrre nuove e vecchie schiavitù e di destabilizzare il mondo.
Sono dunque socialista e fiero di esserlo. Ma proprio per questo sono pronto a confondere la mia identità con quella di quanti, nel contesto del nuovo secolo, in Italia e in Europa, in Europa e nel mondo, possono concorrere a realizzare con me l'ossimoro in cui ho sempre creduto.

di Giuliano Amato da la Repubblica del 22 agosto 2006