mercoledì 19 marzo 2008

Quel mondo capitalista da cui è nato il salariato

Salario era la razione di sale corrisposta ai legionari al tempo dei Romani. E Salaria era la via lungo la quale si trasportava il sale dalla Sabina a Roma. Essa incrociava vicino alla foce del Tevere la via Campana che collegava le genti etrusche con quelle greche, costituendo quel centro di traffici che divenne Roma. Del salario si parla però pochissimo nell’antichità. Le mansioni affidate oggi ai lavoratori manuali erano imposte agli schiavi e le attività libere erano svolte dalla famiglia, soprattutto dalle donne (filatura, tessitura eccetera). Non si parlava di salario perché non c’era una classe di salariati. Inoltre, il lavoro fisico e materiale era altamente disprezzato. Poteva essere molto apprezzato l’artigianato e l’attività intellettuale (poeti, traduttori) nonché quella ludica (giocolieri danzatrici, cantori): ma solo nell’ambito di relazioni individuali, non di un "mercato". I salariati sono una invenzione del capitalismo all’inizio della modernità. Si scopre che, anziché comprare e vendere uomini e donne, facendoli lavorare o usandone gratuitamente, ma anche accollandosi tutti i costi della loro, per quanto grama, esistenza, era molto più conveniente comprare la loro forza lavoro, pagandola il meno possibile e vendendo sul mercato il loro prodotto. È alla fine del Medioevo che nasce così il "mercato del lavoro", anche grazie a una rarefazione dell’offerta di lavoro provocata dalla peste.

Ma per vere e proprie teorie del salario bisogna aspettare gli economisti classici: Smith Malthus e Ricardo soprattutto. Le teorie classiche sul salario sono comprese in quella branca dell’economia politica che si occupa della distribuzione del reddito. Si tratta di spiegare il ruolo economico delle tre principali classi sociali: proprietari terrieri, imprenditori capitalisti, lavoratori e la natura dei loro redditi: rendita profitto e salario. La teoria classica parte dunque da una visione molto concreta della società e della sua divisione in classi. La versione più pertinente della teoria classica è quella che considera la rendita come una specie di tassa pagata ai proprietari per l’uso delle loro terre, legata alla loro fertilità; il salario come una remunerazione legata alle esigenze vitali elementari; e il profitto come il reddito dell’imprenditore che residua dopo aver pagato rendite e salari. Si può dire che essa riflette "brutalmente" i rapporti di forza tra le tre classi: proprietari (in parte aristocratici) imprenditori (borghesi) e lavoratori (proletari).

Ci sono altre versioni, anche in Smith e in Ricardo, della teoria classica, per qualche aspetto anticipatrici delle successive teorie neoclassiche; ma questo è il suo più caratteristico approccio. Se si può parlare delle simpatie degli economisti classici, non c’è dubbio che, nell’insieme, esse erano rivolte ai capitalisti imprenditori, con atteggiamenti compassionevoli nei riguardi dei proletari, e malcelato disprezzo per gli aristocratici proprietari. Non vi è traccia di riferimenti al concetto di "sfruttamento". L’aspetto normativo della teoria è esplicitamente conclamato: è la richiesta di una politica della più ampia libertà degli scambi che lasci ai capitalisti l’iniziativa delle loro imprese e al mercato la determinazione dei prezzi, senza intrusioni politiche e amministrative e con la sola garanzia della maggiore possibile concorrenza (liberismo). Concorrenza nella formazione dei prezzi e concorrenza nella determinazione dei salari, affidata alla "libera" contrattazione tra imprenditori e lavoratori.

Se c’è una forza attrattiva che influisce oggettivamente sulla determinazione del salario è quella del "valore lavoro" (la quantità di lavoro incorporata nella prestazione dei lavoratori). È proprio da questo concetto "ricardiano" che parte Carlo Marx per il suo "grande assalto", come lo chiama Galbraith, alla teoria classica, non tanto nelle espressioni dei suoi fondatori, ma nei riguardi di quei loro esegeti che definisce "economisti volgari" per le loro scoperte tendenze apologetiche nei riguardi delle nuove classi dominanti. Il nucleo forte dell’attacco è la teoria dello sfruttamento. Il salario è mantenuto, più o meno, al livello del valore-lavoro, grazie alla formazione di un’armata di riserva di disoccupati che preme attraverso la concorrenza tra i lavoratori. E il capitalista intasca tutta la differenza tra il prezzo del prodotto, venduto al suo valore nel mercato dei prodotti e il prezzo del lavoro, comprato al suo valore nel mercato del lavoro. Notare che Marx, diversamente da Proudhon non accusa i capitalisti di alcun "furto" (sottrazione di valore). Essi comprano forza lavoro al suo valore e vendono prodotti al loro valore. La differenza è data dal fatto che i lavoratori, una volta ingaggiati, lavorano per una durata superiore a quella che sarebbe necessaria a pagare il loro valore: un pluslavoro che genera sul mercato un plusvalore, che è l’essenza del profitto. Questo è l’"onesto" gioco di prestigio che si chiama "sfruttamento" e che genera un conflitto insanabile tra capitalisti e proletari.

Di tutt’altra natura è la spiegazione del salario offerta, nell’ambito di una teoria della distribuzione del reddito radicalmente diversa dalla teoria classica, dalla cosiddetta teoria (in realtà un complesso di teorie) neoclassica, fiorita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, soprattutto in Austria e in Inghilterra. Il colpo di genio consiste qui nel rovesciamento della prospettiva epistemologica. Si parte non più da una visione storica oggettiva delle classi sociali, ma da assiomi psicologici soggettivi del comportamento individuale. E si rappresentano non più le forme concrete di appropriazione del reddito di quelle classi, in quella situazione storica, ma le forme astratte e astoriche di una distribuzione del reddito che si riferisce non a soggetti sociali concreti (lavoratori, capitalisti, eccetera) ma a "fattori produttivi" astratti (capitale, lavoro, eccetera). Si verifica quella rappresentazione distorta della realtà in base alla quale, come dice Maurice Dobb, «menti incorporee si confrontano con oggetti fantomatici di scelta».

La "rivoluzione keynesiana" ha smontato questa rappresentazione dimostrando come la spontanea dinamica del mercato, a seguito di propensioni diverse al risparmio e agli investimenti, proprie di soggetti diversi, possa condurre a livelli stabili di disoccupazione. In tale caso solo un intervento dello Stato attraverso politiche macroeconomiche, prevalentemente fiscali, può ristabilire l’equilibrio stimolando una crescita della domanda. La teoria keynesiana rifiuta sia l’automatismo mercatistico dell’equilibrio generale neoclassico, sia il catastrofismo palingenetico della teoria marxista, e assegna un compito riformistico equilibratore allo Stato, che incontra le esigenze di benessere collettivo sostenute dalla sinistra socialdemocratica, preservando la logica essenziale del mercato e la sopravvivenza del capitalismo, malgré lui. È questa la stagione del liberalsocialismo. Intanto, grazie all’aumento generale della produttività e al crescente potere dei sindacati, il salario si è elevato ben al di sopra della soglia della sopravvivenza e ha trovato, nel clima riformistico del secondo dopoguerra, un nuovo aggancio al saggio di aumento della produttività, nell’ambito di una politica dei redditi. Ma alla fine degli anni Sessanta l’egemonia keynesiana entrava a sua volta in crisi. Non si può negare che parte di questa crisi sia riconducibile a irrigidimenti salariali provocati dal potere conquistato dai sindacati nel mercato del lavoro, come pure all’eccessiva interferenza delle amministrazioni pubbliche nella sfera economica. La successiva globalizzazione dei capitali e finanziarizzazione della grande impresa va interpretata almeno in parte come una controffensiva capitalistica su larga scala. Sta di fatto che gli anni Settanta e Ottanta segnano il ritorno di un neoliberismo monetarista che pretende di riconsegnare il mercato del lavoro, e quindi il salario, alla "libera" contrattazione su base individuale e cioè, in pratica al gioco dei rapporti di forza originari tra capitale e lavoro.

La pretesa non ha successo che in parte; ma il "combinato disposto" globalizzazione-finanziarizzazione determina alla fine del secolo un deciso spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti (più particolarmente, delle rendite finanziarie) e a svantaggio dei salari. Intanto l’intero assetto dell’economia è cambiato sotto l’impulso di una mercatizzazione dello spazio mondiale e di un progresso tecnologico che hanno favorito la libertà di movimento e di iniziativa delle grandi imprese. Oggi lo stesso significato di produzione e di produttività è in gioco. E con esso, lo stesso significato sociale del lavoro. È in gioco, insieme alla debolezza del salario, lo stesso senso della crescita, contestato dalla degradazione ambientale. Sul terreno dell’economia sociale, è in gioco l’antico venerato aforisma: crescere per "poi" distribuire. Di fronte all’eternizzazione di quel "poi" e alla crescente insignificanza della crescita, ci si può chiedere se per caso la sequenza dei due termini non debba essere invertita.

di Giorgio Ruffolo da la Repubblica del 07 marzo 2008

sabato 15 marzo 2008

Fascisti su Marte, fuori dall'Europa

Anche in Europa fanno fatica a capire questa destra italiana, così rumorosa, gaglioffa, grossolana perfino nel proprio repertorio semantico, questa destra che con Berlusconi si picca d'una sua scapigliata modernità e poi inciampa nella solita saga di nostalgie, fascismi e saluti al duce. Hans Pottering, l'inamidato presidente del Parlamento di europeo, ha dichiarato che fascisti nel Partito popolare europeo non ne vuole. L'ha ripetuto Jean Claude Junker, presidente dell'Eurogruppo e primo ministro del Lussemburgo: «Chi è questo questo Ciarrapico? Non lo conosco. Ma se si dice fascista, stia lontano dal Ppe».
Verrebbe voglia di tranquillizzarli, Pottering e Junker: Ciarrapico non è un fascista. È un furbo. Uno che fa soldi: tanti. Uno che sa stare al mondo. Uno che a Roma possiede giornali e cliniche («Mille posti letto c'ho!») e che dunque, a convenienza, va a celebrare anche le giunte di centrosinistra, in prima fila ad applaudire il sindaco, a far gli occhi dolci ai suoi assessori, a ricamare veleni contro quell'abatino di Gianfranco Fini... Più che Mussolini, Ciarrapico ricorda Sbardella, la vecchia destra democristiana svelta di mano, avida e impunita.
Ciarrapico, ha spiegato in questi giorni Berlusconi, è solo uno dei suoi mille candidati eleggibili. In realtà rappresenta il distillato più fedele di ciò che per il Pdl è ormai la politica: una scorciatoia, un conflitto d'interessi permanente, la sgrammaticata furbizia di sorrisi e pacche sulle spalle, le battute sprezzanti, il senso cupo e malato degli affari, l'impunità come un'aura felice. Il fascismo, a modo suo, è stato politica, nel senso che era un'idea perversa e assoluta del governo e del paese. Ciarrapico e Berlusconi sono la metastasi della politica, la convenienza di alleanze fatte e sfatte solo in funzione d'un voto in più. Ce lo siamo dimenticati il discorso di Berlusconi alla convention di Storace? Le stilettate a Fini e i sorrisi spalmati sulla destra dura e pura? Acqua fresca, cose d'altri tempi. E i tempi della politica, per Berlusconi, sono attimi, istanti, memorie volatili, contrattini firmati in tivvù, tanto le parole per spiegare si trovano sempre.
Pottering e Junker fanno bene a non voler fascisti a casa loro. Ma farebbero meglio a chiedere che personaggi come Ciarrapico fossero risparmiati al Ppe per la fedina nera più che per la camicia nera. Magari per quei suoi quattro processi conclusi con altrettante condanne passate in giudicato, dalla bancarotta fraudolenta alla ricettazione fallimentare, dallo sfruttamento minorile alla truffa aggravata. O magari per gli interessi in conflitto permanente d'un signore che vuol fare al tempo stesso l'editore e il senatore, il padrone e il legislatore, il fascista e il democristiano... Farebbero bene, Pottering e Junker, loro che rappresentano una grande famiglia politica di ispirazione cristiana, a prendere alla lettera le cose che scrive il giornale Famiglia Cristiana. E a far sapere agli amici italiani che, assieme ai fascisti alla Ciarrapico, nel Ppe non dovrebbero trovare spazio nemmeno gli amici dei mafiosi come Cuffaro. Farebbero bene a ragionare su quel loro amico e alleato Berlusconi, che al gruppo parlamentare dei popolari ha portato in dote decine di parlamentari europei ma anche il concreto disprezzo per tutto ciò che può apparire, in termini politici, come il senso compiuto di un'identità, d'una idea coerente, d'un progetto plausibile.
Il fascismo declamato da Ciarrapico è inoffensivo. I suoi interessi negli affari romani lo sono molto meno. Ma è questo il limite vero dello sdegno dei popolari europei: s'infiammano per qualche istrionismo che al massimo produce ilarità. E fingono di non accorgersi che Berlusconi ha ridotto il centrodestra italiano a una parodia della politica. Sarà pur vero, come diceva ieri D'Alema, che Berlusconi ha candidato più fascisti di Storace. A noi, tra i candidati del Pdl, più dei fascisti mettono ansia i dipendenti di Berlusconi, lo stuolo di commercialisti e avvocati che ha spedito per farsene rappresentare alla Camera e al Senato. Gente cocciuta, quella: non sarà la scomunica di Pottering a fermarli.

di Claudio Fava da Il Manifesto del 14 marzo 2008

Se il mondo va a sinistra

Una spinta a sinistra si avverte nel mondo occidentale. Le cause sono quelle classiche: impoverimento dei ceti più deboli, arricchimento assoluto dei più ricchi, difficoltà crescenti nel sistema capitalistico globalizzato. Ah! Immortale Carlo Marx!
In dettaglio. I socialisti hanno vinto in Spagna nonostante la situazione economica dia segni di crisi. I socialisti non hanno cambiato nè nome nè simbolo. E i giornali raccontano che la grande folla che ha accolto il vincitore Zapatero ha gridato: «Olè, a sinistra».
In Francia i socialisti che sembravano senza speranze, sono invece ancora sul terreno e con i loro colori risorgono e crescono nelle elezioni amministrative. Colui che sarà molto probabilmente il nuovo leader dopo le baruffe “chiozzotte” della famiglia Royal-Hollande, il sindaco di Parigi Delanoë, è favorevole ad una alleanza di tipo neomitterandiano con la sinistra (residua!)
In Germania la sinistra (Linke) cresce alle elezioni dei Länder, e mentre si indebolisce la Grande coalizione tra democristiani e socialisti, questi ultimi cominciano a prendere in considerazione la prospettiva di un dialogo con Lafontaine.
In Inghilterra il tramonto di Blair è anche crisi della sua linea liberista: non sappiamo cosa pensano i suoi guru, Giddens in testa. Non credo che ripristineranno la clausola IV dello Statuto che prevedeva la collettivizzazione dei beni di produzione e di scambio, ma sicuramente dirà “qualcosa di sinistra” questo Labour che è diventato new ma è rimasto Labour.
Un vento di sinistra spira anche oltreoceano dove i programmi sia di Hillary Clinton che di Barack Obama sono sempre più ispirati ad un “preoccupante populismo”, come lo definisce il campione del liberismo ortodosso, l’Economist, visibilmente contrariato dalla cosa (1 marzo 2008) e promettono riforme sociali, specie quella sanitaria, e interventi governativi. È in America che più forti si avvertono i segnali di crisi economica, che non è solo congiunturale (recessione), ma investe il dollaro, investe il capitalismo liberista e globalizzato le cui magnifiche sorti e progressive degli ultimi anni sono fortemente appannate.
E veniamo a casa nostra. L’Italia è sempre un caso a sè, un’anomalia. Qui da noi il cosiddetto “populismo” riemerge non a sinistra, ma a destra. Ha scritto Dario De Vico sul Corriere della Sera (11 marzo 2008): «Sembrava che le ricette dei due principali partiti avessero un po’ lo stesso spirito, che le tendenze centripete all’interno dei due schieramenti stavano finalmente prendendo il sopravvento ... poi è arrivato il pamphlet di Tremonti» e con esso si è rotta la pace centripeta e «mercatista» per usare una parola dell’autore di La paura e la speranza. Un libro “populista” che chiede dazi, controlli, interventi pubblici nei confronti di un liberismo “degenerato” e della globalizzazione. Avremo una politica economica interventista di destra e una liberista di sinistra?
Ovviamente non si può chiedere a Veltroni di accogliere nelle sue vele il vento che viene da Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti e cambiare il programma nel corso della campagna elettorale. Ma il problema si porrà dopo le elezioni. Sia se vince, sia soprattutto se perde, il Pd non potrà isolarsi dal socialismo europeo in forte ripresa. Mi rendo conto che la tendenza “centripeta” impressa da Veltroni al Pd ha avuto forti ragioni: scrollarsi di dosso gli ultimi pezzi di intonaco del crollo del muro di Berlino e accreditarsi al centro verso il ceto medio che lavora e l’imprenditoria privata che produce. Ma lavorano, producono (e muoiono in fabbrica) anche gli operai: ci sono le famiglie a reddito basso e medio basso, i pensionati, i ceti più deboli: insomma il nostro mondo, il mondo della sinistra che si impoverisce, ed è vittima di grave disagio. E ci sono i nostri valori, il laicismo cavallo di battaglia vincente di Zapatero, in una Spagna più cattolica dell’Italia; c’è il nostro cuore antico. E se ci distraiamo ascoltando le sirene della concorrenza, l’Ocse ci ricorda che i salari italiani sono agli ultimi posti in Europa.
E in proposito mi ha fatto una forte impressione la posizione della Conferenza dei vescovi la quale ha invitato gli elettori a “discernere” con riferimento non solo ai valori cattolici della vita e della famiglia - e ciò era scontato - ma anche ai temi più scottanti (puntualmente elencati) della crisi sociale ed economica italiana allo scopo di migliorare le «condizioni di vita della parte più consistente della popolazione». La Cei chiede “larghe intese” su questi problemi di prezzi e salari: e ciò appartiene all’ecumenismo della Chiesa, ma ciò che colpisce è il contenuto, è il contributo fortemente sociale dell'intervento. Evviva per una volta ai preti? Finalmente si può votare secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica che qualche volta si ricorda che Cristo fu il “primo socialista”. Anche se non lo si può mettere accanto al Cardinale Bagnasco, è sintomatico che Mario Monti sostenga che «la globalizzazione ... richiede di essere molto più governata dai pubblici poteri».
Nello scenario politico non vi può, non vi deve essere un populismo demagogico della destra al quale si contrappone un liberismo innaturale, duro e puro del Pd. Bisogna che la sinistra ritrovi le sue radici e i suoi legami con i partiti europei di ceppo comune.
Caro Walter, il socialismo non è morto. Rianimiamolo.

di Giuseppe Tamburrano da l'Unità del 15 marzo 2008

lunedì 10 marzo 2008

Sassoon: diritti civili e laicità le carte vincenti del Psoe

«Aver favorito la crescita economica e aver esteso i diritti civili: è stata questa la “ricetta” vincente di Zapatero». A sostenerlo è Donald Sassoon, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, tra i più autorevoli studiosi della sinistra europea». «Il leader socialista - rimarca Sassoon - ha saputo far vivere una idea forte di laicità senza provocare lacerazioni nella società spagnola».

La Spagna ha rinnovato la sua fiducia al Psoe di Zapatero. Come leggere questo successo elettorale?
«Gli spagnoli hanno premiato un’azione di governo che aveva consolidato una svolta laica nel Paese; una svolta davvero impressionante se si pensa al peso che la Chiesa ha avuto per così tanti anni in Spagna. Quando parlo di svolta laica mi riferisco in modo particolare alle varie riforme nel campo dei diritti civili, tra le quali quella del matrimonio gay: se solo una decina di anni fa qualcuno avesse parlato di una cosa del genere lo avremmo tacciato di “pazzia” politica. E questa svolta, altro dato a merito di Zapatero, è avvenuta senza provocare lacerazioni insanabile nella società spagnola; certo, la Chiesa ha protestato ma questa innovazione progressiva nel campo dei diritti civili è stata talmente metabolizzata dalla società spagnola che anche il campo conservatore aveva affermato che quelle leggi così avanzate non sarebbero state cancellate nel caso di una sua vittoria».

Quale è stato una altro terreno centrale nello scontro politico in Spagna?
«L’economia. L’andamento dell’economia spagnola, al pari di quella delle altre maggiori economie europee, era stato positivo fino ad un anno fa, e di fatti se Zapatero avesse anticipato le elezioni ad ottobre, avrebbe probabilmente riportato una vittoria ancor più netta di quella, comunque ampia, che ha ottenuto. E significa anche che è sempre più difficile per i governi europei fare fronte a una economia che è sempre più globalizzata, per cui la crisi dei mutui che sta segnando profondamente l’economia statunitense si è subito proiettata sulle economie europee. E poi c’è un terzo terreno su cui Zapatero ha fortemente caratterizzato la sua azione di governo..».

Qual è questo terzo terreno?
«Quello dell’immigrazione, uno dei temi che più ha caratterizzato la campagna elettorale spagnola, così come da molti anni ha una particolare rilevanza in Gran Bretagna e in Francia. I partiti di sinistra non sono ancora riusciti a convincere pienamente il loro elettorato che in realtà il fatto che ci sia immigrazione è un segno che l’economia e il sistema-Paese funzionano; tradizionalmente l’immigrazione è una cosa che rende: la riprova sono gli Stati Uniti, un Paese che ha avuto una fortissima immigrazione negli ultimi trenta-quarant’anni, quasi pari a quella della fine dell’Ottocento, e che in questo arco di tempo ha avuto un fortissimo incremento. Gli immigrati portano prosperità, ma questo è un messaggio che la sinistra non ha saputo diffondere, finendo così per restare subalterna ad alcune parole d’ordine della destra».

Un altro tema scottante, soprattutto nell’insanguinata vigilia del voto, è stato il terrorismo.
«Un terreno su cui Zapatero ha mostrato una grande capacità di leadership. Il leader socialista ha saputo fare una cosa che è sempre riuscita difficile ai partiti della sinistra: fare del Psoe un partito che nella lotta al terrorismo non ha cedimenti, non è arrendevole, ma che allo stesso tempo tiene duro sulle parti più importanti dei diritti civili. È una lezione importante visto che il terrorismo ha colpito molti dei nostri Paesi. Si può essere determinati, inflessibili senza per questo venir meno ai fondamenti di uno stato di diritto. C’è poi un altro campo dove Zapatero ha mostrato coerenza e determinazione...».

Qual è questo campo?
«Quello della politica estera. Soprattutto sull’Iraq ha mostrato una fermezza critica, cosa che non si può dire per i laburisti inglesi, ad esempio., che rischiano di pagare pesantemente l’interventismo di Blair».

A proposito dell’ex premier britannico: c’è chi vede in Zapatero l’«anti-Blair».
«A parte che Blair almeno in Inghilterra, ed è incredibile per qualcuno che è stato al potere per un decennio, è già quasi dimenticato, ciò di cui sono fermamente convinto è che la sinistra non può continuare ad aspettare, o invocare, un “messia”, sia esso Blair, Zapatero o Obama...L’epoca messianica è finita da tempo, e per fortuna aggiungerei, e l’unico modo per costruire una politica innovativa è di farlo insieme in Europa. È questa la sfida per il futuro per le sinistre e i progressisti europei. Una sfida di cui Zapatero sarà uno dei protagonisti».

di Umberto De Giovannangeli da l'unità del 10 marzo 2005