giovedì 30 aprile 2009

La questione energetica come questione politica

Di questi tempi riprende in varie sedi il dibattito sulla questione energetica. Secondo modalità che continuano a evidenziare una sorta di persistente pigrizia intellettuale.
Chi scrive non è nuclearista e neppure anti-nuclearista, non crede nelle virtù salvifiche delle “rinnovabili” ma neppure è pregiudizialmente contrario a dare loro credito.
Semmai è altrove, interessato a un modo diverso di impostare tale questione. Visto che l’indirizzo dominante segue un’ottica tipica di questi ultimi decenni, rivelatasi perniciosa: il punto di vista dell’offerta. Quella teoria economica dell’offerta che ha funzionato male - come ci ripete sempre il premio Nobel Paul Krugman - e che, applicata alla crescente penuria di energia, si traduce nella banale (pigra) ricetta di sostituire le fonti in via di esaurimento con altre, ma sempre presupposte abbondanti, di facile reperibilità e gestione, a buon mercato. Insomma, il magico e semplicistico rimpiazzo degli idrocarburi con qualcos’altro. In ogni caso, presupponendo come immutata/immutabile la domanda.
Per cui il cuore del problema pare quello di ricercare risorse equipollenti da bruciare nell’irrinunciabile ventre mai sazio dei SUV, per cui continuare a riscaldare e termoregolare tanto le abitazioni come gli uffici nei modi più dissipatori e scriteriati odierni; e così via.
Magari dimenticando (volutamente?) che se i combustibili fossili sono dati in esaurimento tra qualche decennio, l’uranio li seguirà nel comune destino ben poco dopo; trascurando il fatto che qualsivoglia soluzione alternativa non è in grado di reggere gli attuali livelli di consumo. Non accettando la semplice evidenza che viviamo in un sistema finito e che i limiti stanno nell’ordine naturale delle cose.
Per questo sembra molto più ragionevole (e responsabile) ribaltare il punto di osservazione ragionando in termini di domanda: non lo sforzo da inconcludente Sisifo di inseguire ansimanti un livello di offerta a misura degli attuali standard di consumo quanto - piuttosto - riallineare l’organizzazione della società e i conseguenti stili di vita alle effettive possibilità a nostra disposizione. Risparmiando e riconvertendo.
Risulta evidente che - a questo punto - la questione energetica da scientifica e tecnologica diventa eminentemente politica. Con tutte le difficoltà che ciò comporta, dato l’attuale stato dell’arte (abbastanza sinistrato) dell’azione pubblica. Resta fermo il fatto che l’impostazione corrente è soltanto rinvio consolatorio a breve, che ci avvia tranquilli e soddisfatti verso la catastrofe a medio periodo.
L’alternativa - appunto - è quella di riorientare verso la sobrietà: dunque, prevalenza dei consumi pubblici, ripensamento dei modelli collettivi e una straordinaria opera di educazione civica a largo raggio. A partire dalla selezione e dal riutilizzo dello scarto.
Insomma, prima ancora dei presunti abrakadabra della scienza e della tecnica, attesi fideisticamente come una sorta di manna dal cielo, l’impegno collettivo per pratiche improntate alla consapevolezza attiva.
Per fare questo si richiedono passaggi di certo molto difficili. Che presuppongono il coinvolgimento diretto della cittadinanza che va sensibilizzata e - in contemporaneo - una profonda riflessione sulle tendenze intrinseche alle dinamiche sociali come linee guida di una politica rinnovata alla radice; a partire da quel grado di credibilità che le consenta di esercitare il ruolo di guida delle proprie comunità (che oggi nutrono nei suoi confronti una radicata disistima).
D’altro canto, a livello mondiale è in corso un’intensa opera critica dei “pigri” impianti di governo basati sulle teorie dell’offerta, all’origine delle bolle economiche che stanno scoppiando in faccia all’intera umanità. La stessa operazione si impone per quella che è la primaria questione della nostra sopravvivenza: come alimentare e far girare in modi plausibili un mondo finito in bolletta.

di Pierfranco Pellizzetti da il Secolo XIX del 26 aprile 2009

giovedì 16 aprile 2009

Il referendum arebbe l'eutanasia della sinistra

Caro direttore, rinviato di un anno a causa delle elezioni anticipate, il referendum Segni-Guzzetta torna di attualità risvegliando nella maggioranza tensioni che si credevano sopite. I referendari chiedono di andare al voto il 7 giugno unitamente alle elezioni europee e al primo turno delle amministrative.
Scopo dichiarato è quello di risparmiare una cifra che i referendari indicano in 400 milioni e il ministro Maroni in 173. Scopo reale quello di avvalersi della concomitanza delle elezioni per raggiungere il quorum della metà più uno degli elettori prescritto dalla legge per la validità dei referendum. Quanto i referendari tacciono, e molti dei commentatori non dicono, è che - proprio per assicurare che la partecipazione sia spontanea e non indotta artificiosamente - il referendum non deve tenersi in coincidenza con altre consultazioni elettorali. Poiché la legge prescrive che i referendum si tengano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, la sola data di giugno che soddisfi ogni precedente e ogni requisito di legge è il 14. Ogni altra data richiederebbe una modifica normativa che, in ragione dei tempi, imporrebbe un ricorso alla decretazione di urgenza. Ma l'obbligo di fissare una data essendo noto da oltre un anno, è indubbio che non ricorrano le condizioni di "necessità e urgenza" prescritte dalla Costituzione. L'adozione di un decreto legge in materia elettorale potrebbe così giustificarsi solo in presenza di un generale consenso tra le forze politiche che garantendone una pronta ratifica sanasse l'avvenuta forzatura della legittimità costituzionale, consenso - che stando agli ultimi annunci - è forse possibile sulla data del 21 ma non certo su quella del 7 giugno.
Si aggiunga che l'abbinamento del referendum con le elezioni non è un fatto tecnico di scarso rilievo, ma un intervento politico di grande portata che, favorendo il successo del referendum, modificherebbe profondamente la natura del nostro sistema politico. Il referendum non porta risposta ad uno dei principali difetti dell'attuale legge elettorale: contrariamente a quanto affermano i referendari, mantenendo le liste bloccate, la vittoria del "si" non ridarebbe ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, conservando alle segreterie dei partiti il potere di nominarli a proprio piacimento. Ma a questa mancata modifica, il referendum aggiungerebbe un'innovazione ancor più nefasta: la nascita di "partiti-coalizione" profondamente disomogenei, ove i precedenti partiti sopravviverebbero sotto forma di correnti organizzate. Anziché avere una frammentazione limitata dal ricorso a soglie di sbarramento, avremmo una proliferazione incontrollata di gruppi vecchi e nuovi, uniti al solo scopo di conseguire il premio di maggioranza, ma privi di una comune identità. Le difficoltà che già oggi si avvertono nel Pd e nel PdL ne uscirebbero ingigantite. Né questo sarebbe il solo male: al posto dell'attuale "multipartitismo moderato" , caratterizzato da 5 partiti al di sopra del 4%, pienamente compatibile con quella "competizione bipolare" che è la vera essenza del bipolarismo, avremmo un bipartitismo indotto forzosamente che paradossalmente finirebbe col negare proprio l'alternarsi al governo di centro-destra e centro-sinistra. L'incipiente e ancor timida democrazia dell'alternanza cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata infatti resa possibile dall'autonomia rispetto al PdL di UdC e Lega, e nel centro-sinistra dalla capacità dell'IdV di intercettare elettori altrimenti orientati verso l'astensione o un voto di protesta radicale. Senza Lega, UdC, e IdV non avremmo una competizione bipolare ma un netto e stabile predominio del centro-destra sul centro-sinistra. Non un sistema competitivo, con un frequente alternarsi di governo e opposizione, ma il progressivo affermarsi di un sistema a partito dominante. Non l'annunciato salvifico bipartitismo, ma una nuova forma di "bipartitismo imperfetto". Ogni qualvolta si è assistito in Italia ad una riduzione della competizione ad un confronto diretto tra destra e sinistra senza la possibile mediazione di forze di centro, la sfida ha infatti premiato la destra. Costretti a scegliere tra destra e sinistra gli elettori del centro moderato hanno sempre scelto a destra: nel 1924, nel 1948, e nuovamente oggi con Berlusconi. In altre parole, una sinistra riformista può vincere e governare in Italia solo rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e solo se sostenuta da autonome forze di centro. Adottare con il referendum un sistema elettorale che, distruggendo il centro e ogni spazio di autonomia per i partiti non allineati, favorisse strutturalmente la destra sarebbe per il centro-sinistra e per i suoi elettori una vera e propria forma di eutanasia politica. A ciò si aggiunga che attribuendo il 55% dei seggi alla lista più votata il referendum può porre alla portata del partito dominante persino la modifica della Costituzione con 2/3 dei voti e senza possibilità di referendum confermativo. Una ragione in più per evitare l'election day, e non ricorrere ad un decreto che oltre a porre seri problemi di legittimità costituzionale rappresenterebbe un grave rischio per la democrazia dell'alternanza.

di Stefano Passigli da il Riformista del 16 aprile 2009

mercoledì 8 aprile 2009

La modernità dei disastri

Il terremoto si distingue dalle altre e molte calamità per la rapidità e l´indifferenza naturali: nei pochi minuti delle scosse telluriche il disastro è compiuto, ai superstiti non resta che cercare i cadaveri sepolti sotto le macerie e camminare smarriti fra ciò che resta di città e villaggi. Fra il dolore insopportabile ma come sempre sopportato da chi ha perso i suoi cari, e il silenzio degli altri sopravvissuti che li compiangono ma sanno di essere stati miracolati.
Per giorni, per anni, si parlerà delle prevenzioni non fatte, degli errori compiuti, delle malefatte per egoismi per i quali è arrivato il conto da pagare e sui giornali e alla televisione ci sarà lo spettacolo dolente e impotente dei morti, dei feriti, dei loro parenti in lacrime.
Un nome verrà ripetuto in tutte le cronache, nei commenti, nelle polemiche. Quello di Guido Bertolaso il capo della Protezione civile, il professionista dei pubblici soccorsi che tutti gli italiani conoscono anche se, per la verità, faticano a capire che è lui il vero premier di questa Italia disastrata. Il vero capo del governo è lui, non i politici che in Italia e all´estero recitano la parte dei pubblici amministratori.
Bertolaso ha una sua uniforme, veste in borghese senza gradi e senza medaglie, pantaloni normali e un pullover blu con su cucito un nastro tricolore, ma non c´è italiano che non riconosca in lui quello che promette di rimettere in piedi il paese ogni volta che va in pezzi, che promette di ricucire le sue ferite, di togliere le macerie e le immondizie, di riaprire le strade, di riportare fiumi e torrenti nei loro argini. È quello che il capo ufficiale del governo vorrebbe essere, un "dittatore" buono. Bertolaso gode infatti dei poteri necessari per mobilitare eserciti di soccorritori, migliaia di treni, di auto, di camion. Quando arriva lui con il suo pulloverino blu, con il nastrino tricolore, prefetti, questori e generali si mettono sugli attenti e gli obbediscono senza fiatare. Lui zittisce le polemiche, come ha fatto anche ieri, spiega che la tragedia non si poteva prevedere. E non importa se poi non riesce a mantenere molte delle sue promesse. Bertolaso ha i pieni poteri, è il governo più forte del governo.
C´è una cosa importante che si sta verificando anche in Abruzzo. Nel dolore e nella disperazione dei disastri maturati la gente riscopre la voglia di resistere, di riparare. E per una volta i lacci e i lacciuoli burocratici sembrano scomparire di fronte alla superiore necessità. Si mobilita in poche ore un vero esercito nazionale che è quello dei soccorsi, che si mette in marcia dal Brennero a Capo Passero secondo piani e interventi preordinati, ma anche su base volontaria e solidaristica. Sospinto dall´emozione, dal dolore, dalla fratellanza di un popolo.
E c´è un´altra lezione, un´altra cognizione che viene da questo disastro per molti aspetti feroce e impietoso. La transizione fra l´Italia antica, paese d´arte, l´Italia dei mattoni e delle ardesie, e quella moderna del cemento armato. Fra l´Italia dei borghi medievali attorno ai castelli sopra i colli e quella delle zone industriali sui piani di fondo valle. Giornali e televisioni hanno intervistato i superstiti dei terremoti in Campania e nelle Marche, amministratori, funzionari che hanno visto con i loro occhi, a volte la morte dei loro cari, i ritardi e le imprevidenze, gli errori ancora una volta compiuti, ancora una volta troppo tardi denunciati. Ancora una volta hanno ricordato l´antica e mai osservata lezione di serietà e di modestia, il dovere di provvedere oggi al necessario invece di piangere domani sulla propria imprudenza.
Il rimprovero principale che si mosse alla megalomania imperiale mussoliniana, fu di aver speso uomini e denaro per la conquista dello «scatolone di sabbia» in Libia mentre nell´Italia meridionale mancavano strade e ferrovie e la gente continuava a portare i carichi in spalla e a percorrere a piedi i tratturi. Le grandi opere sono una testimonianza di civiltà ma anche un lustro di governanti ambiziosi più che saggi. Il ponte sullo Stretto di Messina e i treni super veloci sono belli da vedere e da raccontare ma poi arriva una pioggia persistente e una delle grandi opere, l´autostrada Salerno-Reggio Calabria si tramuta in quello «sfascio pendulo» che è gran parte del Meridione.
C´è infine una terza lezione da ricavare da questa modernità: non è più il tempo di correre a vedere chi è morto o senza casa. Anche la pietà e il cordoglio devono adattarsi alla modernità di massa, non intralciare sulle strade il traffico dei soccorsi. È una preghiera, ordine di Guido Bertolaso.

di Giorgio Bocca da la Repubblica del 7 aprile 2009