mercoledì 31 ottobre 2007

Ferrero: «Pacchetto indigesto ma non si può fare di più»

«La realtà è un disastro». Parte da qui, anzi termina qui, la chiacchierata con il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero che ieri, dovendolo digerire, si è astenuto sul cosiddetto «pacchetto sicurezza» del governo. Intende dire che su un tema delicato come la sicurezza bisogna necessariamente graduare il conflitto, «perché devo sapere fino a dove posso portare la mia gente». Spiccato senso della realtà, nodo impossibile da sciogliere per chi da un anno e mezzo sbatte la testa sulla stessa domanda: «E l'alternativa qual è?».

Ministro, perché si è astenuto?
Il «pacchetto» è nato male perché è il risultato di una campagna messa in piedi da alcuni partiti del centrosinistra per sdoganare la questione della sicurezza declinandola come ha sempre fatto la destra. Abbiamo litigato a lungo e abbiamo corretto alcuni errori macroscopici (e non dimentichiamo la reintroduzione del falso in bilancio), ma l'impianto è rimasto tale e quale: si continua a confondere la marginalità con l'ordine pubblico e non si distingue tra repressione e politiche di inclusione. Il punto non è aumentare le pene, lo sanno tutti che l'80% dei reati in Italia resta impunito.

Nel merito, cosa non le piace?
Le misure per la sicurezza urbana, tra cui è prevista la procedibilità di ufficio per i writers, e più in generale la costruzione di nuovi poteri per i sindaci che mescolano amministrazione locale e ordine pubblico, una strada pericolosa perché l'insicurezza verrà agitata da chi avrà il problema di farsi eleggere. Semmai c'è un problema di democratizzazione della polizia. E poi i venditori di griffe false: era previsto addirittura l'arresto immediato e siamo arrivati ad un inasprimento delle pene, è comunque una cosa che non sta né in cielo né in terra. Inoltre, sono convinto che sia un errore escludere le pene alternative per certi reati: sono i classici reati commessi dai più poveri e credo che queste persone si potrebbero più facilmente recuperare tenendole fuori dal carcere.

Mastella le ha definite «astensioni benevole», insultante se significa che non cambiano il provvedimento.
Altrimenti sarebbe stato un voto contrario, intendeva dire che sulla sicurezza abbiamo portato a casa risultati importanti ma ancora non basta. Così possiamo continuare a incidere, la discussione continuerà.

Di questo governo rimarrà nella memoria la propaganda securitaria che colpisce i marginali, e poco altro. Di fronte a questa deriva, il Prc cosa è riuscito a ottenere?
Fino ad oggi noi abbiamo prodotto la politica della riduzione del danno, e per me questa azione non è sganciata dal fatto di poter approvare in tempi brevi la nuova legge sull'immigrazione, spero entro la fine dell'anno. Non dimentichiamo il punto di partenza, la furibonda campagna sicuritaria dei sindaci del centrosinistra, e posso assicurare che il governo ha saputo mediare e di molto rispetto alle loro richieste. E non dimentichiamo che questo è il governo che con l'indulto ha svuotato le carceri. Il Partito democratico è nato sotto l'egemonia culturale di certi sindaci e a noi è toccato il compito di limitare i danni. Inoltre, tenuta del governo permettendo, sto portando avanti una guerra di trincea anche per cercare di modificare la legge sulle droghe Fini-Giovanardi, se entro marzo non ci riesco non sarò più ministro. Si tratta di due passaggi fondamentali per riuscire a gestire il disagio nelle città.

Gli elettori si aspettavano di più.
Dati i rapporti di forza, il punto è come riusciamo a portare a casa il massimo possibile. Sul tema della sicurezza, attorno cui la destra ha svolto e svolge un lavoro sulla sua massa, la sinistra non c'è mai stata: e certi errori si pagano. A volte siamo un po' troppo idealisti, pensiamo che basti avere ragione per ottenere le cose, e invece non è così.

Dato per perso il Pd, la cosiddetta «cosa rossa» sarà capace di presentarsi come alternativa sul tema della sicurezza?
Non do per perso il Pd. E noto che sul «pacchetto» sicurezza in parte si sono astenuti anche Pecoraro Scanio e Mussi, ed è la prima volta che succede. Si tratta di un fatto che fa ben sperare, anche se in termini politici sappiamo che paga poco essere alternativi a chi ha una visione prettamente sicuritaria della società.

Forse non è un caso che proprio oggi, mentre il governo approva il «pacchetto», a Bologna vengano sgomberate le case occupate.
Sono errori gravi. Affrontare i conflitti urbani generati dalla mancanza di case con una politica repressiva non fa che aumentare il livello di insicurezza, i cittadini si sentiranno sempre più insicuri e non basterà sistemare un poliziotto ogni tre portoni. Ieri a Roma, per banali questioni di traffico, un automobilista quasi è stato ammazzato a colpi di mazza, e un altro è stato accoltellato. L'aumento della paura crea solo tensioni e porta all'imbarbarimento della società.

A proposito di case, l'Unione Inquilini sostiene che il provvedimento recentemente approvato dal Cdm, trattandosi di un disegno di legge, non blocca gli sfratti esecutivi nella capitale. E' emergenza?
Ci vogliono due mesi per riconvertire un decreto legge, ma abbiamo ottenuto garanzie sul fatto che le forze dell'ordine non procederanno agli sgomberi, esattamente come è accaduto lo scorso anno. Anzi, invito le organizzazioni di categoria a segnalarci eventuali problemi.

La Commissione d'inchiesta per il G8, fortemente voluta dal Prc, è stata affossata da Di Pietro e Mastella. Un altro schiaffo. Può il Prc limitarsi a dire che così non va perché quella Commissione era prevista nel programma?
E l'alternativa qual è? Qui ci vorrebbe una riflessione più ampia. Gli altri, il centrodestra di Berlusconi, li abbiamo già visti all'opera... Noi dobbiamo affrettarci a fare una legge elettorale che ci permetta di non essere più in questa situazione...molto brutta. E' un fatto gravissimo la bocciatura della Commissione sui fatti di Genova, tanto più se pensiamo che un agente torturatore di Bolzaneto rischia 30 mesi di galera e un venditore di borsette false 24. Ci vuole una mobilitazione forte nel paese, dobbiamo riprendere il lavoro di insediamento sociale, sul piano politico non ci sono i rapporti di forza.

di Luca Fazio da il Manifesto del 31 ottobre 2007

sabato 27 ottobre 2007

Giordano: «Bravo il governatore, sugli stipendi sono con lui»

ROMA — «Ancora una volta mi capita di essere in totale sintonia con il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi »: a parlare così è il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano.
Ma non provoca qualche imbarazzo al leader del Prc questa presa di posizione a favore del numero uno di Bankitalia? «Sinceramente — è la risposta immediata di Giordano — ciò non mi provoca nessun turbamento, né alcuna crisi di identità. Anzi». Allora è vero che Rifondazione comunista, come registra un tam tam degli ultimi giorni, potrebbe appoggiare un governo guidato da Draghi, benché Fausto Bertinotti abbia detto e ridetto che di esecutivi tecnici non vuol sentir parlare? «Non è di questo che stiamo discutendo, non mi faccia dire cose che non ho detto», replica il segretario di Rifondazione comunista, il quale, però, non sembra voler eludere l'argomento «governatore Bankitalia» perché subito dopo aggiunge con un sospiro: «Certo è meglio Draghi di Padoa-Schioppa».
Sembrerebbe un scenario inedito quello che vede il Prc marciare all'unisono con il governatore della Banca d'Italia, ma Giordano assicura che così non è: «Quel che ha detto Draghi evidenzia che nel nostro Paese esiste una gigantesca questione retributiva e salariale». E ancora, nuovamente in sintonia con Draghi: «Il governatore di Bankitalia è assolutamente nel giusto quando sottolinea che bisogna far tornare a crescere in modo stabile le retribuzioni, che in Italia sono assestate ai livelli più bassi rispetto al resto d'Europa ». E al leader di Rifondazione comunista è assai piaciuto un altro passaggio dell'intervento di Mario Draghi: «Il governatore ha anche sottolineato il tasso di precarizzazione dovuto alla cosiddetta flessibilità e come questo colpisce le fasce giovanili e mi pare che abbia anche criticato i processi di accumulazione e la rendita perché vanno a discapito degli investimenti ».
Insomma un Giordano in sorprendente sintonia con il governatore di Bankitalia: «Non c'è proprio niente di sorprendente — obietta lui —, io sono molto soddisfatto delle dichiarazioni di Draghi, che parte da una cultura economica diversa dalla nostra ma che è infinitamente meglio di tanti esponenti del Partito democratico. Perciò lo voglio ripetere con forza: non provo proprio nessun imbarazzo a dare ragione al governatore di Bankitalia. E a questo proposito vorrei ricordare che proprio lo stesso Draghi recentemente ha più volte autorevolmente posto la questione dell'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie ». Per farla breve, Giordano vuole dire: «Non siamo noi comunisti a fare questa proposta come pretendono di far credere i centristi della coalizione. Recentemente tutta la sinistra ha fatto una proposta unitaria per trovare le risorse per sostenere l'incremento dei livelli retributivi. E queste risorse possono essere proprio ricavate dall'armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie, come accade in tutto il resto d'Europa».
E Giordano prosegue il suo ragionamento ad alta voce con una punta di veleno: «Anche i sindacati hanno dato ragione a Draghi. Che cosa dice in proposito Veltroni? Aspettiamo di saperlo, perché non si capisce mai cosa voglia veramente il Partito democratico». E se volesse la stessa cosa di Rifondazione, un governo guidato da un personaggio di peso, un personaggio il cui identikit potrebbe corrispondere a un uomo come Draghi? «Di questo non parlo, l'ho già detto. Ripeto: meglio Draghi di Padoa- Schioppa ma altro non voglio aggiungere », taglia corto Giordano chiudendo la conversazione.

di Maria Teresa Meli da il Corriere della Sera del 27 ottobre 2007

mercoledì 24 ottobre 2007

Mussi: «Sul 20 ottobre ho sbagliato»

«Può succedere di tutto. Chi riesce a far cadere ora il governo farebbe strike». Fabio Mussi, coordinatore di Sinistra democratica, è appena tornato da Bolzano e quando lo incontriamo lo attende un difficilissimo consiglio dei ministri. E' ben concreta la possibilità che lo scontro tra Mastella e Di Pietro sul «caso De Magistris» porti alla crisi. «Stiamo come d'autunno sugli alberi le foglie», cita Ungaretti.

Chi può avere interesse a far cadere ora il governo?
Le ragioni possono essere le più diverse. Nel merito, c'è la finanziaria e il protocollo sul welfare. C'è un quadro internazionale dove si sta riacutizzando la crisi in Iran e Medio Oriente e dove l'Italia è in prima linea. E infine c'è un centrosinistra in cui non sono riusciti a consolidarsi né il Pd né la sinistra.

Per fortuna, forse, c'è stata la manifestazione di sabato.
Devo essere onesto. Alla vigilia ho espresso timori che poi la manifestazione ha del tutto fugato. Temevo che il corteo potesse «sfuggire di mano», con un'aggressività verso il governo e verso la Cgil che poteva mettere in difficoltà la sinistra invece di aiutarla. Non ho mai dubitato delle intenzioni dei promotori, del resto tra noi c'è stato un vero dialogo, ma i miei timori si sono rivelati infondati. La manifestazione è stata bella, ampia e soprattutto politicamente forte. Mi hanno impressionato soprattutto le parole prese al volo tra i manifestanti. C'era davvero un'intelligenza politica di massa, senza nessuna dichiarazione stonata. Di fatto quel corteo ha detto tre cose: che la precarietà è la questione delle questioni, che il governo - ammesso che duri - deve ripartire dal suo programma, che c'è una forte domanda politica di unità a sinistra. Su questo, soprattutto, c'è stato «un di più», un'eccedenza, sia rispetto ai partiti che ai promotori.

Non è proprio su questo «di più» che siamo tutti inadeguati?
Assolutamente sì. Bisogna tornare alla realtà. Si dice riformismo ma poi si fa il contrario. Si rappresenta la flessibilità come una grande opportunità sapendo che significa esattamente il contrario. Nel linguaggio e nelle ideologie che corrono c'è il marchio di un'egemonia che subiamo.

Si ma come traduci questo discorso politicamente? Tu stesso hai votato, con riserva, il protocollo sul welfare.
Ho dato un giudizio articolato. Sulla parte previdenziale era un buon compromesso. Mentre è del tutto insoddisfacente, al di là di qualche miglioramento, la parte sul lavoro. E' evidente che la distanza siderale tra la dimensione drammatica della precarietà e le soluzioni proposte ha allargato il fiume della delusione.

Tu stesso hai definito quella di sabato una bella manifestazione. Nella Cgil si è aperta una riflessione su chi, della Fiom, ha partecipato. Che ne pensi?
Rispetto la dialettica interna al sindacato. Una sinistra che nasce non può prescindere dal rapporto con il sindacato. Io stesso vengo da una famiglia operaia. A casa mia erano tutti della Fiom. Mi auguro che questa discussione anche aspra non porti a una rottura. Spero che si trovi la strada per difendere l'assetto confederale del sindacato. La confederalità è il contrario del comando, ma guarda all'unità ed è un valore, non è che ognuno fa quello che vuole.

Pensi che il protocollo possa essere migliorato?
Faremo il possibile per migliorarlo, certo. Il sindacato è fondamentale per la democrazia. Ma discutere di politica economica e del lavoro non si esaurisce in una vertenza contrattuale. Si parla di un'idea di società, in cui la politica non può essere considerata un'indebita ingerenza. In questo caso la rappresentanza del lavoro non si esaurisce nel sindacato, ha bisogno di politica. Per la Costituzione il parlamento è sovrano. Tutto quello che si può fare a favore dei lavoratori deve essere guardato con simpatia e rispetto. Il sistema delle autonomie tra politica e sindacato, insomma, deve funzionare nei due versi.

E se ci fosse la fiducia?
Comunque vadano le cose il governo non deve cadere da sinistra. Va evitato come la peste.

Ma questa sinistra come può essere più credibile?
Il corteo ha detto ai quattro partiti della sinistra: fateci partecipare e datevi una mossa. Di unire le forze il Pd parla da 12 anni. Noi per farlo abbiamo non dico 12 mesi ma molto molto meno. Perciò dobbiamo essere coraggiosi e innovativi. Capisco che un passaggio «federale» possa essere considerato insufficiente ma naturalmente dobbiamo fare ciò che è possibile. Penso però che un gruppo parlamentare unico alla camera e al senato sarebbe un segnale positivo, molto visibile e molto incisivo. Del resto, sulla finanziaria abbiamo fatto un lavoro comune eccellente, abbiamo fatto sfigurare il Pd, che ha presentato il triplo di emendamenti.

Ma vanno sciolti i partiti che ci sono oppure no?
Noi non abbiamo voluto fare un nuovo partito. Alla sola idea di passare la vita a contendere a Pdci, Prc e Verdi lo 0,2% mi butto dalla finestra. La nostra funzione è dare una mano: solve et coagula, diceva Alex Langer nel suo ultimo libro. Sciogliere e riaggregare. Però sono un gradualista, faremo quello che è possibile fare sapendo che tutto dipende da noi. La manifestazione del 20 è stata chiarissima, ci ha aiutato. Ho visto che perfino il Pd ha timore di essere un «partito liquido» e senza iscritti. La nuova sinistra, se vuole avere una prospettiva di governo, deve essere qualcosa di solido, di radicato nella società, di pesante.

Qual è la prima mossa?
Domani (oggi per chi legge, ndr) ci vediamo con Giordano, Diliberto e Pecoraro. L'idea è convocare a metà dicembre gli stati generali della sinistra. Qualcosa di simile a un «social forum», dove si incontrino non solo le quattro forze politiche ma un campo di forze vastissimo, che va al di là della forza pur non irrilevante, intorno al 12-13%, dei pariti che ci sono. Una sinistra divisa non rappresenta più la società. Unificarla corrisponde alla vocazione di centinaia di migliaia di persone, che ritengono inimmaginabile che la sinistra scompaia dal lessico politico italiano. Serve però una sinistra più avanzata, che risponda ai problemi del XXI secolo. Ricombinare gli schemi del passato non funziona. La memoria è nostra ma i problemi sono nuovi.

Questa sinistra non ha anche un problema di leadership?
Non mettiamo il carro davanti ai buoi. C'è bisogno di un processo molto partecipato la cui chiave siano i programmi e le idee. Concordo con Giordano, se ci buttiamo alla contesa sulla leadership come il Pd siamo perduti. Nessuno di noi cerca primati personali, di personalizzazione della politica ce n'è fin troppa.

Prima del 20 ottobre si è vociferato di tue possibili dimissioni da coordinatore di Sd. Resti alla guida del movimento?
E' vero. Abbiamo avuto una discussione molto animata sul protocollo, sulla condotta da tenere in consiglio dei ministri e sulla manifestazione. E' una discussione che prosegue. Sì, sono ancora il coordinatore.

di Matteo Bartocci e Gabriele Polo da il Manifesto del 24 ottobre 2007

martedì 23 ottobre 2007

Sinistra ora o sinistra addio

Ora che c'è il partito democratico. Ora che è stato eletto il leader e che - sia pure non espressi né definiti da un congresso - sono evidenti impegni programmatici e cultura politica. Ora che - come ha scritto Piero Sansonetti - è evidente l'ambizione di "raggruppare intorno ad un'ipotesi centrista un'alleanza molto ampia di forze sociali, di gruppi di potere, di ceti intellettuali e politici che si pone l'obiettivo unico di governare l'Italia per molti anni garantendo il ruolo centrale dell'impresa e assicurando la centralità del mercato". Ora che tutto questo è chiaro, cosa si aspetta a costruire la sinistra? Che cosa si aspetta a costruire una forza politica nuova che metta al centro gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne, che si batta contro l'emarginazione prodotta dal mercato, per la laicità dello stato , per la giustizia sociale, per la solidarietà con gli “ultimi” e per la loro emancipazione, per una reale democrazia politica, sociale, economica, per la sobrietà pubblica e privata, contro il nuovo e più ambiguo potere dell'impresa? Una forza di governo, ma abbia le capacità di rappresentare fuori e dentro il governo anche gli ultimi?
Anche i politologi più ostili alla sinistra dicono che oggi questo spazio c'è, che è ampio. Qualcuno lo teme. Qualcuno lo vede comunque come un fatto positivo per chiarire il quadro politico. E proprio per questo chi vuole rimanere a sinistra convinto che di questa ci sia ancora bisogno, non può non rimanere stupito di fronte alla lentezza, i timori, i dubbi che oggi impediscono che la costruzione di una nuova forza di sinistra vada avanti con la convinzione e la speditezza necessari. E anche con quell'impegno che diventa anima, convinzione profonda, e che - se la parola non risultasse troppo grossa - definirei impegno etico.
Perché è certamente una responsabilità non da poco non far crescere la sinistra in Italia, non darle un volto e una identità riconoscibili.
Due giorni fa, sulla Stampa, Luca Ricolfi, opinionista riformista, ha scritto un articolo sulla nascita del partito democratico che vale la pena di riportare. Ricolfi ha detto che il nascente partito democratico ha operato in questi mesi una "rivoluzione di nascosto". Una rivoluzione perché "ha importato una incredibile quantità di parole d'ordine della destra" mettendo "in sordina una altrettanto incredibile quantità di parole d'ordine della sinistra". Ha importato - dice sempre l'opinionista - merito, severità, ordine e poi aumento dell'età pensionabile, meno tasse, privatizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico , tolleranza zero anche verso i presunti ultimi". E ha abbandonato i capisaldi della sinistra riformista tradizionale: laicità, fecondazione assistita, coppie di fatto, rafforzamento dello stato sociale, integrazione degli immigrati, questione salariale, allenaza coi sindacati. Tutto questo è stato fatto quasi di nascosto, su questioni parziali, senza dirlo esplicitamente, semplicemente cambiando di volta in volta idea.
Ecco, credo che ora, nel breve volgere di qualche mese, la "rivoluzione" non potrà più rimanere nascosta. Sarà chiara. L'identità centrista, il superamento della distinzione fra destra e sinistra, che è l'aspirazione culturale vera del partito democratico, sarà evidente nelle scelte politiche, nel rapporto con il governo, nella ricerca delle alleanze. La nuova cultura politica emergerà senza ambiguità nella preparazione del congresso costituente. E allora? Allora chi raccoglierà e darà nuova speranza e anche la possibilità concreta di cambiare le cose che non vanno, chi rappresenterà quelli che con quella cultura e con quelle scelte non sono d'accordo? Si potrà continuare ad avere un ruolo in un governo continuamente ricattato e oggi rafforzato nelle sue scelte moderate senza contare su una coesione ideale, su un'unità di intenti di "sinistra"? O non si corre il rischio, purtroppo molto concreto, di fare battaglie giuste, ma alla fine insignificanti di fronte alla montante marea centrista che chiede ordine, moderazione, mercato? Che ha intrapreso con decisione un cammino che prevede il superamento e la sconfitta della sinistra?
So bene che le forze della sinistra oggi nel governo e nella maggioranza si battono con coraggio per evitare che sullo stato sociale, sul salario, sulle pensioni, sulla precarietà passino le peggiori politiche liberalizzatrici. So bene che questa è una battaglia difficile nella quale si rischia l'isolamento, e qualche volta persino la stupida ironia e saccenteria di chi non vuole disturbi per il manovratore. So bene, inoltre, che riunificare forze, modificare identità, rinunciare ad alcune sicurezze è difficile. Ma ho anche l'impressione che ci troviamo in un momento della storia politica della sinistra in cui o si fa tutto questo o semplicemente ci si rassegna ad un ruolo residuale e si scompare.

di Ritanna Armeni da Liberazione del 21 ottobre 2007

lunedì 22 ottobre 2007

Ingrao: "La politica deve far sognare ma sarebbe stupido far cadere Prodi"

ROMA - «La politica deve far sognare, io voglio sognare. Perciò insisto a dire che voglio la luna. E la luna deve pure sbrigarsi: tra qualche mese compirò 93 anni, dunque...». Pietro Ingrao abita nella stessa casa da più di quarant´anni. Gliela lasciò il padre. Gli stessi mobili, la identica luce, e i rumori della vicina tangenziale che taglia Roma ad est. «Prima abbiamo abitato in un appartamento della famiglia di mia moglie, i Lombardo Radice. Sopra di noi c´era quella di Indro Montanelli».
Vecchio, è il grande vecchio della sinistra italiana. E´ la figura più riverita, la più applaudita, e come è capitato sabato a Santa Maria Maggiore, baciata, perfino osannata da una folla veramente adorante, la bandiera rossa in una mano e l´altra a cercarlo, a toccarlo.

Presidente Ingrao.
«Ingrao, preferirei usasse solo il cognome. Mi sembra appropriato quando la confidenza è poca. Chi mi frequenta mi chiama col mio nome: Pietro».

La politica è fare, non sognare.
«Certo che lo so: la politica è anche fare, cambiare o solo confermare la realtà delle cose. Ma non mi basta. E non mi deve bastare. Insisto perciò: la politica deve al fondo saper sognare. E io voglio sognare».

Il manifesto di Rifondazione comunista che definiva il senso della marcia di sabato scorso recitava: "Un altro mondo è possibile. Non la luna".
«Insisto, voglio altro. Anzi aggiungo: sono lieto di aver detto che è giusto chiedere la luna, dare una spinta in quella direzione. Per raggiungerla naturalmente ricorro a tutte le strade e a tutti i compromessi possibili e legittimi».

E stare al governo con Prodi le appare un compromesso accettabile, soddisfacente?

«Prodi, Veltroni e gli altri sono dei moderati con cui la sinistra realizza degli accordi definiti, costruisce un rapporto. Io non ho avversato la decisione del mio partito, Rifondazione comunista, di governare insieme. E adesso non farei la stupidaggine di far cadere il governo».

C´è Berlusconi dietro l´angolo.
«E´ un reazionario. Anzi, un pessimo reazionario».

Dunque non desidera le urne.
«Però quella grande piazza che ho visto era composta di gente che protestava contro. Lottava per conquistare due grandi obiettivi: l´emancipazione dal lavoro e il raggiungimento della pace. Il tono complessivo della manifestazione mi è sembrato per la verità un po´ più di un ultimo avviso a Prodi. Io stesso ho usato una frase: la lotta continua. Continua».

È sempre piuttosto difficile per un comunista vedere cambiate le cose. Il corteo avanzava rassegnato, quasi perduto nella sua triste condizione.
«Non mi è proprio parso rassegnato. Anzi fiero, convinto nella lotta. Quanta gente, così tanta da stringerti fino a farti arrestare il passo. E le mani che ti cingevano, quella che ti sfiorava la fronte, l´altra che ti faceva una carezza, chi ti rivelava il suo nome: "Io sono..." Un modo di comunicare, di sentirsi vicini».

Commovente.
«Sono un emotivo non un freddo. E commovente assai è stato l´incontro».

Adesso si cerca un leader per guidare la Cosa rossa.
«Non tocca a me rispondere alla sua domanda; non spetta a me fare un nome. Ma non mi sembra la cosa più urgente a dire il vero».

Dopo la costituzione del Partito democratico, che lei inquadra nel fronte dei moderati...

«E´ così, sono dichiaratamente moderati».

D'Alema, Veltroni e gli altri diessini sono stati suoi compagni. Li ha visti crescere. La chiamano, si fanno ancora vivi?

«Sono presi dal loro lavoro, vanno a frugare il mondo nei luoghi più remoti. E io sono qui, seduto. Con alcuni si è creata una distanza di pensiero e di progetto. Se mi chiamassero risponderei volentieri, è sempre utile l´ascolto anche dai diversi da me».

I diversi. Per un non credente il diverso è un cattolico.
«Ho avuto diverse relazioni con alcuni esponenti di questo mondo. Relazioni umane e anche politiche. La più recente è quella con Alex Zanotelli. Ma anche con don Nasi, con Padre Balducci. Ricordo quando mi fu chiesto di parlare in una chiesa fiorentina. Io salii e dall´altare... Con Giorgio La Pira il dialogo fu vivo, intenso. A volte succedeva che La Pira telefonasse a casa e non mi trovasse. Mia moglie Laura chiedeva chi fosse. La Pira rispondeva: "Quello della città sul monte". Aveva paura di essere intercettato dalla polizia, e per prudenza (ero pur sempre un comunista e un non credente) dava la sua identità cifrata".

Questo Papa la incuriosisce?
«Non mi fa simpatia».

C'è la televisione qui in salotto. Buon per lei: la politica si è oramai trasferita nei talk show.
«Sì, guardo. Accendo la tv. Alcune volte però la spengo. Altre volte ancora, e capita assai spesso, cambio canale».

Cosa guarda?
«Il programma di Giuliano Ferrara, ma non sempre. Anche Gad Lerner, ma non sempre. Michele Santoro, di meno però. Lui di meno. Gli altri non mi sembrano di grande interesse. E quando cambio cerco un film».

Il suo grande amore.
«Sono convinto di intendermi più di cinema che di politica. Ricordi che ho frequentato per un anno l´istituto sperimentale di cinematografia».

Però Veltroni ne sa più di lei.
«Sbaglia: sono meglio di Veltroni».

Adesso c´è la festa del cinema a Roma, è un´occasione da non perdere.
«Devo ribadirle la mia età?».

Con chi parla di politica?
«Con Rossana Rossanda e Lucio Magri. Di recente gli incontri con Rossana si sono fatti più rari per il fatto che lei vive a Parigi. Ho sempre ascoltato le opinioni di Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante. Questi qua«.

Ma Bertinotti lo sente?
«Sì, chiama».

Lei esce ancora spesso di casa.
«Mi piace passeggiare, vado a piazza Bologna, lungo viale XXI Aprile, arrivo fino a villa Torlonia. Il luogo che mi è caro per via della mia passione cinematografica. Lì ho immaginato di fare il regista...».

L'accompagna l'autista?
«A piedi. Da quando ho smesso di fare il presidente della Camera non ho più avuto un´auto di servizio. Non ce n´è stato mai bisogno».

Irene Pivetti ce l'ha.
«Come?»

Ha goduto poco del privilegio di Stato.
«Rifiutai anche di tornare a fare il presidente della Camera e la cosa non fu affatto presa bene dal partito. Per due motivi. Il primo: non si capiva perché rifiutassi un incarico di tale prestigio. Il secondo: non si accettava che dicessi no al partito. Ugo Pecchioli fu molto aspro con me. Riteneva di censurare questa mancanza di disciplina: "Quando il partito dice, si fa"».

Venne Nilde Iotti dopo di lei.
«Fu la volta di Nilde».

Si ricorda sempre il rapporto sentimentale che la legò a Togliatti. Solo di lei si parla, eppure nel Palazzo avete vissuto in tanti una lunga vita.
«Cosa vuole chiedermi?».

Anche lei ha trascorso anni e anni lì dentro...
«Nel Palazzo, diciamo così, di certo le simpatie non sono mancate. Ma ho vissuto interamente e intensamente il rapporto con mia moglie Laura».

È così.
«E sono rimasto qua».

di Antonello Caporale da la Repubblica del 22 ottobre 2007

venerdì 19 ottobre 2007

Giovanni Berlinguer: «E' ora di pensare ad un solo partito»

Ha la scrivania piena di ritagli di giornali. Incollati su fogli di carta, accompagnati da tanti appunti. Per esempio, l'intervista a Franco Giordano, pubblicata ieri sul nostro giornale, è sottolineata in tante parti. Ma è accompagnata anche da un punto interrogativo. Disegnato a mano, verso la fine. E con l'intervista a Giordano ci sono decine di altri ritagli. Così, quando comincia questa chiacchierata, Giovanni Berlinguer - 83 anni, un professore, uno dei più autorevoli professori di medicina sociale "prestato" alla politica, oggi eurodeputato, eletto con l'Ulivo e ora nel gruppo della Sinistra democratica - sembra avere tutto sotto mano. Se qualcosa gli sfugge, se la va a controllare fra gli appunti. Una cosa però non è scritta da nessuna parte. La sua aspirazione, il suo progetto che vorrebbe veder realizzato: un partito della sinistra. Lui lo chiama così. Certo, se insisti e gli domandi se pensa ad un partito unico, ti risponde che la parola gli fa paura. «Sa di Urss, di Breznev». Però ad un partito pensa. Le formule che si usano in questi giorni sui quotidiani - federazione, un "patto" e via così - gli sembrano tutte inadeguate. Ma sono soprattutto i tempi che gli mettono timore: «Sì, perché o si fa adesso o sono guai. E davvero la prossima generazione non ce la perdonerà». Al partito della sinistra Giovanni Berlinguer ci arriva con un lungo ragionamento. Che parte proprio da quel che è avvenuto domenica, con quei tre milioni e mezzo di persone che hanno partecipato alle primarie.

Allora, che idea ti sei fatta? Perché una partecipazione così vasta?
Le primarie, il coinvolgimento di tante persone, anche di molti giovani, per dar vita ad un partito nuovo è un fatto straordinario. Ma non è isolato.

In che senso?
Se andiamo indietro nel tempo ci accorgiamo che prima - e sto parlando di due anni - ci sono state le primarie dell'Unione, poi la battaglia, vinta, sul referendum istituzionale voluto dalla destra. Poi tante altre cose fino alle ultime vicende, il pronunciamento dei lavoratori sul protocollo e il voto per designare il segretario del piddì. Ma penso anche alle manifestazioni di Vicenza, alla straordinaria marcia per la pace di Assisi.

Tutto questo cosa ti fa dire?
Che a determinare questa spinta alla partecipazione la sinistra - tutta - ha contribuito molto. In maniera decisiva. Eppure la sinistra non ha ancora l'unità, i collegamenti, la capacità di ascolto, non ha ancora la forza per esercitare una capacità di attrazione verso nuovi soggetti. Non ha ancora il "passo" giusto, insomma, per bilanciare il partito democratico.

Breve inciso. Che aggettivo useresti per definire il partito di Veltroni?
Permettimi, ma anche nei fenomeni biologici non si può mai parlare delle prospettive di una specie nuova analizzando le uova. O le prime forme che assumono se si tratta di esseri viventi.

Giudizio sospeso, allora?
Nel piddì, lo sappiamo, ci sono moltissime idee che dobbiamo evitare di catalogare a priori. Ci sono influenze di integralismo, ci sono pezzi di liberismo sfrenato. Ma c'è voglia anche di modernità democratica. Tutte cose ancora informi. Vedremo. Certo quel percorso non mi appartiene. Ma penso che sia stato giusto, come fece la minoranza dei diesse all'ultimo congresso, augurare a chi voleva dar vita ad un nuovo partito: "buon viaggio". Io, insomma, davvero spero ancora di arrivare ad un successo parallelo. Il loro, quando magari formuleranno meglio le loro proposte, e il nostro, che puntiamo a riaggregare e rimodernare la sinistra. La sinistra unita. Sapendo che comunque bisognerà collaborare. A meno che qualcuno non pensi che il piddì possa essere autosufficiente. Sarebbe assurdo semplicemente perché non è nell'ordine delle cose esistenti.

Parliamo di sinistra, allora. Come te la immagini?
Più ampia di quella attuale.

Qualche altra definizione?
Azzardo: ricca di tradizioni ma anche priva di vincoli che attanagliano le energie.

Che intendi per "vincoli"?
Provo a spiegarmi meglio: penso che tutti i partiti della sinistra abbiano oggi il dovere di andare oltre quello che hanno acquisito nel corso di questi anni. Nell'intervista che ha dato a Sansonetti, il segretario di Rifondazione fa capire di non avere alcuna nostalgia per l'identità comunista. Del resto è quello che ha sempre sostenuto anche Bertinotti. Ecco, questo significa sottrarsi ai vincoli.

Significa non accalorarsi sulle questioni dell'identità, ho capito bene?
Come sai io provengo dalla storia comunista. Una storia che credo abbia dato un grande contributo alla politica internazionale. Penso naturalmente alla lotta contro il nazi-fascismo, all'impulso offerto alle battaglie anticoloniali. Ma penso anche che abbia avuto una grande rilevanza il fatto che le conquiste sociali in Urss - vere o false che fossero - si sono poi tradotte in un incoraggiamento all'emancipazione del lavoro. Tutto questo lo so, come vedo perfettamente i risultati globali del comunismo dove ha assunto la forma del potere. Quali catastrofi ha provocato, quali sventure.

E allora?
In sintesi. Credo che tutto questo debba essere acquisito una volta per tutte. Dopodiché occorre tornare ad indagare la realtà, quella di oggi. Che ci racconta come, nonostante tutto, ci sia una fortissima domanda di beni comuni. C'è insomma la possibilità di riprendere un'idea, un progetto per il quale le sorti di questo pianeta, le condizioni di come ci si vive, le sue risorse, a cominciare da quelle idriche e ambientali, la sua convivenza pacifica può tornare a costituire un tessuto collettivo. Che tutto questo può tornare a diventare un'idea forte che appartiene a tutti.

Prima parlavi della necessità di liberarsi dai "vincoli". Ma anche il socialismo europeo può essere considerato tale, non trovi?
Beh, facendo un paragone chiunque capisce che la storia del socialismo europeo è stata meno dirigista, il suo dibattito interno più libero. Ma non mi sottraggo e ti dico che anche qui, ci sono grandi ombre. Che riguardano il passato, ma anche l'oggi. Riguardano soprattutto la sua insufficiente capacità innovativa. Sì, una nuova sinistra deve guardare oltre. Ti ripeto: oltre tutto ciò che è stato acquisito.

E che forma dovrà avere questa nuova sinistra italiana?
So che deve essere coraggiosa, generosa. Deve essere più aperta. Le forme? Possiamo anche imparare dall'esperienza delle primarie. Non per copiarla, certo, ma per imparare qualcosa. In ogni caso dobbiamo accettare il fatto che la voglia di contare, nella sinistra, si estende molto al di là di ciò che oggi organizzano i partiti. E' una voglia di contare che sta ricomparendo, dopo un anno e mezzo di delusioni, di frustrazioni generate da questo governo. Sta ricomparendo a dispetto di quei fenomeni tanto enfatizzati dai media...

Ti riferisci a Grillo?
Io so solo che l'antipolitica è dovuta soprattutto al comportamento della politica. Sicuramente ai suoi costi, sul quale è sacrosanto intervenire. Ma non solo su quello.

Da cosa dipende allora?
Ma ti rendi conto che sono 15 anni che si discute di come cambiare le regole, che poi significa quasi solo quale legge elettorale adottare? Tema importante, certo ma che ha fatto ininfluente tutto il resto.

Che c'è in questo "resto"?
C'è il tema del lavoro, della sua rappresentanza sociale ma anche della sua rappresentanza politica. In disparte sono finiti i temi del sapere, del'informazione, dell'ambiente.

Di questo si deve occupare la sinistra?
Ovvio. Mettendoci anche un tema sul quale c'è bisogno di ricominciare una discussione approfondita.

Quale?
Il tema del governo.

Che vuoi dire?
Ancora l'intervista di Giordano. Lui dice che il governo è una variabile, non l'obiettivo della politica. Non la penso così. L'azione dei partiti è sempre stata tesa a diventare "governo". Altrimenti si hanno risultati effimeri. Certo, la storia del Pci e di tutta la sinistra racconta che si può cambiare la società anche stando all'opposizione, ma l'obiettivo deve essere quello di trasformare il paese. Utilizzando anche, e non solo, il governo.

Dimmi la verità Berlinguer: pensi che i ritardi nella costruzione della "cosa rossa" dipendano anche da differenze di impostazione, come quella che hai appena descritto?
Diversità ci sono. Nulla però che non possa essere risolto in un confronto ampio, serio. Purtroppo i ritardi credo che dipendano anche da altro. Da inerzie, da sedimentazioni. Di chi si attarda a difendere la propria identità.

Ancora: tu avresti in mente il nome di un leader per questo partito della sinistra?
Domanda strana. Ma ti rispondo: Bertinotti sarebbe la persona più appropriata. Ma sono altrettanto convinto che lui stesso pensi ad un gruppo dirigente rinnovato. Anche dal punto di vista anagrafico.

L'ultima cosa: tu hai aderito al 20 ottobre, poi a sinistra c'è stata polemica su quella manifestazione. Che ne pensi?
Dico solo che mi auguro che la manifestazione di sabato sarà grande e partecipata. Anzi, sono convinto che sarà così.

di Stefano Bocconetti da Liberazionde del 19 ottobre 2007

Claudio Fava: «Manifesto per unire la sinistra»

L 'europarlamentare Claudio Fava domani sarà in piazza a Roma.
Ci sarò per più motivi. L'idea che si può manifestare dall'opposizione e invece bisogna tacere quando si è al governo è una lettura un po' bizzarra e limitativa delle responsabilità politiche. Voglio manifestare per qualificare l'azione del governo Prodi, per dare indicazioni concrete su punti del programma dell'Unione che vanno rimessi al centro dell'attenzione della maggioranza. Sarò in piazza per il recupero di una questione morale, che diventa dirimente per ogni scelta politica dal welfare ai diritti civili, passando per la pace e l'ambiente.

La tua Sinistra democratica non ha aderito alla manifestazione, almeno ufficialmente...
Come parlamentari europei della sinistra vogliamo anche dare un contributo di originalità. Mi spiego: a Bruxelles abbiamo dato vita ad un vero e proprio laboratorio della sinistra, ci siamo trovati d'accordo su una piattaforma avanzata, lavoriamo insieme. Dal no alla seconda base di Vicenza alla difesa dei diritti civili, sociali, dell'ambiente. Abbiamo già avviato la costituente della sinistra, vorremmo portarne testimonianza il 20.

La sinistra si ritrova comunque in piazza domani, un buon segno?
La sfida che abbiamo davanti è importantissima, bisogna fare uno sforzo di umiltà per superare i localismi e le autorferenzialità che hanno spesso limitato l'azione della sinistra. Ci vuole orgoglio e passione politica. L'obiettivo è una sinistra senza aggettivi, una sfida culturale che può segnare in positivo un'epoca, un'assoluta necessità accanto al riformismo moderato del Partito democratico. L'Italia ha bisogno di una cultura di sinistra, che sia come si diceva un tempo di lotta e di governo.

Chi ci sarà domani a Roma?
Il 20 mi sentirò deputato, militante, dirigente della sinistra. Sarà una manifestazione che andrà oltre le case di appartenenza, socialista, comunista. Tutti i parlamenterai europei della sinistra staranno dietro uno unico striscione, per testimoniare un'unità che si fonda sulla pratica politica.

Come andranno avanti dal 21 ottobre le forze della sinistra italiana?
Penso ai diciotto punti della piattaforma fatta dai quattro soggetti politici che richiamavano Prodi a un maggior impegno sul welfare. La sinistra può produrre politica insieme, a differenza del piddì che è una fusione a freddo. Il 20 la presenza di alcuni di noi sarà un valore aggiunto, per qualificare l'azione del governo Prodi e per ritrovarci già il 21 ottobre in un percorso definito e condiviso che non ha più ragioni, pretesti, alibi per fermarsi. Questo è il tempo delle responsabilità.

Anche dell'unità?
Certo. Ma parlare di modelli non mi entusiasma, penso a un soggetto comune, a un linguaggio comune, a una capacità di coinvolgimento che non si fermi a Sd, Prc, Verdi e Pdci ma sappia parlare anche al disagio, agli esclusi dalla politica, ai giovani. Unire la sinistra è l'urgenza, le forme le troveremo per strada.

di Frida Nacinovich da Liberazione del 19 ottobre 2007

giovedì 18 ottobre 2007

La nostra idea di politica partecipata

Le primarie in Italia le abbiamo inventate noi, la sinistra. A volte leggendo i commenti di alcuni compagni e compagne ho come l'impressione che questo particolare sia stato dimenticato. Quando si pose l'esigenza di scegliere tra Nichi Vendola e Francesco Boccia, come candidati alla presidenza della Regione Puglia, fu proprio la sinistra e segnatamente Rifondazione Comunista ad invocare a gran voce il metodo più partecipativo e democratico.
La storia la conosciamo: Nichi vinse contro ogni previsione della vigilia, contro le macchine organizzative di Ds e Margherita, contro gli strali che attempati editorialisti del Corriere della Sera gli lanciavano quasi giornalmente.

Ora, sarebbe bene, sarebbe bello, che la sinistra ricordasse quei fatti e ricordasse che, se qualcuno ha copiato, questo è proprio il Partito Democratico. Noi, qualora scegliessimo, come mi auguro, le primarie per il programma e la leadership della sinistra, non faremmo altro che imitare noi stessi, la nostra idea di politica partecipata.
Del resto, ci sono alternative? Onestamente io non ne vedo alcuna. Così come non vedo alternative all'unità della sinistra stessa. Marciare separati, per magari, quando va bene, colpire uniti, è una tattica inadeguata al quadro politico che abbiamo di fronte dopo la formazione del Partito democratico.

Dice bene Nerozzi (su aprileonline ieri, ndr): oggi non c'è una rappresentanza del lavoro nella politica. O almeno non c'è una rappresentanza adeguata. Quello che mi pare neghi - non solo lui, ma buona parte della Cgil - è che questa rappresentanza politica va costruita. Io non sono d'accordo e mi pare suicida pensarlo: non ci si può rassegnare all'idea che i lavoratori si difendano solo con il sindacato. Perché è evidente che finché nell'agenda politica il lavoro non tornerà ad occupare il primo posto, lo stesso sindacato non potrà che operare una resistenza al tentativo di cancellare o ridurre i diritti dei lavoratori.

Poi ad ognuno il suo mestiere: al sindacato quello del sindacato e alla politica quello della politica. E ciò significa, ad esempio, che il parlamento è sovrano e se deciderà di cambiare il protocollo in senso migliorativo per i lavoratori, non credo che qualcuno debba scandalizzarsi. E significa, ancora, che l'autonomia del sindacato è speculare a quella della politica: un partito non deve fare un sindacato in miniatura, né il sindacato comportarsi come un partito agendo per la tenuta del quadro politico dato, senza l'onere del confronto elettorale e parlamentare.

Il tema, quindi, è la costruzione di un soggetto politico. Non una federazione - lo ha spiegato bene Giovanni Berlinguer sulle colonne del Riformista - in cui ognuno poi mantiene i suoi organismi e persino le sue liste elettorali. Non una "union de la gauche" di stampo elettoralistico.
Quello che serve ai lavoratori è una grande forza, capace di competere/collaborare con il Partito democratico di Veltroni, nel quale spero che la sinistra potrà far sentire la sua voce perché questo conviene anche a noi. Una forza che rimetta, come dicevo, i lavoratori in testa alle priorità.
Una forza così la si costruisce solo se c'è una grande partecipazione. Solo se i lavoratori e le lavoratrici (quelli che hanno votato sì come quelli che hanno votato no al referendum) sentiranno di essere chiamati a darsi una rappresentanza politica larga.
Questa è la "massa critica". Altrimenti (diciamocelo con franchezza) tutti torneremo a casa per manifesta incapacità.

di Pietro Folena da Aprileonline

mercoledì 17 ottobre 2007

L'unità a sinistra è una via democratica

Cari compagni del comitato promotore della manifestazione del 20 ottobre, Sinistra democratica ha deciso di non aderire per le ragioni che sono state rese note. Personalmente, vista la funzione di dirigente di primo piano alla quale sono stato chiamato, ritengo di dover accettare questa decisione. So anche che molti nostri compagni e compagne parteciperanno, e auguro il miglior successo all'iniziativa. Ma il motivo per cui vi scrivo è che penso al giorno dopo, al 21 ottobre e ai giorni e alle settimane che seguiranno.
La costruzione dell'unità politica della sinistra italiana è sempre più necessaria e urgente. Vedo troppi ritardi e incertezze. Non vorrei che si riproducesse quel male antico della sinistra, per la quale è sempre stato più facile dividersi che unirsi, con il rischio a volte di considerare «nemico» proprio chi è più vicino.
La recente assemblea del comitato promotore di Sd ha proposto un percorso per la costruzione del partito della sinistra italiana. Abbiamo detto che il passaggio intermedio di un soggetto federativo può essere la strada da seguire, anche perché questa è la proposta finora avanzata dagli altri partiti della sinistra.
Ma in fondo è forse anche la strada più giusta. Vivono infatti nel paese, tra i cittadini e i lavoratori, identità politiche diverse: socialista, come la nostra e non solo la nostra; comunista; ambientalista; senza dimenticare che ci sono milioni di persone che si considerano «di sinistra», punto e basta. Per questo non mi convince chi getta il cuore oltre l'ostacolo e dice: o partito unico subito, o niente.
Ma l'unità della sinistra, per nascere vitale e vivere positivamente nelle speranze e nella volontà di cambiamento di milioni di persone, deve sciogliere al più presto tre nodi. Il primo è quello della partecipazione popolare: non condivido il percorso che si è dato il Pd, altre sono le forme di partecipazione alle quali dobbiamo lavorare, ma il nodo è ineludibile.
La seconda esigenza è che il soggetto unitario, ancorché di tipo federativo, sia in grado di agire nel paese e di prendere le decisioni politiche in modo, appunto, unitario. Nel territorio, con la formazione di comitati unitari; nelle sedi della rappresentanza, con un'unica delegazione nei governi ai vari livelli, e con gruppi parlamentari e consiliari unici.
Per fare tutto questo i gruppi dirigenti della sinistra devono assumersi le proprie responsabilità, devono essere davvero disposti a mettersi in discussione, dando a quanti vorranno concorrere a questo grande progetto, individualmente o attraverso i partiti politici di cui fanno parte o altre forme associative e di movimento, il potere di decidere davvero: sui gruppi dirigenti, ma anche e soprattutto sulle idee fondative, sul programma, sulle scelte politiche.
Infine, ma non certo da ultimo, serve un grande confronto ideale sulla democrazia e sulla società italiane. Cito due esempi non certo secondari. Il primo è l'insostenibile leggerezza con la quale, proprio in questi giorni, nella Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati la sinistra italiana sta concorrendo, ancora una volta, all'ennesima «riforma» della nostra Carta fondamentale: in un modo, a mio avviso, subalterno a (vecchie e sbagliate) idee altrui. E in ogni caso senza la seria e approfondita discussione, anzitutto tra i cittadini, che sarebbe necessaria: come se la Costituzione fosse nella disponibilità di ristretti ceti politici, e come se il referendum vinto lo scorso anno contro la «riforma» del centro-destra non ci fosse mai stato. Il secondo esempio è il sostanziale disinteresse dimostrato da noi dirigenti politici rispetto all'analisi e alle proposte degli studiosi di Rive Gauche al recente convegno del manifesto. Ma senza grandi e innovative idee-forza, che vadano oltre quanto possibile qui e ora, nessun grande partito della sinistra potrà nascere vitale e con ambizioni di egemonia.
Vi ringrazio per l'ospitalità e auguro a tutti noi il miglior successo nel compito impegnativo, difficile ma decisivo per l'avvenire del paese, che ci siamo dati: costruire insieme il grande partito della sinistra italiana. Oggi, e non domani.

di Cesare Salvi da il Manifesto del 17 ottobre 2007

La voglia di voto e la Cosa rossa

L'hanno chiamata voglia di voto. Che ha coinvolto una parte rilevantissima di quelle persone che ormai tanto tempo fa - tempo politico, ovviamente, perché calendario alla mano si tratta solo di un anno e mezzo fa - hanno permesso alla coalizione di centrosinistra di battere le destre. Voglia di voto, allora, voglia di partecipazione che ha portato tre milioni e mezzo di persone a fare la fila e ad esrimere una preferenza per il nuovo leader del partito democratico. Una voglia di voto che il vincitore, Veltroni - sia domenica sera, sia ieri pomeriggio in una conferenza stampa in cui ha ridetto esattemente le stesse cose di dodici ore prima - ha letto come la vera risposta all'antipolitica. Quella di Grillo, dei suoi blog.
E sono in molti a pensare che sia proprio così. Al punto che anche la destra è costretta ad ammetterlo. Ma forse è qualcosa di meno. I più attenti osservatori hanno spiegato, insomma, che quel "bisogno di voto" è una premessa al rinnovamento della politica. Da sola non basta. Anche perché a ben vedere c'è una sequenza di fatti e parole - che poi in politica contano quasi quanto i fatti - che sembra spingere in un'altra direzione. Ecco la sequenza. Ieri sera Veltroni è stato incoronato e davanti alla selva di microfoni che l'assediavano ha riproposto la solita sequenza dei suoi slogan: il paese vuole ammodernarsi, rinnovarsi, pacificarsi. Il paese vuole riformismo. Nell'accezione che a questa parola assegna anche Montezemolo, quando vuole togliere il diritto alla pensione a milioni di persone. La mattina dopo, ieri, Prodi - che non si fa illusioni e sa benissimo che il successo del sindaco porterà i due in rotta di collisione - ha ripetuto più o meno le stesse parole. Modernità, sviluppo. Riformismo. Un secondo dopo sono arrivati i sindacati, Cisl in testa - ammesso che in qualcosa oggi la seconda confederazione si distingua dalla Cgil - a ripetere: bene modernità e riformismo. Quindi - hanno detto - non toccate l'accordo sul welfare.
E di lì a una mezz'ora il primo ministro che si sente sul collo l'alito del nuovo segretario ha incontrato i segretari delle tre confederazioni. Assicurando loro che gli impercettibili miglioramenti registrati nel consiglio dei ministri saranno annullati. Azzerati, spariti. E così, a conti fatti, il primo risultato del voto di tre milioni e mezzo di persone, un voto tutto politico, si trasforma in un ulteriore colpo alla politica. Ai diritti della politica. Ai diritti della "buona politica", tanto per usare una parola che rimbalza in queste ore da un telegiornale all'altro: quella di chi, per esempio, non pensa che il 22 per cento di "no" all'accordo sul welfare possa essere ignorato.
Un primo atto simbolico. A suo modo inquietante. Ma fermarsi a questo non servirebbe a nessuno. Perché è evidente che quei tre milioni e mezzo di persone, di donne, uomini, ragazzi in fila davanti ai gazebo raccontano di un bisogno. Di una voglia, appunto. Che rivolge domande a tutti.
Parla della voglia di contare. E racconta che davanti all'empasse di un governo che ha ricevuto un mandato e poi sembra essersene dimenticato, le persone usano quel che trovano. Usano gli spazi, le fessure di partecipazione che si riescono ad attivare. Anche quelle che finiscono per incoronanare un sindaco che, davanti a cronisti un po' allibiti, annuncia che da domani «userà parole nuove» per la politica. Tradotto: domani stupirà dicendo una cosa di sinistra, dopodomani tornerà a difendere l'assessore fiorentino Cioni e la sua campagna contro i lavavetri. Candidandosi a prendere tutto. Ma proprio tutto tutto, fino a competere con la destra sui suoi terreni. Ma lo spiraglio per la partecipazione era questo. E questo le persone si sono prese. Si arriva così alla domanda. Alla domanda che comunque l'esperienza delle primarie rivolge anche alla sinistra: perché oltre a quella di Veltroni e Montezemolo, perché oltre alla proposta del partito democratico non c'era in campo un'altra idea? Un altro progetto? E se c'era perché era ancora attardata a definire le forme della possibile convinvenza? Insomma, le primarie oggi sollecitano una risposta anche da questa parte. Dalla parte della sinistra. Una risposta che qualcuno sosterrà avrebbe già potuto e dovuto esserci. Da tempo. Ma anche questo conta poco.
Conta che oggi, dopo quel successo, nessuno può più pensare che basta mettersi sulla riva del fiume e aspettare di raccogliere in una rete tutto ciò che non ce la fa ad entrare nel piddì.Non è stato mai vero. Ma quell'attesa forse aveva un senso all'epoca delle diatribe fra Fassino e Rutelli. Ora quei tre milioni e mezzo di voti hanno sicuramente avuto l'effetto di rendere "presentabile" il piddì. Più presentabile di prima.
L'hanno riverniciato. Ma la partecipazione in una domenica di ottobre di un pezzo del popolo del centrosinistra punta ad altro. E Veltroni non può darglielo. Ecco perché la "cosa rossa" da domenica è diventata più urgente. E quel bisogno di partecipare, quella voglia di unità non ce la fanno ad essere incanalate dentro gli argini di una discussione sulle forme federative, sui meccanismi della rappresentanza e così via. Per dirla tutta: quei bisogni sono più forti di quanto abbia offerto fino ad ora il dibattito sul soggetto unitario della sinistra.
Se così sarà, alla fine Veltroni potrà dire di aver fatto un favore alla sinistra. Ieri in tutti i protagonisti della vicenda c'era la consapevolezza di cosa si sta giocando in questi giorni. Qualcuno più attento, come Franco Giordano ha rischiato una proposta, di arrivare agli "stati generali" con già l'avvio di una forma organizzativa. Altri meno, come il Verde Bonelli che non vuole sentir parlare di "cosa rossa". Come se qualcuno avesse già deciso come chiamarla. Altri ancora, i dirigenti della Sinistra democratica che continuano a difendere il progetto di una casa comune. E non era scontato. Visto che il futuro segretario, fra i suoi fiori all'occhiello, vanta anche quello di aver garantito un 20 per cento di posti nel nuovo consiglio di amministrazione del piddì ad una lista che si chiama "sinistra per Veltroni". Premessa indispensabile per far ripartire le pressioni dirette a far rientrare una parte, una parte almeno, di chi se n'è andato dai diesse. Ottenendo però solo rifiuti. A cominciare da Mussi.
Le condizioni ci sono, allora. Basta volerlo fare. E forse questo conta di più, molto di più di tutto il resto. Il che non vuol dire che la sinistra debba restare a guardare. Indifferente allo scontro che si annuncia fra Prodi e il segretario del suo partito. Scontro annunciato da tutti e in qualche modo confermato ieri dai due. Quando il sindaco neosegretario spiegava che «l'obiettivo del piddì era arrivare alla fine della legislatura». Un obiettivo, non un impegno. E quando Prodi, in una lettera di felicitazioni, gli spiegava molto onestamente che «ci saranno incontri» ma anche momenti di incomprensioni. Affilano le lame, dunque. Com'era prevedibile e come sapevano tutti. Ma alla sinistra è chiesto tutt'altro. E' chiesto di modificare l'accordo sul welfare, è chiesto di dar voce ai metalmeccanici, ma anche ai milioni di lavoratori che hanno votato sì e che pure non vogliono la precarietà per i loro figli. E' chiesto di conquistare qualcosa per evitare che gli scalini diventino orrendi come lo scalone. E' chiesto di fare la sinistra. Di strappare risultati. Che verranno solo se quei pezzi separati avranno il coraggio di mettersi insieme. Fra di loro e insieme alle persone. A quel punto, forse, tutti potremo ringraziare Veltroni.
E' più morbida sul tesseramento Manuela Palermi del Pdci: «Non dico no a niente, ma ora pensiamo alla Finanziaria, incassiamo il risultato della presenza dei Verdi il 20 ottobre (non al corteo ma con la loro raccolta di firme contro gli ogm, ndr.), e dicono sì alla sinistra federata». Il ragionamento di Giordano mette insieme il referendum dei lavoratori sul protocollo sul welfare e la nascita del Pd: altri due fattori che impongono «la costruzione di una forza unitaria a sinistra con un principio di cultura autonoma». Perchè, argomenta il segretario Prc, il rischio è di una «ristrutturazione del sistema politico e sindacale italiano con due facce: da un lato, un Pd che fagociti tutta la dialettica politica; e dall'altro, un sindacato che abbia in totale appannaggio la gestione sociale e delle forze del lavoro». Ed è ancor più importante, «in questa fase delicata, che le resistenze al percorso unitario vengano fuori perchè rischiano di mettere in difficoltà tutto il processo». Quelle interne al Prc non si fanno attendere. Giannini e Pegolo, dell'Ernesto, attaccano l'idea del tesseramento del soggetto unitario, leggendovi il segnale di un futuro «superamento» del Prc (nonostante le modalità indicate da Giordano siano le stesse sperimentate da anni per la Sinistra europea).
Al momento, la sinistra trova convergenza pratica nella battaglia emendativa sulla Finanziaria. Si punta a chiedere di: istituire il reddito d'inserimento; restituire il fiscal drag ai lavoratori dipendenti finanziandolo con l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie; destinare i 170 milioni di euro previsti per il Mose alla riqualificazione ambientale di Venezia e della laguna. Il relatore del dl che accompagna la Finanziaria, Natale Ripamonti (Verdi), assicura che la maggioranza dell'Unione ha già raggiunto un accordo che riduce i tagli al fondo per l'editoria «dal 7 al 2% per i piccoli quotidiani». Le pressioni della sinistra avrebbero inoltre prodotto un'intesa su un «tetto, basato sul reddito, per gli aiuti agli incapienti» e anche per «la soppressione della società Stretto di Messina, ancora esistente nonostante il ponte non si faccia più». Il nodo più grosso resta quello del welfare, sul quale il governo ha agito con «furbizia e dilettantismo», dice Ripamonti. «Urge fare chiarezza - osserva Di Salvo - non si capisce più di quale testo si stia parlando». E il ministro Ferrero lancia l'allarme: il modo «plebiscitario» con cui il Pd ha agito sul protocollo del 23 luglio e la forza mediatica che riesce a esercitare «tende a descrivere la sinistra come rappresentanza politica senza rappresentanza sociale». Insomma, il rischio è che ci si chieda «per chi facciamo le battaglie». Ecco perchè, propone il ministro del Prc, «bisogna individuare quattro-cinque battaglie da portare avanti sia sulla Finanziaria, sia in Parlamento come campagna nel Paese, altrimenti gli unici a fare lavoro di massa saranno le destre e il Pd». La viceministra agli Esteri Sentinelli indica la sua battaglia: quella per i fondi alla cooperazione internazionale. «Per il 2008 la Finanziaria dispone solo allo 0,21% del Pil: il Dpef prevedeva lo 0,33». Non basta, però per il sottosegretario allo Sviluppo Economico Gianni che non capisce «perché non si proceda subito alla unificazione dei gruppi parlamentari». La conclusione è meno catastrofica: «In alto i cuori, non stiamo bene, ma ancora non siamo nel burrone...».

di Stefano Bocconetti da Liberazione del 16 ottobre 2007

martedì 16 ottobre 2007

Il Corteo del 20? Meglio non farlo

Non si può non tener conto del voto di 5 milioni di lavoratori. Fina dall’inizio abbiamo detto che la manifestazione del 20 ottobre contro il precariato non ci sembrava giusta nella forma e nella piattaforma. Dopo il referendum e il si dei lavoratori al Protocollo di intesa sul welfare ci sembra ancora meno opportuna”. Fabio Mussi, leader di Sinistra Democratica e ministro della Ricerca del Governo Prodi, prende nettamente le distanze dal corteo di protesta organizzato dal Prc e dal Pdci. “Io non ci sarò, noi non ci saremo, il nostro movimento non aderisce”. Insomma, “la manifestazione sarebbe meglio non farla.

Divisi sul corto, e divisi anche in Consiglio dei Ministri. Il 12 ottobre non è la tomba della “cosa rossa”?
Il si con riserva mo e di Pecorario Scanio e l’astensione di Ferrero e Bianchi sono posizioni molto più vicine di quello che appaiono. Le nostre critiche sugli usuranti e sui contratti a termine sono simili. Credo che sul voto di oggi in Consiglio abbia pesato soprattutto la manifestazione del 20: fra otto giorni, passato lo scoglio, le posizioni si ricomporranno. Insomma deve passare il 20 ottobre. Io credo ancora nel progetto di riunione tutta la Gauche fuori dal Partito democratico. insieme abbiamo già ottenuto risultati, con la finanziaria e con le modifiche al Protocollo, in favore della parte più debole e più povera della popolazione. Proprio il Sole 24 ore ha titolato “la sinistra strappa 2 miliardi sul welfare”. Continueremo su questa strada. D’altra parte ci sarà concessa qualche piccola divisione nel momento in cui una candidata alle primarie dei Pd accusa gli altri di brogli e un altro candidato dichiara di tenere il fucile sotto il cuscino.

Perché la riserva in Consiglio? Non le sembra una anomalia?
Sono soddisfatto delle modifiche sui contratti a termine e considero il Protocollo un buon punto di compromesso sulle pensioni, sui giovani e sulle donne.la mia perplessità, e da qui la mia riserva, , è sugli usuranti: non c’è più il numero massimo di pensionamenti anticipati c’è però il tetto di spesa. Dubito che possano indicare gli eventi diritto e poi dire, a un certo punto, che i soldi sono finiti. Se non lo si farà in Parlamento sarà il primo degli esclusi per mancanza di fondi a cambiare la norma rivolgendosi alla Corte Costituzionale.

Cofindustria ha giudicato le modifiche sui contratti a termine “non lievi e peggiorative” dell0intesa di luglio. Questo può creare problemi alla validità del Protocollo?
La formulazione del Protocollo sui contratti a termine era ambigua: nel Ddl ci siamo limitati a sostituire “eventuali reiterazioni” con “reiterazione”. L’obiettivo di limitare l’uso dei contratti a termine a termine per contrastare la precarietà del lavoro, che nella maggior parte dei casi passa proprio attraverso questo strumento, era nel Programma dell’Unione. Così come era nel programma dell’Unione l’eliminazione dello staff leasing, che invece è rimasto. È anche il Programma dell’Unione, mi permetterei di ricordarlo, era un buon protocollo votato da alcuni milioni di persone. Quanto poi all’ “assistenza di un rappresentante di un sindacato comparativamente più rappresentativo a livello nazionale” per ottenere la proroga del contratto a termine dopo i tre anni credo che Confindustria stessa non abbia interesse alla proliferazione dei sindacati “gialli”.

di Emilia Patta da Il Sole 24 ore del 13 ottobre 2007

Scomporre e ricomporre la sinistra: ora

Costituente socialista, Federazione della sinistra: possiamo dire due progetti per un obiettivo solo? A costo di sfiorare l’eresia vorrei sostenere che dobbiamo dirlo. Specie se oltre all’oggi intendiamo guardare anche al domani. Nell’Italia politica di domani non potrà esserci, se ci sarà, un partito democratico e due sinistre, di cui una e mezza aderente al socialismo europeo. Non regge. Non c’è solo il tema della semplificazione del sistema dei partiti, né quello della risposta all’antipolitica che può terremotare da un momento all’altro il panorama italiano. C’è, prima ancora, la questione del declino in cui versa il nostro Paese. Inutile richiamare qui i principali indicatori interni ed europei, economici e sociali. Dati alla mano, siamo dentro una fase che si prevede lunga prima di poter risalire la china. E oltre che lunga essa è anche profonda, se sappiamo leggere di questo declino italiano i dati non solo economici e politici ma anche e soprattutto civili, culturali e morali. Più di trent’anni fa Pasolini riusciva a prevedere gli effetti del miracolo economico italiano allora in atto. Attenti, sosteneva, l’Italia economica cresce molto più di quanto cresca culturalmente il paese, l’antropologia politica nazionale muterà e non in meglio. Abbiamo misurato poco più di un decennio dopo l’effimero mito del Nord-est, presentato anche a sinistra come locomotiva del Paese e che ora lascia sul campo generazioni descolarizzate ed economie residuali. Oggi l’economia italiana ristagna, da tempo, quasi la metà di essa è ormai economia criminale o illegale o sommersa, dentro di essa si scorgono crescente povertà e diritti negati. La buona economia, quella su cui costruire la buona società, è un segmento che ogni giorno si restringe.. Quale nuova politica possiamo costruire, se ciò che abbiamo in mente, per l’oggi e per il domani, non è solo come vincere le elezioni, ma come governare democraticamente un Paese che prima di tutto deve ricostruirsi come sistema? Ma se si parte dal declino del paese, dall’Italia in frantumi come l’ha chiamata con realismo Luciano Gallino, allora il primum vivere di certa parte della politica italiana, stavolta davvero non basta più. E’ apprezzabile l’intesa programmatica con cui l’Unione ha vinto – di poco – le elezioni l’anno scorso, ed è sacrosanto il richiamo dell’intera sinistra a che non sia disatteso, ma occorre chiedersi se un programma di legislatura sia in grado di contenere il senso di una missione verso il governo del Paese. Si può non essere d’accordo con lui su più d’un punto, ma Gordon Brown parla dell’Inghilterra, alla conferenza annuale del Labour, indicando un piano di governo per i prossimi quindici anni. Dobbiamo chiederci cosa dovrà fare il centrosinistra italiano per farsi carico della missione capace di condurre l’Italia fuori dal declino che l’attraversa. Visto fin qui, il nascente partito democratico sembra troppo ripiegato su se stesso per affrontare il tema. E’ noto come la nostra critica ad esso sia stata, sin dall’inizio, netta, lungimirante. E’ un progetto politico troppo al di sotto della risposta da dare alla sfida del declino italiano. Lo è da due fondamentali punti di vista. La divergenza programmatica interna, praticamente su ogni punto della tastiera politica, divergenza permanente, quasi mai condotta a sintesi, se non troppo al ribasso per essere, almeno fin qui, degna di interpretare il senso di una missione politica che parli all’Italia. . Il riflesso che potrà avere – che già ha – sul governare sarà inevitabilmente quello di rallentare l’azione e l’efficacia politica. Ma lo è soprattutto per il modo con cui si sta formando, modo dentro il quale dobbiamo saper scrutare – non è difficile – come e cosa sarà questo soggetto nell’Italia di domani. L’idea di politica, di partecipazione che lo sottende. Quella in atto con la nascita del partito democratico non è neppure la trasposizione da un modello politico europeo ad un modello politico americano. Le analogie, lasciando da parte i pantheon kennedyani e pur nella crescente permeabilità del nostro sistema politico a quello statunitense, sono davvero poche. Piuttosto, è amaro dirlo, il partito democratico sta nascendo come trasposizione, sul fronte del centrosinistra, di un’idea alquanto berlusconiana della politica. Del suo modo di essere sempre più assorbita dalla tecnica e sempre più somigliante neppure alla comunicazione, ma alla pubblicità, sostituendo infine la partecipazione con il sondaggio. C’è una crescente resa a considerare ormai solo questo l’unico modo rimasto di fare politica nell’Italia contemporanea. Il Partito democratico nasce mutuando molto da quell’idea berlusconiana di politica.. L’elezione del segretario di un partito da parte di elettori persino di altri partiti è un caso unico al mondo. E quando uno dei candidati, sindaco di una grande città meridionale e parlamentare, chiama a raccolta gli elettori di destra per sbarrare il passo al suo acerrimo avversario presente nella sua stessa lista, vuol dire che la politica degna di questo nome è giunta al capolinea.
Ma certo il fatto stesso che il partito democratico nasca, chiama la sinistra non solo a pensare con urgenza la sua nuova strategia, ma a come realizzarla. Ecco perché dobbiamo analizzare bene il processo messo in atto dal partito democratico. Per non creare simmetrie politiche, per non risultare nel percorso come nel linguaggio speculari a ciò che con ragione critichiamo. Perché anche a sinistra si finisce di parlare più di soggetto che di progetto politico? Perché si lascia troppo sullo sfondo il tema della cultura politica di un processo che, se non parte prima di tutto da lì e da lì ancora non è partito, inevitabilmente si esaurisce nelle forme della sua organizzazione? Aggregare è certo decisivo sul piano politico, ma non può venire prima del pensare la sinistra di oggi e di domani, nell’Italia di oggi e di domani. Si può dimenticare che la sinistra italiana rischia oggi di scomparire dalla scena, unico caso in Europa, ma l’inizio di questo declino si colloca indietro almeno di vent’anni, quando entra in crisi la sua autonoma e critica visione del mondo? E’ stato detto efficacemente, ma nella disattenzione generale, che la sinistra oggi ha prima di tutto bisogno non di trasmettere ma di produrre cultura politica. Se questo non avviene, se almeno non si parte, la strategia sarà inevitabilmente di tipo elettorale. Importante, certo, meglio noi della destra al governo, malgrado tutto. Ma anche questa finirebbe per essere una risposta al di sotto della sfida italiana.
L’imperativo categorico è allora quello certo di come unire, ma insieme di come trasformare la sinistra italiana. Non c’è qui un prima e un dopo. La qualità del processo sta nella sua contestualità. Se è fermo questo punto, sarà più semplice trovare di volta in volta alleanze, cartelli, tappe intermedie, soluzioni organizzative che siano capaci di condurre a quell’esito. Può apparire un paradosso, ma il ricomporre passa prima dallo scomporre. Per una sinistra divisa, frantumata, che in qualche caso neppure si parlava è certo importante oggi trovare tavoli comuni di confronto, di scambio, di intesa. E’ un primo passo. Essere poi insieme al governo, concertare l’azione parlamentare e incidere sulla direzione di marcia è fondamentale, non dobbiamo sottovalutarlo. Ma su quei tavoli dobbiamo anche riporre sigle, simboli e ricomporre qualcosa di veramente nuovo. La nostra credibilità, al dunque, sta qui, perché abbiamo il dovere di mettere mano ad un progetto politico alto che non si esaurisca in un cartello elettorale. Un passo alla volta e tanti passi insieme, questo dobbiamo fare. Ma davvero potremmo sopportare, nei prossimi mesi, le due divergenze parallele della Costituente socialista e della Cosa rossa? I due processi risulterebbero lenti, parziali, segmenti paralleli di un esistente che rimane così com’è, produrrebbero una bassa rappresentanza di pura sopravvivenza. Rimetersi dunque tutti in discussione e cominciare adesso. Anche noi di Sinistra Democratica che pure un primo passo – e pesante – l’abbiamo compiuto, non possiamo pensare di aver esaurito la pratica ed aspettare gli altri. Siamo tutti in cammino.

di Gianni Zagato da l'Unità del 13 ottobre 2007

Un voto e via. Il mito della «festa democratica»

In principio fu la forma partito: c'era la base, il vertice, le sezioni, gli organismi dirigenti; nel Pci il centralismo democratico con le sue liturgie, nella Dc le correnti con le loro. Era nel Novecento, un secolo fa. Seguì, della forma-partito, una lunga e inarrestabile crisi. Adesso, non più all'alba ma già al mattino del nuovo secolo, per il partoriendo Pd si dovrebbe parlare, più che di una forma-partito, di un partito-sformato. Con due sole certezze: l'elezione diretta del segretario - nientemeno che «un evento storico», lo definisce nientemeno che Sergio Cofferati - e la rinascita delle correnti; quanto al resto, una base (elettorale) indefinita - un euro una scheda - e procedure improvvisate (malgrado i bizantinismi sulle regole che ne hanno accompagnato la gestazione). Per farsene un'idea, basta scorrere l'eloquente elenco delle sedi in cui sono stati allestiti i 10.000 seggi per il voto di oggi: bar, teatri, studi medici, emeroteche, stazioni di vigili urbani, mercati coperti e scoperti, bocciofile, ristoranti, piste di pattinaggio, librerie, e quel che resta di case del popolo e sezioni Ds e Dl. E' da qui che lo sformato verrà fuori. Per dare davvero nuovo sapore alla democrazia?
La retorica, unica superstite della forma-partito novecentesca, ripete di sì. Per Walter Veltroni, con le primarie di oggi si scrive «una pagina di storia italiana»; per Dario Franceschini, si segna «uno storico spartiacque»; per Massimo D'Alema, si partecipa a «una grande festa democratica», e poco importa che Arturo Parisi senta il bisogno di invocare «vigilanza e trasparenza» fidandosi più degli exit-poll di Diamanti e Pagnoncelli che dei suoi compagni di avventura. Arrivato al traguardo, cioè alle mitiche primarie per anni invocate come la prova del nove del cambiamento e dell'innovazione, il ministro della difesa avverte «la differenza fra sogno e realtà». Poteva svegliarsi prima, ma intanto il sogno di è impadronito di tutti. Le primarie non sono più un mezzo per arrivare alla cosa, sono diventate la cosa: il partito democratico è il modo in cui nasce, e l'idea di democrazia che sbandiera è la democrazia che si pratica con le primarie.
Si può continuare a sognare e convincersi, con le migliaia di protagonisti in corsa, che dalla «festa democratica» di oggi riparte la partecipazione, si riduce la distanza fra cittadini e politica, si rimette nelle mani di ciascuno e ciascuna quello che finora è stato delegato alle segreterie dei partiti o alle chiacchiere del Transatlantico; e che la condizione numero uno perché tutto questa accada è che a votare ci vadano più di un milione di persone. Resta avvolto nel mistero però perché tutto ciò non sia già accaduto dopo il 16 ottobre 2005, quando a votare per l'investitura del candidato-premier dell'Unione ci andarono in quattro milioni, o dopo le primarie sperimentate sotto varie forme in Puglia, in Calabria, in Sicilia, a Milano, a Genova e altrove. Le feste del resto sono belle perché durano poco: un voto e via, fine degli onori e degli oneri della democrazia. Ma il leader, e con lui gli organismi dirigenti, finalmente avranno la loro investitura popolare, e di conseguenza mani più libere.
Per fare che cosa? Sei mesi di accelerazioni e divisioni non hanno chiarito né la natura né i progetti di un partito che fu lanciato, nei congressi di scioglimento dei Ds e dei Dl, come una «necessità storica», una fusione creativa delle culture politiche di partenza, un fattore di ordinamento e stabilizzazione del quadro politico. Le culture politiche sono rimaste divise quando non ostili l'una all'altra, come dimostrano i conflitti perenni sulla laicità dello stato e sui diritti di libertà, dai Pacs al testamento biologico. L'appartenenza di campo internazionale è rimasta incerta, se è vero che mentre Fassino accenna ancora al socialismo europeo Veltroni ha ripetuto l'altro ieri, in un'intervista al Corsera, che salvo l'esperimento svedese la tradizione socialdemocratica del vecchio continente è tutta archiviata al cospetto del faro kennediano. Il moderatismo dilaga nelle parole e nei fatti, lascinado a Rosi Bindi l'improbabile spazio per la rivendicazione del carattere «di sinistra» della nuova impresa. Le politiche sociali si declinano solo all'insegna della sicurezza, che si tratti del precariato da combattere o delle ansie per gli zingari da calmierare. E quanto alla stabilizzazione del quadro politico, com'era ovvio l'accelerazione dell'investitura di Veltroni non potrà che destabilizzare il governo di Prodi, mentre le «alleanze di nuovo conio» incombono sul bipolarismo. I gruppi dirigenti del partito-omnibus, però, grazie alla campagna elettorale per le primarie si sono ben reimpiantati sul territorio e relative fonti di risorse e di voti. Anche questa, a modo suo, è una strategia di stabilizzazione.

di Ida Dominijanni da il Manifesto del 14 ottobre 2007

venerdì 12 ottobre 2007

Epifani: «Un successo storico per il sindacato confederale»

Nel suo studio Guglielmo Epifani continua a leggere i dati aggiornati che gli arrivano sulla scrivania. «Bene, molto bene. Stiamo superando i cinque milioni di votanti, il sì arriva all’80%...» sospira soddisfatto, come se avesse scampato un tremendo pericolo. Il referendum sul protocollo welfare poteva davvero diventare una trappola per il sindacato, poteva minare la sua credibilità nei confronti di milioni di lavoratori, poteva intaccare la sua autonomia davanti alle indebite intromissioni di rissosi partiti e partitini. Ma adesso le urne sono chiuse ed Epifani commenta con l’Unità questa decisiva prova sindacale.

Epifani, che cosa dicono i numeri?
«I numeri dicono che il sindacato confederale esce più forte e unito dalla più vasta consultazione tra i lavoratori che sia mai stata realizzata nel dopoguerra. Questo referendum è un fatto storico per la grande partecipazione e, anche, per l’esito del voto. Vince il sindacato confederale, non massimalista, capace di dare risposte concrete e credibili ai bisogni della gente. I dati sono impressionanti: è stata una prova di democrazia, trasparente e corretta, in cui milioni di lavoratori e pensionati hanno espresso il loro voto su un accordo proposto dal sindacato».

E il risultato?

«Il sì ha vinto, con un percentuale altissima. Abbiamo vinto dappertutto, anche a Brescia e a Torino città industriali che per la particolare composizione del tessuto produttivo immaginavano di perdere. E invece abbiamo vinto anche in queste situazioni difficili. Ma il successo è vistoso in tutti i settori: commercio, servizi e distribuzione, edili, braccianti, in tutti i settori pubblici, trasporti, banche, e anche nei call center. I pensionati hanno approvato con il 90% dei consensi».

Però c’è il no forte dei metalmeccanici.

«Bisogna leggere attentamente i risultati e commentarli serenamente. Il dato che più mi ha colpito è la buona affermazione del sì tra i meccanici: il risultato è più favorevole questa volta rispetto al referendum di 12 anni fa, con la differenza però che allora la Fiom era a favore e questa volta, invece, è contro. Tra i metalmeccanici i sì vincono in Lombardia, in Veneto, in Liguria. Il no è concentrato nelle fabbriche Fiat, dove prevale con risultati schiaccianti. Altre grandi fabbriche hanno votato no, ma altre hanno detto sì come l’Ilva di Taranto, le Acciaierie di Terni, i Cantieri di Palermo, il Nuovo Pignone di Firenze, la St di Agrate, la Gd di Bologna».

Alla Fiat prendete fischi e gli operai votano no, esiste un caso Fiat per il sindacato?

«Certo, esiste. Non pesa solo il no della Fiom, c’è dell’altro: la condizione di vita degli operai, l’intensificazione del lavoro in fabbrica, i ritmi, lo sfruttamento, un sistema gerarchico di comando molto forte. E c’è anche un’idea di isolamento, di chi si sente senza speranza, che si autoalimenta tra i lavoratori di quelle fabbriche. In più mettiamoci la disillusione verso un governo di centrosinistra da cui ci si attendeva molto di più. Il sindacato deve riprendere l’iniziativa, dobbiamo far sentire la nostra vicinanza, di categoria e di confederazioni, a questi lavoratori che non possono essere soddisfatti della loro condizione».

Il no operaio, secondo alcuni, sarebbe espressione del diffuso disagio presente nelle fabbriche. È così?

«Non sono d’accordo. Il disagio è diffuso tra molti lavoratori, c’è anche tra chi ha votato sì. Può essere, ad esempio, che la lavoratrice di un’impresa di pulizia soffra un disagio più pesante di un metalmeccanico: per alcuni il malessere si è espresso con un no, altri hanno preferito esprimerlo dando fiducia al sindacato».

E i brogli?

«Ai brogli non ci crede nemmeno chi ha lanciato l’accusa. Ma chi ha parlato di brogli, cercando di infangare una grande prova di democrazia, se ne deve assumere la responsabilità. È stato un fatto grave, così come giudico grave il comportamento dei mezzi di comunicazione».

Si riferisce all’onorevole Rizzo a “Porta a Porta” e ai brogli artificiali di Santoro?

«Ci sono stati episodi intollerabili. E c’è stato un comportamento singolare di tv e grandi giornali. Prima hanno negato l’informazione sui contenuti dell’accordo, esaltando il malessere e anche il più piccolo dissenso, fino al punto che qualche giornalista mi chiedeva sorpreso alla fine di pacifiche assemblee perché non ero stato fischiato. Poi, giornali e tv hanno fatto la gara a sparare contro i sindacati, veicolando insostenibili accuse senza alcuna verifica, cercando di organizzare brogli per scandalizzare in tv, e dando spazio agli avvelenatori di acque che immaginavano una realtà inventata».

L’esito del referendum rafforza il governo?

«Il voto rafforza il sindacato che è stato premiato per la sua scelta di unità. In un paese lacerato dalla rissosità della politica, dalle derive istituzionali, dalle divisioni quotidiane, l’esito del referendum offre una speranza per il futuro e consegna al sindacato la richiesta di autonomia e di unità»

Ma il governo?

«Prodi è più forte se è in grado di governare bene e in maniera più solidale. Dipende dalla sua maggioranza. Il centrosinistra dimostri ora di saper governare. La forza del sì e l’unità del sindacato potrebbero diventare un problema per un governo debole, incapace di rispondere alle attese di milioni di lavoratori e pensionati. Il governo ha davanti due prove importanti: la trasformazione in legge del protocollo welfare, il percorso della Finanziaria. Il protocollo può essere corretto solo per dare più efficacia ai punti sottoscritti, ma le eventuali modifiche vanno concordate con Cgil, Cisl e Uil».

Draghi, Almunia, Confindustria hanno iniziato a sparare sulla Finanziaria.

«Stiamo meglio rispetto a due anni fa e non peggio, se lo devono ricordare tutti. Gli obiettivi di rientro del debito sono quelli concordati e sono stati rispettati. Per qualificare la spesa pubblica ci vuole tempo e una coerente azione di governo. Mi auguro che Prodi e la sua maggioranza possano fronteggiare le richieste che arrivano dal Paese».

Lei ha visto Montezemolo, c’è qualche segreto?

«Niente di strano. Era un incontro programmato da tempo. Abbiamo ragionato su come riprendere temi di interesse comune, a partire dai problemi fiscali e del lavoro dipendente, il Mezzogiorno, la Finanziaria».

Il referendum porterà qualche novità in casa Cgil?

«La prossima settimana faremo i direttivi unitari. Poi il 22 e il 23 ottobre la Cgil riunirà il comitato direttivo per fare una valutazione su tutto: il voto, la partecipazione, l’unità confederale. Penso che sarà un appuntamento importante e impegnativo per noi, per arrivare a un profondo chiarimento interno».

Il segretario della Fiom, Rinaldini, andrà alla manifestazione del 20 ottobre.
«Non è una novità. Tutti sono liberi. La mia opinione sulla manifestazione del 20 ottobre non cambia, continuo a non capirne il senso».

Domenica prossima c’è un’altra consultazione: le primarie del partito democratico. Che cosa si attende?

«Il referendum ha dimostrato che, in un paese che pur appare sfiduciato, ci sono energie forti capaci di mobilitarsi per un progetto alto, di partecipazione e di democrazia. Sono curioso di vedere la controprova il 14 ottobre».

di Rinaldo Gianola da l' Unità del 12 ottobre 2007