giovedì 18 giugno 2009

A Cuba si vota, meglio che da noi

Caro Severgnini,
è con immenso orgoglio che propongo uno scoop ai lettori di "Italians": nelle giornate di domenica 21 e 28 ottobre a Cuba si vota. Ma come - direte in parecchi a questo punto - Cuba non era una feroce dittatura? E da quando in qua nelle feroci dittature si vota? Se parliamo di Cuba, lì lo si fa da una trentina d’anni. 8,3 milioni di elettori maggiori di 16 anni rinnoveranno con voto diretto e segreto i 15.236 componenti delle Assemblee municipali del potere popolare, che in base alla legge elettorale cubana staranno in carica per due anni e mezzo. In ciascuno dei 169 municipi cubani, più quello speciale dell'isola della Gioventù, la popolazione sarà suddivisa secondo il numero di abitanti in circoscrizioni, ognuna delle quali esprimerà un delegato, il cui insieme darà vita al consiglio popolare.
Vabbè, ma lì c’è un solo partito - continuerete a pensare in molti - quindi le elezioni sono finte. In effetti il partito è unico. Ma, mentre da noi ci sono tanti partiti e non c’è la possibilità di scegliere direttamente la persona da votare, a Cuba c’è un solo partito (orrore) all’interno del quale però si può scegliere chi si vuole. Sì, ma se uno non si riconosce in quel partito, non può candidarsi, obbietterete a questo punto in tanti. E perché da noi cosa succederebbe a qualcuno che volesse candidarsi e non si riconoscesse nelle logiche capitalistiche, di mercato, di primazìa della finanza sulla politica, del profitto sulla solidarietà (unico vero grande partito esistente dalle nostre parti)? Insomma, alla fine è così vero che avere molti partiti significhi più libertà di scelta? Non ne sarei tanto sicuro se è vero che «sotto sotto sono tutti uguali» (non è forse così che dicono tutti in giro?).

di Mirko Fabbri da il Corriere della Sera del 26 ottobre 2007

martedì 16 giugno 2009

Perché il vento della crisi spazza via la sinistra europea

Il mondo del lavoro ha perso le tutele di cui ha goduto in passato E di fronte alla debolezza delle forze sindacali per difendersi può solo scegliere strade individuali. I dati sono preoccupanti: a ingrossare le file dell´astensionismo sono stati proprio gli elettori tradizionalmente più affezionati alla sinistra i giovani e i ceti popolari. La sconfitta generale nelle ultime elezioni per il Parlamento di Strasburgo costringe le socialdemocrazie a ripensare il loro orizzonte teorico e politico.

Il risultato delle elezioni europee, che ha penalizzato la sinistra, suscita due interrogativi cruciali: il primo è sul suo attuale stato di salute, il secondo sul suo futuro che riguarda ormai il post-socialismo. Si delineano due risposte di segno contrario. La prima relativizza l´insuccesso e insiste sul carattere particolare di questa consultazione elettorale, rinviando alle specificità dei singoli Paesi e ricordando che la storia della sinistra registra un alternarsi ininterrotto di cicli ora favorevoli, ora negativi. La seconda, pur riconoscendo la pertinenza dei suddetti argomenti, vede in queste elezioni europee – peraltro precedute da altre batoste – una sconfitta storica. Ed è quest´ultima risposta che dobbiamo prendere in considerazione.
Di fatto, la sinistra riformista ha dovuto incassare ben sedici sconfitte, alcune delle quali di considerevole portata, che colpiscono le sue formazioni più importanti e emblematiche.
La sinistra è colpita, a prescindere dalla sua attuale collocazione – all´opposizione, sola al potere o associata a coalizioni di governo – e indipendentemente dalla sua traiettoria storica. Come spiegare un tale disastro? Mettendo insieme una serie di considerazioni di fatto, di ragioni congiunturali e di fattori più strutturali.
Il record di astensioni registrato alle elezioni europee è riconducibile all´elettorato prediletto dalla sinistra: i giovani e soprattutto i ceti popolari e operai e gli elettori ai livelli di istruzione più modesti, che sono oggi i più depoliticizzati, e i meno interessati all´Europa. I simpatizzanti della sinistra che si sono recati alle urne hanno disperso i loro voti. Chi vede nell´Ue la causa di ogni sua attuale difficoltà ha votato per i partiti euroscettici, o magari per quelli xenofobi e populisti, come sembra sia stato il caso per una parte dell´elettorato popolare. I moderati, più volatili e incerti che mai, hanno optato per le formazioni di centro-destra. Gli europei con redditi assicurati e un alto livello di istruzione, più aperti al mondo, hanno preferito i Verdi (progrediti in alcuni Paesi, tra cui la Francia) ritenendo che oggi i temi prioritari siano quelli dell´ecologia e dell´ambiente.
È inoltre emerso un paradosso significativo: lungi dal favorirla, la crisi finanziaria ed economica ha anzi danneggiato la sinistra, che pure era convinta di doverne trarre vantaggio, poiché l´attuale congiuntura segna la fine delle illusioni sui benefici dell´economia di mercato e il crollo del mito liberista, con la necessità di regole emananti dallo Stato e di politiche sociali. Il Partito socialista europeo non aveva peraltro incontrato particolari difficoltà nel varo di un manifesto comune, e la sua campagna era focalizzata sull´Europa sociale. Anche la sinistra radicale credeva che fosse venuto il suo momento, per fustigare da un lato il capitalismo e dall´altro il riformismo, reo di tutti i tradimenti; mentre pur avendo riportato qualche progresso, in totale avrà dieci deputati in meno nel futuro parlamento europeo. Ma come mai non si è dato ascolto alle sinistre? Innanzitutto, come scriveva Bernardo Valli su Repubblica del 9 giugno, perché la destra, dando prova di grande pragmatismo, ha smesso di richiamarsi al neoliberismo – al quale in verità l´Europa non si era mai convertita – per adottare posizioni protezioniste; e non ha esitato a far propri i temi della sinistra.
Inoltre – e soprattutto – la sinistra ha mostrato una tendenza a leggere il presente attraverso gli occhiali del passato, senza cogliere tutta la complessità di questa crisi, rivelatrice delle mutazioni ben più profonde che travagliano da decenni le nostre società. Crisi vuol dire disoccupazione, sperequazioni sociali crescenti, inasprimento della povertà; eppure, almeno per il momento questa crisi non ha suscitato importanti mobilitazioni collettive. Perché si ha paura. Perché i sindacati sono indeboliti. Perché c´è stata un´evoluzione nelle relazioni sociali all´interno delle imprese. Perché il mondo del lavoro è cambiato. Perché la precarizzazione è ormai generalizzata. Di conseguenza molti europei, deliberatamente o per forza maggiore, tentano ancora strategie individuali di sopravvivenza e di adattamento; e vorrebbero considerarsi liberi e indipendenti, pur avendo forti esigenze di protezione. Quanto agli anziani – peraltro sempre più numerosi – sono sensibili a temi quali la sicurezza e l´immigrazione; e molti aspirano a rifondare la propria identità. Infine, a loro volta anche i nostri regimi politici hanno subito una profonda trasformazione, in particolare con l´affermarsi della democrazia del pubblico e dell´opinione, in cui il ruolo del leader è decisivo. Ed è chiaro che da un decennio, in questo campo tutta la sinistra soffre di un deficit flagrante.
La sinistra riformista non è rimasta né immobile né muta. Ha rifiutato di riesumare, come fa la sinistra radicale, le vecchie ricette del passato; ha esplorato altre vie, tentando di rivolgersi a nuove fasce di elettori. Ma a fronte di una destra unita, capace di proposte incisive, decisa a imporre un´egemonia culturale e a rispondere al bisogno d´identità che si manifesta negli europei, si presenta divisa, sulla difensiva, senza progettualità né identità, priva di leader, poco credibile, non in sintonia con le trasformazioni in atto. Perciò la sinistra riformista ha una priorità: quella di avviare al più presto una riflessione approfondita sui fondamenti e le modalità del suo riformismo, e analizzare la complessità dei cambiamenti in atto nelle società e nelle nostre democrazie. Pena la sua scomparsa.

di Marc Lazar da la Repubblica del 16 giugno 2009
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

venerdì 12 giugno 2009