domenica 17 maggio 2009

Il gene è diventato altruista

Neuroscienze - Le immagini in diretta dei neuroni rivelano i segreti delle decisioni morali. I principi etici preesistono alle religioni, come un circuito innato, simile a quello del linguaggio. Altro che egoismo, siamo programmati per collaborare e innamorarci. La " bontà " nasce dall'interazione tra la corteccia razionale e la sede delle emozioni.

Il bello degli scienziati è che sono le uniche persone disposte a cambiare idea. Ma è ancora più straordinario che molti test sostengano quello che quasi tutti ritengono irrealistico : gli umani sono fondamentalmente buoni. Siamo stati programmati per collaborare, aiutarci anziché farci fuori, costruire gruppi sociali stabili e perfino innamorarci. Merito dell'evoluzione, la scoperta che rovina il sonno a tanti uomini e donne di fede che bollano Darwin come un'anima perduta.
Di sorpresa in sorpresa, la scienza mette il naso nella filosofia, nell'etica e nella religione e costruisce una provocatoria immagine dell'essere umano, buttando all'aria alcune migliaia di anni di meditazioni tutt'altro che scontate. E lo fa rimettendo in gioco anche le proprie interpretazioni. Tra gli anni 70 e poco tempo fa, seguiva il " mainstream " del biologo evoluzionista Richard Dawkins ( ancora evoluzionismo ! ) e sosteneva che gli organismi - noi compresi - sono preda del cosidetto " gene egoista ". La sua frase preferita diceva " La qualità predominante di un gene che ha successo è l'egoismo senza scrupoli. E' questo gene alla base della cattiveria nei comportamenti individuali ".
Oggi non è più così. Le tecnologie di ultima generazione che osservano il funzionamento del cervello in diretta, insieme con l'esplosione delle neuroscienze che si divertono a sezionarne aspetti e abilità sempre più specifici, sostengono l'opposto : i principi etici, invece che un prodotto delle religioni, preesistono a queste , come un circuito innato, parallelo al " software " del linguaggio ( teorizzato dal prof. del Mit Noam Chomsky ). Una prova è il test di Marc Hauser, lo psicologo evoluzionista di Harward, che ha ideato la formula delle " menti morali " ( ecco di nuovo comparire Darwin ). Come una smentita postuma di Dawkins, la spiega così . " Mi vengono dati 10 dollari per fare un'offerta a un estraneo che non rivedrò mai piu. Dovrò consegnarli la cifra pattuita e tenermi il resto. Ma, se rifiuta, nessuno dei due avrà niente ".
Ed ecco l'ennesimo colpo di scena. " Da un punto di vista razionale, dovrei dare la cifra minima possibile. E invece la maggior parte delle "cavie " propone 5 dollari. E quando la cifra è decisamente inferiore, l'altro tende a dire no". E' una delle evidenze - sostiene Hauser - che la mente si è formata "con una serie di meccanismi regolatori in grado di bilanciare l'egocentrismo sfrenato ".
L'aspetto straordinario è che, al di là della statistica, è l' "imaging" dei neuroni a spiegare il segreto. Le decisioni "morali" - e lo confermano altri colleghi, a cominciare da Antonio Damasio, neuroscienziato alla University of Southern California - non sono prese solo dalla corteccia razionale, ma anche e inevitabilmente dal sistema limbico, sede delle emozioni. Ad attivarsi è un mix.
Significa che la sola ragione ci spinge alla rozza avidità alla Dawkins ( e all'estremo anche all'assassinio ). E' invece il sofisticato pacchetto apparentemente irrazionale - formato da 4 categorie di sentimenti, dalla rabbia fino alla compassione, secondo le ricerche dello psicologo Jonathan Haidt della University of Virginia - a trasformarci in benevole creature " pro-sociali". Per Steven Pinker, psicologo cognitivista di Harward, è tutto chiaro : " Si tratta di meccanismi adattativi per rendere possibile la cooperazione ".
E questa, di metamorfosi in metamorfosi, può sublimarsi in amore : osservando le interazioni dei neuroni, Semir Zeki, neurobiologo dello University College a Londra, si è convinto che l'elaborazione degli ideali - lungo un percorso cangiante che si muove dalla creazione artistica fino ai sentimenti, appunto - è l'inevitabile espressione del nostro modo di acquisire conoscenza, che può gestire enormi masse di dati solo attraverso la sintesi. Le neuroscienze, con lui, inaugurano l'era della neuroestetica e espandono il raggio della neuropsicologia. Siamo esseri sociali e , se non bastasse, ci vincola un'idea di amore romantico che è una costante universale, come confermano le frustranti confessioni dei poeti.
Sorpresa finale : che il gene si dimostri egoista o generoso - sottolinea Piergiorgio Strata, presidente dell'Istituto Nazionale di neuroscienze - la nostra libertà scorre entro limiti ristretti, geneticamente determinati. E' del Nobel della medicina Roger Sperry la crudele metafora della ruota : al pari dei nostri schemi mentali può correre o rallentare, ma è la sua geometria che si impone sempre sulle molecole, determinandone il comportamento.

di Gabriele Beccaria da La Stampa del 11 giugno 2008

giovedì 14 maggio 2009

I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)

Qual è il destino dei parlamenti nell'età dell'informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell'antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all'altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l'insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
- evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
- evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
-evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
- evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
- evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l'età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l'opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell'eguaglianza.
Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l'efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l'insidia della sorveglianza. E' necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l'espressione digital divide, ed effettivamente l'uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l'emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell'informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l'accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l'esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell'anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi.
Internet è il più grande spazio pubblico che l'umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d'epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l'acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l'effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d'intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l'ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società.
In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti.
Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l'argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.

Questo è il discorso che Stefano Rodotà ha tenuto a Montecitorio per l'apertura della Conferenza internazionale dell'Unione interparlamentare (6 marzo 2007)

I CERVELLONI DI HARWARD I cervelloni di Harward: " Punire è inutile, lo fanno solo i perdenti "

NELLA SIMULAZIONE GUADAGNAVA PUNTI CHI COLLABORAVA CON GLI AVVERSARI.
"Il castigo non aiuta a ottenere risultati. Serve solo a ribadire una rigida gerarchia".

L'avessero detto agli aguzzini di Abu Ghraib, forse si sarebbero trattenuti un po'. Punire non serve a niente, è un comportamento da perdenti. La verità psicologica e sociologica , che prigionieri e sottoposti di tutto il mondo avevano già intuito, è ora certificata da uno studio dell'Università di Harward, condotto da Martin Nowak E pubblicato su Nature. I ricercatori hanno riunito un gruppo di volontari e li hanno vagliati con una serie di giochi di ruolo (non torture) per capire quali erano i comportamenti più efficienti in un gruppo o in una catena gerarchica.
L'esperimento chiave è stato il " Dilemma del prigioniero ", un modello già studiato in economia e sociologia.
Nella versione del gioco utilizzata nell'esperimento, i volontari avevano diverse opzioni di vincita o perdita, collegate alle mosse degli altri. Ciascun giocatore poteva decidere di " cooperare " con gli avversari (perdendo una moneta , ma facendone vincere due agli avversari), di pensare solo ai propri interessi e quindi vincere facendo perdere il suo avversario, di punire l'avversario, autotassandosi di una moneta e facendo perdere al " nemico " quattro monete.
Alla fine i cinque giocatori meglio piazzati erano quelli che avevano scelto di non punire mai. All'estremo opposto si sono piazzati quelli che avevano uato la punizione frequentemente.
Il castigo insomma NON SERVE A PROMUOVERE LA COOPERAZIONE, MA CORRISPONDE AD ALTRE ESIGENZE, COME QUELLA DI RINFORZARE UNA GERARCHIA DI COMANDO O DIFENDERE UNA PROPRIETA'.
"I vincenti non puniscono", ha sintetizzato David G. Rand, uno dei ricercatori dell'Università di Harward.
Non lo fanno perché il castigo genera una spirale di vendetta, che può avere conseguenze distruttive. "In una società competitiva come quella di oggi - conclude -, chi sceglie di punire, perde, vittima della sua stessa arma".

Studio pubblicato su "Nature"

mercoledì 13 maggio 2009

Se vengono meno i principi della democrazia

Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un´inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell´Ateneo di Torino.
Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.
Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s´intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l´orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall´alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.
Queste tre libertà sono l´espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c´è il riconoscimento dell´uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c´è l´idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c´è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell´uomo in società.
Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c´è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.
Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell´umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l´Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.

di Norberto Bobbio

Chi ama e chi no le pulizie di Pasqua

Il deluso popolo di sinistra, i tanti che si sentono "esuli in patria", per dirla con Ilvo Diamanti, ancora mostrano, tuttavia, ogni qualvolta se ne presenti l' occasione, una insospettata voglia di dire la loro, di partecipare e contare qualcosa nel dibattito politico. Mi hanno colpito in questo senso le singolari reazioni alla "Linea di confine" del 2 marzo in cui davo conto dell' iniziativa di uno studioso del Cnr (Stefano Calabretta: http://doparie.it) di promuovere, oltre alle primarie per la scelta diretta dei candidati, le "doparie", una consultazione referendaria interna ad un partito o ad una coalizione, sia su scala nazionale che locale, per decidere a maggioranza, una volta l' anno in un apposito election day, sulle più importanti questioni che dividono l' opinione pubblica afferente al Pd (dal testamento biologico alla linea tranviaria a Firenze). Dubitavo che la proposta cadesse nell' indifferenza che suscita l' ingegneria istituzionale, ma forse sbagliavo perché ancora non colgo davvero la potenza dirompente di Internet. La rete ha cominciato, infatti, a raccogliere e rilanciare l' idea: dai "cittadini per l' Ulivo" del Friuli Venezia Giulia al comitato per le primarie aperte di San Giovanni in Fiore (Cosenza) e a diversi blog, in genere di militanti pd. Si è manifestata così una rispondenza tendente a appropriarsi di un nuovo percorso di democrazia diretta e partecipata. Confortante anche il contenuto delle e-mail alla nostra rubrica. Il prof. Mario Staibano, primario cardiochirurgo ed ora responsabile Sanità dell' Italia dei Valori: «In un momento di vuoto di idee e di drammatico calo di interesse per la politica, solo il recupero di una democrazia partecipativa può far sperare in una riscossa. L' introduzione delle doparie nelle questioni della sanità avrebbe rappresentato un freno alla invadenza politica negli ospedali, da tutti invano criticata». Laura Saggio, studentessa universitaria: «Le primarie da sole non bastano più. Ioe altri studenti universitari di Roma stiamo pensando di organizzare una primaria simbolica su un tema caldo che ha diviso le opinioni all' interno della coalizione Pd, come il testamento biologico. Quello che vogliamo è che il partito che abbiamo sostenuto e votato trovi il coraggio di consultarci. Ma al Pd interessa ancora la nostra opinione?». Infine Giuseppe Civati, di Milano, titolare di un blog molto frequentato, ha in animo di inserire l' idea delle doparie nel documento che con altri amici presenterà all' assemblea dei circoli Pd, convocata per il 31 a Roma. Una critica drastica, peraltro espressa in termini lusinghieri, quella di Lanfranco Pace sul Foglio del 6 marzo. Mondo dalle giovanili simpatie per il partito armato, l' articolista analizza la proposta «di fare una volta l' anno, un po' come si fanno le pulizie di Pasqua, un referendum interno sui punti controversi... con strumenti tutti giovanili e molto obamiani.... Eppure - prosegue - il rimedio è peggiore del male... Fra le tante iatture che potrebbero abbattersi su partiti già caratterizzati da alto grado di indecisione e di litigiosità interna, quella di rivolgersi a iscritti ed elettori, che anche se diminuiscono son pur sempre milioni... riduce la politica a registrazione notarile, senza metterla in riparo dal popolo, che se è grande in generale può essere perfetto bue nel particolare. Se anziché procedere da solo e con coraggio alla abolizione della pena di morte, Mitterrand avesse chiesto lumi ai suoi elettori, in Francia ci sarebbe ancora la ghigliottina». Evidentemente il lungo esilio francese ha lasciato qualche traccia nella mente di Lanfraco Pace: non si accorge che da noia sinistra non esiste alcun Mitterrand, in grado di procedere da solo, mentre a destra vi è Berlusconi, che potrebbe, se ne avesse voglia, reintrodurre la pena di morte col voto del solo capogruppo di maggioranza, stando alle sue trovate costituzionali.

di Mario Pirani da la Repubblica del 16 marzo 2009

sabato 9 maggio 2009

Un rischio la vittoria dei Sì

La disputa sulle date del referendum sta per esaurirsi; si può perciò cominciare a parlare del merito. Gli intenti che spinsero i referendari ad assumere l'iniziativa nel 2007 erano più che lodevoli. Di fronte al rischio che il panorama rissoso delle coalizioni proprio della scorsa legislatura diventasse un carattere strutturale del nostro sistema politico, proposero di liquidare quelle coalizioni attribuendo il premio di maggioranza alla sola lista vincente. In ogni scelta politica ci sono vantaggi e danni. Allora i vantaggi erano superiori ai danni.
Ora, però, il superamento di quel tipo di coalizioni è avvenuto per via politica. Nel 2008 Veltroni, con coraggio, si coalizzò con la sola Idv e Berlusconi lo seguì stringendo un patto solo con la Lega. E' difficile pensare che si possa tornare alle carovane di un tempo: i primi a ribellarsi sarebbero gli elettori. Perciò, guadagnati per via politica i vantaggi che si volevano conseguire attraverso il referendum, bisogna fare i conti con i danni.
Il quesito principale intende attribuire il premio di maggioranza alla lista che abbia preso più voti: la lista vincente alla Camera o al Senato, in ipotesi anche solo con il 30% dei voti, otterrebbe il 55% dei seggi. Già oggi non gli elettori, ma i capi dei partiti, caso unico nel mondo avanzato, hanno il potere di scegliere i componenti del Parlamento. Il referendum conferma questa loro prerogativa e anzi la potenzia perché mette nelle mani di un solo uomo, il capo del partito vincente, chiunque esso sia, la scelta della maggioranza assoluta dei parlamentari. Le preoccupazioni aumentano quando si guarda agli statuti dei partiti e alle prassi che caratterizzano la loro vita interna: ben pochi partiti politici oggi potrebbero definirsi democratici, visto che molti funzionano con modalità carismatiche e populiste. Se domani vincesse il Sì, un solo partito, in netta minoranza nel Paese, diventerebbe maggioranza assoluta in Parlamento e potrebbe ad esempio, da solo, eleggere il Capo dello Stato, impossessarsi dei mezzi d'informazione, cambiare secondo le proprie convenienze la legge elettorale e i regolamenti parlamentari. Il Parlamento diventerebbe una protesi del governo, anzi del presidente del Consiglio, chiunque esso sia.
Oggi la maggioranza Pdl-Lega assicura una certa dialettica politica che non blocca la democrazia ma favorisce il confronto; lo stesso sarebbe accaduto se avesse vinto la coalizione Pd-Idv. Se domani, grazie al referendum, governasse solo il Pdl o solo il PD la democrazia sarebbe più salda? Il bipartitismo non è una bestemmia, ma esige un sistema elettorale che dia ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari e regole democratiche in tutti i principali partiti. Queste condizioni oggi non ci sono e pertanto il bipartitismo che verrebbe fuori dal referendum consoliderebbe in realtà le attuali oligarchie.
Mi sembra assai rischioso sostenere che conviene far vincere il Si per potere poi cambiare la legge Calderoli. Se davvero ci fosse una maggioranza per cambiare la legge elettorale, perché non la si è cambiata tempestivamente, anche per evitare il referendum? In realtà oggi non c'è una maggioranza per una nuova legge elettorale ed è difficile che possa esserci domani, quando i vincenti avrebbero nelle proprie mani tutto il potere.

di Luciano Violante da La Stampa del 16 aprile 2009

venerdì 8 maggio 2009

Boicottiamo il referendum

Pare che molti nel centrosinistra siano orientati a votare Sì nel referendum Guzzetta. Spero che cambino idea.
Non c’è una sola ragione al mondo per votare in quel senso. Il quesito del referendum è stato rappresentato come un tentativo di eliminare gli effetti negativi della legge Calderoli. Non è affatto vero. Se accolto produrrebbe un secco peggioramento della legge: il passaggio automatico da un bipolarismo coatto a un bipartitismo coatto. E non solo: la lista di partito che prende più voti ottiene la maggioranza assoluta dei seggi.
C’è chi ripete che una riforma non deve essere giudicata in base alla contingenza ma per i suoi effetti di sistema. L’assunto può avere senso in una democrazia normale, ma in Italia non c’è una democrazia normale. Non si capisce perché si dovrebbe giudicare la soluzione Guzzetta trascurando le sue conseguenze nei prossimi dieci o venti anni. Dopo ciò che accadrà in questo periodo gli effetti di sistema della legge uscita dal referendum avrebbero l’efficacia di una medicina sul corpo del morto. Perché?
Perché nelle condizioni date oggi in Italia, il successo del Sì ha un solo significato: la vittoria definitiva di Berlusconi. Se passa il Sì potrà sostenere che si deve andare a elezioni anticipate con la nuova legge elettorale. Il PdL vincerà e otterrà una maggioranza schiacciante che gli permetterà di fare ciò che vuole. D’Alema e molti altri sostengono che se vince il Sì sarà necessario scrivere una nuova legge elettorale. L’ipotesi è già stata smentita dal PdL: la legge cambiata dal Sì sarà immediatamente applicabile e applicata.
La Lega ha capito benissimo che così perderà ogni potere di condizionamento sul centrodestra e che il PdL potrà governare da solo. Perciò si oppone con decisione. E se davvero Berlusconi fosse intenzionato a far votare Sì, la Lega non avrebbe forse altra scelta che far cadere il governo prima del referendum. Che lo faccia o no dipenderà dalla sua volontà. Ma in ogni caso nelle sue file l’allarme è suonato.
Non si capisce invece perché i partiti del centrosinistra dovrebbero scegliere un voto che li avvia a un sereno suicidio. Il PD può accampare il motivo di aver da tempo sostenuto la validità di una soluzione molto bipolare. Ma a questo punto dovrebbe essersi reso conto che la scelta “coraggiosa” di andare da solo lo fa passare solo da una sconfitta all’altra. Da parte sua IdV può giustificare la scelta del Sì solo perché aveva raccolto le firme per il referendum. Ma oggi è assai più chiaro di allora che la soluzione Guzzetta è un netto peggioramento della legge Calderoli. Dunque perché insistere? E poi la coerenza verso una scelta infelice e ormai superata vale molto di meno della coerenza dovuta alla propria vocazione: sì alla democrazia pluralistica, no al potere unico.
In ogni caso PD e IdV devono confrontarsi con un futuro già segnato. Se vincerà il Sì, dopo elezioni anticipate Berlusconi avrà da solo il pieno possesso del Parlamento. Cambierà la Costituzione e la Corte Costituzionale. Diventerà presidente della repubblica con accresciuti poteri. Le assemblee elettive, che già oggi contano ben poco, diventeranno l’arredo di contorno del presidenzialismo. La democrazia italiana sarà sfigurata per sempre.
Di fronte a questa prospettiva non si può nemmeno propagandare il No. Lo schieramento a favore del Sì, anche senza l’inclinazione al suicidio del centrosinistra, è già abbastanza temibile. Si deve sperare che il 21 giugno sia una data che di per sé scoraggi la partecipazione popolare e occorre mobilitarsi con tutte le nostre forze per far mancare il quorum. Non si tratta di dire: andate al mare. Si deve spiegare con cura estrema: la soluzione Guzzetta dà tutto il potere in mano a chi ha già il pieno dominio sui mezzi di comunicazione. Questa non è democrazia. E’ instaurazione di un potere plebiscitario assoluto.
Far mancare il quorum non è manifestazione di indifferenza. E’ difesa attiva della democrazia.

di Pancho Pardi