martedì 20 novembre 2007

Una Carta dei diritti per l'universo di Internet

Quasi nelle stesse ore in cui a New York una commissione dell´Onu approvava con uno storico voto la proposta di moratoria della pena di morte, a Rio de Janeiro il rappresentante delle stesse Nazioni Unite chiudeva il grande Internet Governance Forum affermando che i molti problemi che si pongono in rete richiedono un Internet Bill of Rights. Accosto questi avvenimenti, che possono apparire lontani e qualitativamente assai diversi, per tre ragioni. In entrambi i casi è balzata in primo piano l´importanza di una politica globale dei diritti. In entrambi i casi non siamo di fronte ad un definitivo punto d´arrivo, ma ad un processo che richiede intelligenza e determinazione politica. In entrambi i casi il risultato è stato reso possibile da una lungimirante iniziativa italiana.
Per la pena di morte si trattava di onorare una primogenitura culturale, quasi un dovere verso una storia che porta il nome di Cesare Beccaria e della Toscana, primo Stato al mondo ad abolire nel 1786 quella pena, "conveniente solo ai popoli barbari", come si espresse il Granduca Pietro Leopoldo. Tutta diversa la situazione riguardante Internet, visto che l´Italia non può certo essere considerata un paese di punta nel mondo dell´innovazione scientifica e tecnologica. E tuttavia proprio da qui è partito, negli ultimi due anni, un movimento che ha progressivamente coinvolto ovunque settori sempre più larghi, dimostrando così che la buona cultura è indispensabile per una buona politica. Quale politica, allora? Il risultato finale di Rio è stato possibile grazie anche al fatto che, un giorno prima, era venuta una dichiarazione congiunta dei governi brasiliano e italiano che indicava proprio nell´Internet Bill of Rights lo strumento per garantire libertà e diritti nel più grande spazio pubblico che l´umanità abbia mai conosciuto.
Ma questa svolta, assai significativa, esige ora una adeguata capacità di azione.Nelle discussioni che hanno preceduto la dichiarazione, il ministro brasiliano della cultura, Gilberto Gil, aveva esplicitamente evocato la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Siamo di fronte ad una situazione che sta diventando paradossale. Ancora sottovalutata e osteggiata da più d´uno in Europa, la Carta sta diventando un punto di riferimento costante per tutti quelli che, in giro per il mondo, sono impegnati nella costruzione di un nuovo sistema di garanzia dei diritti, tanto che studiosi statunitensi hanno parlato di un "sogno europeo" che prende il posto del loro "sogno americano". E´ tempo, dunque, che l´Unione europea abbia piena consapevolezza di questa sua forza e responsabilità verso l´intera "comunità umana", com´è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta dei diritti. Proprio perché conosciamo bene i limiti dell´influenza dell´Europa, il suo futuro politico si lega sempre più nettamente alla capacità d´essere protagonista di questa planetaria "lotta per i diritti"
In questa prospettiva, l´Internet Bill of Rights fornisce una occasione preziosa. Proprio perché dall´Onu è venuta una insperata apertura, è indispensabile rafforzare e rendere concreto il processo così avviato. Indico le prime tappe di questo cammino. La dichiarazione italo-brasiliana è aperta all´adesione di altri Paesi. Non è una operazione facile. Ma il ministro degli Esteri ha dato prova di grande intelligenza politica nel guidare il processo verso il voto sulla moratoria della pena di morte, sì che si può pensare che non sarà indifferente rispetto a questa diversa opportunità.
Più agevole dovrebbe essere una azione volta a far sì che, proprio come è accaduto per la moratoria, l´iniziativa italiana si risolva in una più generale presa di posizione del Parlamento europeo. Qui, tuttavia, si apre una questione più generale. Mentre la Carta dei diritti fondamentali si avvia a diventare giuridicamente vincolante, e ad essa si guarda come ad un modello, la Commissione europea prende iniziative che, anche con discutibili espedienti procedurali, limitano grandemente la tutela di diritti fondamentali, ad esempio in materia di raccolta e conservazione dei dati personali. Si deve uscire da questa schizofrenia istituzionale, che vede le grandi proclamazioni sui diritti troppo spesso contraddette da concrete e forti limitazioni, democraticamente pericolose e tecnicamente non necessarie o sproporzionate.
Una terza via d´azione riguarda le stesse Nazioni Unite. Poco tempo fa Google, consapevole della necessità di prevedere più forti garanzie per i dati personali, ha proposto l´istituzione presso l´Onu di un "Global Privacy Counsel". L´indicazione va raccolta perché offre uno spunto concreto per cominciare a riflettere sulla futura presenza dell´Onu in questo settore. Ma, soprattutto, quella proposta pone un problema più generale. Nel corso di quest´anno abbiamo assistito ad un forte attivismo del mondo economico. Oltre alla proposta di Google, vi è stata una iniziativa congiunta di Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone, che hanno annunciato per la fine dell´anno la pubblicazione di una Carta per tutelare la libertà di espressione su Internet. In luglio Microsoft ha presentato i suoi Privacy Principles. Ma è possibile lasciare la tutela dei diritti fondamentali su Internet soltanto all´iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche "istituzioni" capaci di intervenire? Si può accettare una privatizzazione della governance di Internet o è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel?
L´Internet Bill of Rights, infatti, non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali. La scelta dell´antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie "costituzionali". Non dimentichiamo che Amnesty Internacional ha denunciato il moltiplicarsi dei casi di censura, "un virus che può cambiare la natura di Internet, rendendola irriconoscibile" se non saranno prese misure adeguate. Ma, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall´alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che si sono già materializzati nella forma di "dynamic coalitions", gruppi di diversa natura, nati spontaneamente in rete e che proprio a Rio hanno trovato una prima occasione di confronto, di lavoro comune, di diretta influenza sulle decisioni. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all´integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l´Unione europea, la regione del mondo dove più intensa è la tutela dei diritti.
Le obiezioni tradizionali - chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? - appartengono al passato, non si rendono conto che "la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale", come ha scritto benissimo Antonio Cassese commentando il voto sulla pena di morte. Nel momento stesso in cui il cammino dell´Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà ad essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini. Un modello che favorirà la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per la "global community of courts", per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall´innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l´unico potere opponibile alla forza degli interessi economici.
Né utopia, né fuga in avanti. Già oggi, all´indomani stesso della conferenza di Rio, molti sono all´opera e sono chiare le indicazioni per il lavoro dei prossimi mesi: inventario delle "dynamic coalitions" e creazione di una piattaforma che consenta il dialogo e la collaborazione; inventario dei molti documenti esistenti, per individuare quali possano essere i principi e i diritti alla base dell´Internet Bill of Rights (un elenco è nella dichiarazione italo-brasiliana); elaborazione di una prima bozza da discutere in rete. La semina è stata buona. Ma il raccolto verrà se saranno altrettanto fervidi gli spiriti che sosterranno le azioni future.

di Stefano Rodotà da la Repubblica del 20 Novmbre 2007

mercoledì 14 novembre 2007

Le società contemporanee e l’enigma dell’altro

La recente vicenda dei rumeni in Italia riapre antiche ossessioni
Cos´è che spinge un individuo o un gruppo sociale a crearsi un nemico virtuale

Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente.
Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l´idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive.
Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l´idea dell´umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l´una verso l´altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L´universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l´idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l´universalismo umanistico e razionalistico ha dato l´ultima spinta.
Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l´esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all´art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze.
Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo" del 1948 rappresenti, nell´essenziale, la condanna di quel modo di concepire l´umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l´appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un´altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l´uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici.
Da allora, l´idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità.
Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione?
La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l´irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena.
Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d´ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all´illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola.
Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un´ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più.
La prepotenza dei privati si accompagna per lui all´assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l´irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all´Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l´esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino).
In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all´integrazione sociale, al lavoro, all´istruzione, alla maternità…
Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio?
Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell´espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni.

di Gustavo Zagrebelsky da la Repubblica del 13 novembre 2007

sabato 10 novembre 2007

Bertinotti: «Un'altra sinistra è possibile. Anzi, obbligatoria»

Come rilanciare l'alternativa politica in Italia e in Europa senza adattarsi alla limitazione del danno e, contemporaneamente, senza riaprire le porte del potere alla destra? Tradotto: come riavere una sinistra non subalterna al centro senza far cadere Prodi e rimettere Berlusconi (o chi per lui) a palazzo Chigi? Bel busillis. Cui Fausto Bertinotti risponde con una rievocazione: «In certi momenti vale quel che dicevano gli operai a proposito degli aumenti salariali, 'Pochi, maledetti e subito è sempre meglio che niente'». Tradotto: teniamo in piedi il governo, facciamo una riforma elettorale che limiti i vincoli del maggioritario e diamo subito vita a un soggetto «unitario e plurale» della sinistra con chi ci sta. «Anche perché - va al dunque il presidente della Camera - il nostro scommettere su un circolo virtuoso tra azione di governo (riformatrice) e movimenti (che incalzano il quadro politico), è stata sfiduciata dai fatti». Cioè si è ridotta alla contrattazione del «meno peggio», mentre si divarica la forbice tra la rappresentanza politica e conflitti sociali e si erode il consenso elettorale della sinistra.

Sembra che tutta la sinistra sia un po' inadeguata. Pensa alla manifestazione del 20 ottobre: una grande partecipazione, una richiesta di «esserci» e, poi, scarsissime risposte, se non generiche, della rappresentanza. Non è questa la vera crisi della politica?
Più si constata il successo della manifestazione del 20 tanto più si vede in controluce la profondità della crisi della politica. Nel Pd e dintorni c'è stata una omissione totale di quell'evento. A sinistra c'è stato più un sollievo da scampato pericolo che un investimento politico-intellettuale, mentre ci si aspetterebbe una socializzazione di una riflessione comune su cosa è accaduto, sul perché c'era così tanta gente in piazza e con così tanta passione politica, su quali problemi sociali ciò rivela. Invece, avendo la questione del governo come problema centrale - sia per rifiutarlo che per consolidarlo - l'indagine sulla soggettività del movimento - su ciò che rappresenta e chiede - viene lasciata in secondo piano. Allora la crisi cui siamo di fronte sta nella difficoltà di trovare la soggettività politica e sociale necessaria a potere realizzare un protagonismo capace di intervenire sulla scelta dello stato, sulle scelte economiche, sulle grandi scelte dei diritti sociali, cioè nei luoghi della formazione della decisione politica. Questo mi pare il punto irrisolto.

Nel merito e nel metodo, nei contenuti e nella loro rappresentanza politica. Parlando dei primi: nel tuo editoriale dell'ultimo numero della rivista, «Alternative per il socialismo», ritorni alla centralità del lavoro. E' un ripensamento rispetto alla fase dei movimenti, seguita poi da quella della battaglia politica dentro le istituzioni?
Quei passaggi sono tutte facce dello stesso prisma. Io però riconosco che di volta in volta, se non una centralità però un bandolo della matassa andrebbe tirato e io penso che la crisi sta arrivando proprio al fondo. Se mi si chiede: ma quale è la chiave di volta dell'uscita dalla crisi? quale è la ragione prima della crisi della sinistra? Rispondo che il nodo va cercato nel rapporto fra il lavoro, la società e la politica. Non per una nuova centralità operaia, non per ignorare la critica del femminismo alla società patriarcale o quella ambientalista alla devastazione prodotta dal capitalismo, non per cancellare le storie e i contenuti dei movimenti e le loro diversità, ma perché possano collocarsi in una ipotesi di trasformazione della società e di capacità di intervento sulla decisione della politica, sul luogo strategico di decisione della politica. E secondo me hanno bisogno di ritrovare un nesso con il lavoro in tutte le sue dimensioni. Non è casuale che il successo della manifestazione del 20 sia legato alla lotta alle precarietà. E quella del lavoro non sarà asaustiva ma è paradigmatica.

Sul metodo e sulla rappresentanza politica il minimo che chiedeva la piazza del 20 ottobre era un luogo per una pratica comune, anche istituzionale.Mi sembra invece che persino su questo ci sia un tira e molla, tra identità da conservare e ruoli dirigenti da preservare... Insomma, se continua così non ci sarà né cosa rossa, né semplicemente nessuna «cosa».
Con il massimo rispetto per tutti coloro che si spendono quotidianamente nelle attività di partito, mi sembra che ci siano troppe rigidità. Capisco i problemi e le resistenze, però per questo vale il vecchio detto di Vittorio Foa quando fu tentata l'unità sindacale: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua». E' già troppo che stiamo sulla spiaggia.

C'è un passaggio politico obbligatorio, che chiama in causa i gruppi dirigenti della sinistra...
Come era la vecchia formula operaia a proposito di aumenti salariali? Pochi, maledetti ma subito. Benissimo. Come viene fuori questa «cosa»? Un po' rozza, approssimativa, ma unitaria. Tutto il resto viene subito dopo: come deve essere organizzata, che tipo di costruzione teorico-politica, la definizione del programma fondamentale... Ma bisogna partire, con chi ci sta.

Intanto la sinistra si sta logorando in una continua rincorsa alla riduzione del danno stando in un governo che non godendo di ottima salute pone spesso l'antica alternativa tra mangiare una cattiva minestra o saltare dalla finestra. Un po' logorante...
Io credo che la prosecuzione dell'attuale governo sia auspicabile, perché alcuni risultati si possono ottenere anche con la riduzione del danno, basti pensare alle recenti vicende sul pacchetto sicurezza: cosa sarebbe successo con un governo di centrodestra? Per quante critiche si possano fare alla situazione attuale, non c'è paragone. Tuttavia non possiamo non fare il bilancio di un anno e mezzo di governo e vedere - lo dico per me - che l'investimento su un rapporto inedito tra movimenti e governo per realizzare una nuova fase riformatrice, è stato contraddetto dai fatti. E, allora bisogna anche agire sul terreno dell regole istituzionali, per liberare la politica dai lacci che la imprigionano. Da una logica che impone maggioranze per riavere la possibilità di scegliere le alleanze non prodotte da una coazione.

E se non riesce a farlo questo governo, con un esecutivo istituzionale che cambi la legge elettorale? Per far sì che le alleanze si facciano in Parlamento e non in campagna elettorale?
Sì, alleanze che si annuncino prima, che si fanno in Parlamento ma che in ogni caso producono una possibilità di libertà nella scelta delle alleanze. Mentre penso che nell'attuale sistema politico istituzionale la rottura del rapporto tra la sinistra e il centrosinistra sia una tragedia, in un sistema liberato da questo vincolo del maggioritario si aprirebbe una dialettica politica più ampia, quella permessa da un sistema alla tedesca. Anche per riguadagnare la centralità del «medio termine», ed evitare che tutto sia assorbito dall'emergenza del giorno per giorno con al centro solo la sorte del governo.

Ritorniamo alla questione del governo e al ruolo della sinistra al suo interno. Per quanto può durare la strategia della riduzione del danno senza provocare danni irreparabili in termini di rappresentanza sociale e di consenso elettorale? Non è che la sinistra salvando il centrosinistra rischia di estinguersi?
Il rischio c'è, ma come fai a proporre un'uscita da sinistra? Scartiamo che si possa fare con una crisi di governo, non mi sembra che sia quello che chiede la nostra gente, lo abbiamo visto anche il 20 ottobre. Secondo me c'è uno spazio per un rilancio dell'attività di governo, attraverso una rivitalizzazione di alcuni suoi elementi programmatici da ottenere con un dibattito politico molto impegnativo, valorizzando l'iniziativa sociale - e non penso solo alle manifestazioni o al volontariato, penso alle tante pratiche politiche positive in tante parti d'Italia. E poi attraverso una verifica politica.

Stai pensando a un rimpasto di governo?
E' un terreno su cui non posso entrare. Ma credo che vada messa in campo e fatta pesare la partecipazione delle persone. Mi piacerebbe che la maggioranza inventasse, nelle forme che vuole, con l'approssimazione che crede, una sorta di verifica programmatica. Le forze della maggioranza possono pensare a un percorso di consultazione di massa, aperta, pubblica, assembleare? Credo che la sinistra avrebbe tutto da guadagnarci per contare di più e recuperare alcuni punti programmatici dell'Unione.

Però intanto ci si divide persino sulla simbologia. In un processo unitario e plurale, che ne facciamo dei simboli di ciascuno? Falce e martello in soffitta?
E' bene che ciascuno tenga per sé i propri simboli e sarebbe un male pensare che i simboli abbiano la stessa valenza temporale dei programmi o degli schieramenti. I simboli non sono legati a una contingenza e per averne di nuovi non ci si può affidarere a delle invenzioni, nascono da processi storici. E, poi, per l'immediato un nome che unisce ce l'abbiamo già. Semplice, semplice: sinistra.

Un'ultima cosa. Se te la riproponessero oggi, accetteresti la presidenza della Camera?
L'accetterei, per tre motivi. Perché permette una conoscenza delle istituzioni che troppo spesso viene sottovalutato, come ci aveva ricordato parecchi anni fa Pietro Ingrao. Perché permette di dare visibilità e far diventare elementi di battaglia politica temi sociali troppo spesso messi in secondo piano: per fare solo un esempio gli infortuni sul lavoro. E perché dodici anni di direzione di un partito sono tanti, troppi per chi la esercita, come per chi la «subisce».

di Gabriele Polo da il Manifesto del 10 novembre 2007

venerdì 9 novembre 2007

Perché non possiamo non dirci delinquenti

La parola delinquente deriva da una voce dotta del tardo latino (delinquere), che significa «venir meno, mancare o sottrarsi al proprio dovere», come ci spiega Il Grande Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. Il titolo proposto per questo articolo non vuole essere un espediente per attrarre l’attenzione del lettore, per «épater le bourgeois», come dicono i francesi, per stupire. Non c’è nessuna intenzione di fare leva sull’effetto emotivo, bensì, se possibile, cercare di costruire un discorso sul filo della ragione.
La vocazione a delinquere (sottrarsi al dovere) la riscontriamo in tutte le fasce sociali del nostro Paese, da quelle medio - alte a quelle basse. Per i ceti economicamente più elevati la conferma ci viene dall’alto tasso di evasione fiscale che non ha eguali in Europa. Imprenditori, dirigenti di aziende (i cosiddetti manager), banchieri, professionisti (medici, avvocati, ingegneri, architetti, giornalisti, notai, commercialisti), artigiani, commercianti (i cosiddetti lavoratori autonomi), risultano in base ai tanto osteggiati «studi di settore», in misura del 65% evasori parziali e per il 15% evasori totali, pari, complessivamente, all’80% della fascia economica.
Che larga parte delle persone (uomini e donne) che fanno politica si sottragga al proprio dovere è sufficiente leggere i verbali delle sedute delle assemblee elettive o delle commissioni di competenza (dal Parlamento alle Circoscrizioni municipali ). «Vengono meno al loro dovere» cioè, delinquono, la stragrande maggioranza degli eletti per assenteismo. Percepiscono la diaria o il gettone di presenza (magari tre nello stesso giorno) mentre sono altrove, non dove, in base al mandato ricevuto dai propri elettori, dovrebbero essere.
Nelle scorse settimane ricordando su queste colonne al ministro Mastella che Craxi era un latitante e non un esule, ho scritto che l’ex segretario del Psi andava considerato un «delinquente politico», poiché aveva mancato al suo dovere, quando intascò svariati miliardi del Banco Ambrosiano. Il figlio Bobo, seguendo una nota tradizione stalinista, mi ha definito un «disturbato mentale» e mi ha attribuito l’appartenenza ad una agenzia di stampa sovietica di cui non ho mai visto una copia. Consiglio al sottosegretario agli esteri di leggere un libro fresco di stampa, del noto banchiere Pierdomenico Gallo (in gioventù socialista a Torino), pubblicato da Baldini Castoldi Dalai, in cui racconta quando nelle vesti di direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano incontrò Bettino Craxi (allora presidente del Consiglio), per farsi sanare «il debito ufficiale che il Psi aveva con le banche». Attenzione: non si trattava dei sette miliardi di lire versati attraverso Gelli (P2) sul conto protezione in una banca svizzera. No, quelli erano clandestini e finirono nelle tasche di Bettino. Gallo voleva solo fare rientrare nel Banco Ambrosiano nato dopo il fallimento, ciò che risultava ufficialmente sui libri contabili. Fu «trattato a pesci in faccia con apprezzamenti poco lusinghieri sui libri».
Mancano al proprio dovere quei giornalisti che riferiscono fatti, circostanze, coinvolgendo persone, magari diffamandole, senza aver esercitato il primo, elementare «dovere» di chi svolge questa professione, cioè, il riscontro della fondatezza della notizia di cui si è venuti a conoscenza. Ad esempio, il best seller di Stella e Rizzo, La casta, tra i libri più venduti da settimane (ha superato il milione di copie) nel corso delle numerose ristampe ha subito modifiche, tagli, senza che gli autori, e la casa editrice, rendessero pubbliche queste operazioni effettuate evidentemente per evitare grane giudiziarie. Fermo restando il valore e il significato politico e morale di quest’opera scrivere anche una sola cosa falsa, per un giornalista significa «venir meno al proprio dovere».
Una ragione deve esserci se oggi in Italia avvertiamo una caduta verticale di valori e principi, ed assistiamo ad una pratica diffusa della scaltrezza, della furbizia, dell’inganno, dell’individualismo rampante, dell’arraffare soldi a buon mercato. Si tratta di un processo che viene da lontano, dopo la stagione degli Anni Settanta che, malgrado la sua tragicità rappresentata dal terrorismo, aveva aperto grandi speranze sul fronte della democrazia, della partecipazione, della responsabilizzazione dei cittadini. «È stato - scrive Giovanni Moro in uno stimolante saggio pubblicato in questi giorni da Einaudi - il decennio della partecipazione civile e delle riforme».
Il degrado ha preso il sopravvento sotto la spinta del decisionismo e della falsa modernità. I partiti hanno cessato (prima ancora del terremoto di Tangentopoli) di essere punti di aggregazione e di stimolo in senso pedagogico, trasformando la scienza della politica in una sceneggiata, con tanti guitti alla ricerca dell’immagine. Il terreno era fertile per un fenomeno di questo genere. Lo scrittore Antonio Scurati ci ha ricordato il 24 ottobre scorso su La Stampa che il nostro è un Paese culturalmente arretrato. Abbiamo appena il 40% della popolazione adulta (tra i 25 e i 64 anni) diplomata, contro la media europea che sfiora il 60%; solo il 9% possiede una laurea contro una media europea del 21%. Si vendono un centinaio di copie di quotidiani al giorno ogni mille abitanti: la media europea (comprendente anche l’Italia) è di 270 copie.
Secondo un’indagine diretta da Tullio de Mauro 2 milioni di adulti sono analfabeti totali; quasi 15 milioni sono semi analfabeti, altri 15 milioni sono a rischio: sanno fare la loro firma ma non sono in grado di trasferire un pensiero su un foglio di carta scritto.
Tutti, ormai, in Italia sono favorevoli alla raccolta differenziata della spazzatura, ma il cassonetto per i rifiuti organici dove lo mettiamo? Di fronte a quale numero civico della strada dove abitiamo? Quella puzza sotto la nostra finestra, mai e poi mai; quindi di notte il bidone si sposta dall’82 all’84, all’86, all’88 sino a quando non finisce in rissa. Non si tratta di cose banali perché fanno parte del quotidiano vivere, ricco di comitati, leghe, gruppi, tutti spontanei, spacciando per partecipazione democratica manifestazioni di gretto egoismo individuale o familistico.
È sufficiente ascoltare le penose, quanto drammatiche, interviste che i telegiornali si ostinano a raccogliere tra la «gggente» sul luogo dei delitti purtroppo molto frequenti. Anche qui si tratta di operazioni mistificatorie («abbiamo fatto parlare il popolo»), diseducative anche perché colgono il malcapitato cittadino intervistato nel momento peggiore, cioè, di più acuta tensione emotiva, senza che abbia la possibilità di riflettere, di ragionare, di conoscere, di capire.
Milioni di ascoltatori vengono così incitati alla giustizia sommaria, al razzismo, alla xenofobia, al linciaggio. I vari Riotta, Mimum, Mazza di salvano l’anima dicendo «diamo voce al cittadino della strada», venendo meno al loro dovere che prevede soprattutto fare l’informazione, non la censura, con una funzione educativa. Se il non meglio definito «popolo» esprime sentimenti poco civili (e succede spesso) non è scritto da nessuna parte che i telegiornali debbano fungere da altoparlanti dei medesimi. Diversamente si compiono azioni di carattere delinquenziale (sempre nel significato della parola latina).
Che fare? Ripartendo da zero, tracciando una linea di demarcazione tra questo tipo di mondo (che non ci piace) e un mondo diverso, che è possibile. Con tanta umiltà, ma con tanto impegno e coerenza, iniziando ad esempio dalla scuola del pre-obbligo per cercare di avere tra dieci - quindici anni dei cittadini diversi da quelli di oggi e non dei bulli. Soprattutto gli uomini e le donne che si richiamano ai valori della solidarietà («lavoratori di tutto il mondo unitevi»), della prossimità, tanto cara al prof. De Rita («ama il tuo prossimo come te stesso»), devono riproporre al centro dell’azione politica, dei partiti e di tutti i movimenti di progresso democratico questo impegno, cominciando dai rapporti interpersonali, per ricostruire un tessuto connettivo di civiltà. Ecco ciò che ci si aspetta dal nuovo Partito Democratico e dalla Sinistra: un’azione politica che riduca in modo sensibile il numero di coloro che in Italia vengono meno al proprio dovere, cioè, delinquono. Usando anche internet, se necessario, ma non considerandolo il nuovo dio pagano come qualcuno vorrebbe far credere. Il programma è già stato scritto sessant’anni fa: si chiama Costituzione.

di Diego Novelli da l'Unità del 9 novembre 2007

giovedì 8 novembre 2007

Nucleare e dintorni, tutto quello che serve e non si vuol far sapere

A vent'anni dal referendum che lo ha bocciato. Legambiente edita un dossier sui nodi irrisolti

Primo, sfatare l'idea che la produzione di energia elettrica con il nucleare costi meno che col petrolio, se si mettono in conto i costi di costruzione delle centrali, di smantellamento degli impianti obsoleti, della chiusura "in sicurezza" del ciclo dei combustibili, dello stoccaggio e smaltimento delle scorie, di bonifica dei siti contaminati, di danno ambientale e di rischio sanitario.
Secondo, chiarire che anche l'uranio - propellente atomico di cui si alimentano le centrali nucleari - non è rinnovabile e che le riserve stimate servono per i prossimi 40-50 anni. Terzo, spiegare ai propugnatori dell'evoluzione scientifica e tecnologica che i reattori di quarta generazione a bassa radioattività sono di là da venire e lo stato della ricerca li colloca a non prima di trent'anni.
Quarto, chiedere ai nouveaux philosophes della fissione se sono disposti a farsi costruire le centrali sotto i loro balconi, ad esempio nel parco di quella che fu Villa Casati-Stampa ad Arcore, o sotto i cactus di Villa Certosa in Costa Smeralda. Altro che "not in my backyard". Mica può essere sempre sotto le rape di Scanzano Ionico o sulla spiaggia di Montalto di Castro.
Il "cunto" potrebbe essere lungo e folcloristico, a voler seguire il rapporto presentato ieri da Legambiente per celebrare i vent'anni del referendum contro il nucleare, quando venne stabilito che il 73% degli italiani (tre su quattro) non vogliono saperne di avere sotto il naso le micidiali barre radioattive, né il problema di dove e come smaltire le scorie che decadono in centinaia di anni e non vengono mai smaltite definitivamente. Tanto che quelle prodotte negli anni in cui si costruiva Montalto di Castro o Trino Vercellese o Caorso sono ancora lì, tutte da dislocare.
E ci sono alcune questione persino aggiuntive rispetto agli spaventi di Chernobyl. Ad esempio il rischio terrorismo internazionale, con problemi nuovi che riguardano sia il presidio (militare?) degli impianti sia la destinazione del plutonio.
Poi c'è il numero degli impianti esistenti e di quelli da costruire per un grado soddisfacente di libertà dal petrolio. L'Aiea ha censito nel mondo 439 centrali atomiche, per una potenza installata di 371.647 Megawatt. Di questi impianti, 197 sono i reattori in attività in Europa, con una potenza di 169.499 Mw. Altri 12 sono in costruzione (uno in Finlandia, due in Bulgaria, due in Ucraina, sette in Russia) per 9.991 Mw aggiuntivi. Fra tutti fanno il 15% del fabbisogno mondiale, ma la domanda di energia prodotta con la fissione scenderà ancora, dice l'Aiea.
E mentre nel mondo la domanda di centrali nucleari va lasciando il posto a quella di energie alternative, solare ed eolico soprattutto, in Italia è ripartito il tam tam del nucleare ad opera dei vertici di Confindustria.
Ma chi rilancia il nucleare si guarda bene dal dire che affinché l'Italia possa produrre il 15% del suo fabbisogno (al di sotto è irrilevante e diseconomico) è necessario costruire una dozzina di centrali delle dimensioni di quelle che si stanno costruendo inCina, otto come quella finlandese, tra le più grandi mai costruite.
Otto-dodici centrali! Dove? In che tempi? Con che costi? Chi li paga? E con quale impatto su popolazioni che già si battono contro le discariche, le centrali a carbone e i termovalorizzatori? E quale sarà la Regione o il Comune che accetterà di costruire sul suo territorio una centrale nucleare senza il sollevamento dei propri cittadini-elettori? Insomma, di cosa stiamo parlando?
Andiamo avanti. Qualcuno sa quali e quanti incidenti nucleari ci sono stati nel mondo negli ultimi cinquant'anni? O cosa sia la scala Ines che classifica la gravità degli incidenti? Ci si ricorda di Cernobyl ma nessuno ricorda che in Tennessee, quattro mesi dopo l'episodio di Three Miles Island, ci fu una fuoriuscita di uranio arricchito che provocò la contaminazione di un migliaio di abitanti; o che, sempre negli Usa e sempre in quel maledetto agosto del '79, altre mille persone furono contaminate a Erwin per una fuga radioattiva in un centro di ricerca nucleare. L'elenco fornito da Legambiente è lungo e puntiglioso, con date, luoghi, tipo di incidente, numero di morti e popolazioni infettate. Un elenco che fa venire la pelle d'oca. Vedere sul sito www.legambiente.it per credere.
Arriviamo così alla questione delle scorie, uno dei grandi problemi irrisolti del nucleare. Scrive Legambiente: «Non esistono ad oggi soluzioni concrete al problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi derivanti dall'attività delle centrali o dal loro decomissioning . Le circa 250 mila tonnellate dei rifiuti altamente radioattivi prodotte fino ad oggi nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivo, stoccate in depositi "temporanei" o lasciate negli stessi impianti dove sono state generate».
Vogliamo parlare di Scanzano? o di Rotondella in provincia di Matera? o di Saluggia vicino a Vicenza che contiene ancora 3.661 metri cubi di rifiuti radioattivi? o di Bosco Marengo dalle parti di Alessandria dove l'impianto disattivato dall'Enea custodisce 460 metri cubi di scorie nucleari derivanti dalla produzione di combustibili per il Superphoenix?

di Gemma Contin da Liberazione del 07 novembre 2007

mercoledì 7 novembre 2007

La metà del Paese ostaggio della paura

In Italia si aggira uno spettro inquietante. È l´insicurezza. Tanto densa e tanto acuta da sfiorare la paura. Dell´altro. Una indagine condotta nei giorni scorsi da Demos per la Fondazione UniPolis delinea queste tendenze in modo inequivocabile.
Secondo l´indagine (in corso di svolgimento: verrà presentata nelle prossime settimane), cinque persone su dieci oggi ritengono che, nella zona di residenza, la criminalità sia cresciuta negli ultimi anni. Si tratta di un dato superiore di sei punti percentuali rispetto a cinque mesi fa. Ma di quasi venti rispetto a due anni addietro. Inoltre, quasi nove persone su dieci (praticamente tutti) pensano che la criminalità sia cresciuta in Italia. Cinque punti percentuali in più rispetto allo scorso giugno; otto rispetto a due anni fa. La paura, quindi, è diffusa, sul territorio. Influenzata da fattori che, in parte, trascendono l´esperienza personale, visto che la percezione dell´illegalità è maggiore quando si fa riferimento a contesti più distanti da noi. L´Italia piuttosto che il nostro quartiere. Tuttavia, l´insicurezza è cresciuta soprattutto in rapporto alla realtà locale. Insieme, è montata anche la paura dello "straniero". Ormai, il 47% degli italiani considera gli immigrati un pericolo per l´ordine pubblico e per la sicurezza personale. Si tratta del dato più elevato dal 1999 ad oggi. Nel 2003 la pensava in questo modo il 33% della popolazione, due anni fa il 41%.
Fra insicurezza e immigrazione c´è un legame stretto. Il peso di quanti ritengono cresciuta la criminalità (sia locale che nazionale), infatti, è massimo tra coloro che considerano gli immigrati un pericolo.
In parte, questi sentimenti si spiegano con l´effettivo incremento degli immigrati e dei reati commessi dagli immigrati. Però, appunto: solo in parte. Rammentiamo, per analogia, lo scenario del 1999, quando la percezione del pericolo raggiunse indici molto simili ad oggi. Influenzata, più che dalla realtà, dall´immagine. Dalla rappresentazione offerta dai media. Episodi criminali cruenti rilanciati, in modo martellante, da giornali e tivù. Insieme agli sbarchi dei disperati, che abbordavano le nostre coste. L´insicurezza salì. Anche se la criminalità, nel corso degli anni Novanta, si era notevolmente ridimensionata. Tuttavia, l´enfasi mediatica contribuì ad accentuare la sfiducia nei confronti del governo di centrosinistra. Ritenuto, allora come ora, meno adeguato ad affrontare la sfida dell´insicurezza. Così, nel 2001 la CdL vinse le elezioni. E la paura, all´improvviso, si ridimensionò. E l´Italia apparve, per qualche anno, meno insicura. Oggi, l´emergenza sembra tornata. Come e più di allora. Le "carrette del mare" hanno ripreso a sbarcare sulle nostre coste il loro carico di disperazione. Peraltro, a dispetto delle apparenze, una frazione limitata dell´immigrazione clandestina. Ma gli sbarchi sono spettacolari. Come i delitti. Soprattutto se atroci. Come quello, orribile, commesso a Tor di Quinto. Ai danni della povera Giovanna Reggiani. L´orrore, la pietà, la rabbia: sui media, fanno ascolti eccezionali. Ma l´onda dell´indignazione rischia di trasportarci lontano dalla "normalità". E dalla realtà. Domenica, Repubblica ha pubblicato una lettera di Romano Prodi, che raccontava un episodio di vita quotidiana. Qualche ora passata agli uffici comunali di Bologna, per rinnovare la sua carta di identità, scaduta. In mezzo a numerosi immigrati, di diverse nazionalità. A parlare di cose quotidiane. Un pezzo di realtà quasi irreale. Uno spaccato di vita normale che urta contro la rappresentazione iperbolica dell´immigrazione, a cui siamo avvezzi. Eppure testimonia di un´impresa quasi eccezionale, nella sua normalità. Rammenta che, in pochi anni, siamo divenuti un Paese ad alta presenza di stranieri (oltre il 6% della popolazione). Come Francia, Germania e Gran Bretagna. Dove il fenomeno ha una storia assai più lunga della nostra. Senza venirne travolti. Grazie alla capacità di integrazione della società, delle reti di solidarietà, dell´associazionismo cattolico, ma anche laico; al lavoro quotidiano degli enti locali. Anche quelli governati dalla Lega: "cattivi" a parole, ma "buoni" nei fatti. Ma il dibattito politico generale, invece di valorizzare la capacità di adattamento espressa dal nostro tessuto sociale e locale, pare ispirato da preoccupazioni elettorali. Trainato dalla narrazione truce dei media. Così, come nel 1999, è tornata la sindrome dell´assedio. Dovunque, romeni e rom, pronti ad assalire i cittadini inermi. Come ieri gli albanesi, l´altro ieri i cinesi, prima ancora i maghrebini. La Padania suggerisce, per assonanza, anche i Romani. E, già che ci siamo, anche Romano.
Nel buco nero dell´indistinto, d´altronde, ogni pregiudizio trova conferma e ogni paura risposta. Di certo, non soluzione.
Meglio, allora, provare a distinguere. Aggiungere qualche informazione. (Che attingiamo dal prezioso lavoro di documentazione condotto dal Caritas/Migrantes). Utile, comunque, a evitare le trappole del luogo comune.
1. I Rom non sono i romeni. I quali, in Italia, oggi sono circa 600mila. Il primo gruppo nazionale, per entità. Hanno un alto livello di scolarità. Sono in larga misura occupati. Perlopiù nelle costruzioni e nei servizi. In Italia operano circa 15 mila aziende romene (soprattutto edili). Quanto basta per contrastare le immagini che rappresentano i romeni come una "folla criminale".
2. Sotto il profilo delle statistiche giudiziarie, i reati commessi dai romeni rappresentano circa un sesto sul totale delle denunce ai danni di stranieri. Il che coincide con il loro peso sul totale degli immigrati. Nel Lazio pare vi siano un terzo dei romeni denunciati in Italia. Ma i dati disponibili non permettono di esprimere stime precise, al proposito. Sufficienti, però, a consigliare prudenza prima di esprimere giudizi poco fondati, oltre che indecorosi, sulla vocazione criminogena dei romeni.
3. Il flusso dei Rom è effettivamente cresciuto, negli ultimi tempi, anche in seguito alle pressioni esercitate su di loro dalla Romania. I Rom. Stanno ai margini della nostra società e delle nostre città. In Italia, come ha mostrato Renato Mannheimer sul Corriere della Sera, suscitano diffidenza in otto italiani su dieci. Ma lo stesso avviene in Europa. In Romania, peggio che altrove. I Rom, nella "normalità", sono autori di illegalità diffuse. Reati piccoli, che suscitano grande insofferenza. Ma, sicuramente, non sono attori di "grande criminalità". L´autore dell´orrendo crimine di Roma è un "deviante", marginale perfino tra i Rom. Non a caso a denunciarlo è stata una donna Rom.
4. Non è vero che i Rom rifiutino ogni tentativo di integrazione. Dove sono state effettuate politiche locali finalizzate a questo obiettivo, come a Pisa, Venezia, Napoli, i risultati si sono visti. Come ha rammentato, benissimo, ieri, Barbara Spinelli, sulla Stampa. Sceglierli come bersaglio, su cui scaricare la riprovazione e l´indignazione generale, però, è facile. Sono gli ultimi degli ultimi. Senza uno Stato o una lobby (magari criminale) a difenderli.
5. La "grande criminalità" straniera, ovviamente, esiste. E si è sviluppata profondamente, nel nostro Paese. Ma non ha radici Rom (né Sinte). È, invece, gestita da bande organizzate (in questo caso sì) "romene". Ma anche senegalesi, albanesi. Collegate ad altre bande, italiane e straniere (sudamericane). Gestiscono, soprattutto, il traffico della droga e la prostituzione. Migliaia di ragazze e di bambine, spesso romene, comprate oppure rapite a casa loro, per essere trasferite sulle nostre strade. Dove la clientela (italiana) è abbondante.
Il dibattito di questi giorni non sembra in grado, ma neppure preoccupato di spiegare, distinguere, affrontare questi fenomeni. È scosso da sussulti mediatici, avvenimenti tragici. Così, la destra indossa la maschera più dura. Per professione. La sinistra moderata risponde con lo stesso linguaggio, per paura di mostrarsi debole. E la sinistra (cosiddetta) radicale, "perplessa", grida contro il nuovo razzismo. Per riflesso condizionato. Solidarietà, rigore, legalità, tolleranza/zero. Parole brandite come armi. Da ciascuno, per difendere la sua quota di mercato elettorale. (Alla fine, come in passato, l´unico a guadagnarci sarà il centrodestra).
Ridurre una realtà così complessa al tema dell´insicurezza rischia, però, di alimentare altre preoccupazioni. Di moltiplicare i "nemici". E di imprigionare noi stessi, dentro alle nostre paure. Stranieri anche noi. Abitanti feroci di una terra feroce. Il Paese della "tolleranza zero". A parole. Nel quale, personalmente, troviamo difficile - e un po´ umiliante - vivere.

di Ilvo Diamanti da la Repubbblica del 6 novembre 2007

lunedì 5 novembre 2007

Salvi: «il testo va cambiato ma deciderà il nostro Parlamento»

ROMA — «Certo, se si risparmiasse sui festival cinematografici e si investisse davvero sulla lotta al degrado urbano, i nostri sindaci farebbero qualcosa di positivo: alcuni lo fanno, altri danno l'allarme per sfuggire a queste responsabilità che qui a Roma abbiamo visto nella baraccopoli di Tor di Quinto». Cesare Salvi, leader della Sinistra democratica, non è tenero con il governo che accogliendo la richiesta del sindaco Walter Veltroni ha varato il decreto legge sulle espulsioni. Il presidente della commissione Giustizia del Senato non condivide alcuni punti del testo e quindi avverte: «Al Senato, non solo la sinistra ma, spero, anche radicali, socialisti e quel settore del Pd che fa riferimento ad Arturo Parisi tenteranno di modificare il decreto. Spetterà al Pd fare la scelta: se segue certe pulsioni, Veltroni si farà superare dalla destra che su propaganda e populismo vince e chiede sempre di più».

Secondo lei, dunque, ora bisogna esaminare le misure con maggior freddezza.
«Chiedo anche di verificare il rischio razzismo. Non ho apprezzato l'uscita di Veltroni che ha puntato il dito contro una nazione intera. E, in genere, non condivido queste statistiche che indicano i più pericolosi nei cittadini romeni. Le statistiche sono l'anticamera del razzismo: l'antisemitismo perbenista degli inizi del Novecento si basava sulle statistiche secondo le quali c'erano troppi ebrei a svolgere determinate attività e, poi, gli ebrei furono accomunati agli zingari nella categoria dei sottouomini. Anche ora la statistica, ammesso che sia fondata, aprirebbe la strada al pregiudizio ».

Ma lei è disposto a ragionare sulle 3 condizioni poste da Gianfranco Fini?
«A parte la questione di aumentare i fondi per le forze di polizia, che è giusta, sulle altre non c'è margine di interlocuzione: non ci può essere per l'accompagnamento coatto alla frontiera di chi si ritiene non abbia i mezzi di sostentamento per vivere in Italia. Così verrebbero aggravati i profili di un decreto che invece vanno esaminati con attenzione perché riguardano un quesito costituzionale rilevante: il Parlamento deve verificare se vengono rispettati i diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini italiani e a quelli di altre nazionalità».

Lei davvero ritiene che il giro di vite nasconda profili di incostituzionalità?
«Fortunatamente i costituenti, venendo dall'esperienza tragica del nazifascismo, furono molto attenti: per questo è pericoloso il sentiero che porterebbe all'espulsione dal Paese solo perché non si hanno adeguati mezzi di sostentamento. E lo stesso ministro dell'Interno ha evidenziando i limiti di efficacia del meccanismo anche se poi vedo che Amato fa aperture alla destra».

Qual è l'anello debole del decreto?
«Esiste una sentenza della Consulta che ha dichiarato l'illegittimità della norma della Bossi-Fini che prevedeva l'espulsione degli extracomunitari senza adeguate garanzie giurisdizionali».

Il presidente della Romania ha bocciato con parole durissime il decreto.
«La conversione del decreto è una prerogativa del Parlamento italiano. E', invece, una prerogativa del presidente rumeno protestare se i suoi concittadini vengono etichettati tutti come delinquenti».

Non avete il timore di rimanere isolati nel fortino della sinistra buonista?
«Ho apprezzato molto l'editoriale di Sergio Romano e le cose che hanno scritto e detto Barbara Spinelli, Michele Ainis, Stefano Rodotà, Arturo Parisi e molti altri. Questo dei diritti non è un tema della sinistra buonista. Fortunatamente suscita reazioni positive anche in altri settori».

di Dino Martirano dal Corriere della Sera del 5 novembre 2007

sabato 3 novembre 2007

Caro Bobbio, che cos’è per lei il socialismo?

EPISTOLARI La lunga discussione tra il filosofo e Giuseppe Tamburrano nel loro carteggio inedito tra il 1956 e il 2001. Un momento chiave per la messa a punto dell’idea di sinistra nel pensatore torinese

C’era una volta Norberto Bobbio, ricordate? Sembra un’altra era geologica. Eppure è scomparso poco più di tre anni fa. Ma è come se i temi, i problemi e il pungolo di tante questioni, che arrovellavano la sinistra, e che Bobbio ostinatamente riproponeva, siano finiti in cantina. Col ricordo dello studioso. «Libertà e socialismo», «politica e cultura», «destra e sinistra», governo degli uomini e quello della legge, pacifismo e realismo della forza...
E invece, arriva adesso un libretto bellissimo, e godibilisimo oltretutto. Che ha il pregio di riassumere e rilanciare a «blocchi» tutte quelle questioni: inevase o dimenticate. Soprattutto non riproposte affatto ai più giovani. Ed è un epistolario tra un ex giovane di belle speranze, ma oggi più appassionato e vitale che mai, e il filosofo: Norberto Bobbio e Giuseppe Tamburano, Carteggio. Su marxismo, liberalismo, socialismo (Editori Riuniti, pp.141, euro 14). Il libro, oltre che silloge di problemi vissuti, è una piccola storia di vita. Che comincia nel 1956 e si arresta nel 2001, due anni prima della morte di Bobbio. Storia fatta di un rapporto esemplare. Casuale e insperato all’inizio, ma via via intenso, tra il Tamburrano intellettuale di provincia, che scrive dalla sua Foggia al famoso studioso, e il destinatario. Che risponde al giovanotto sconosciuto e grintoso.
Il quale lo provoca su un punto chiave della polemica culturale di quegli anni: liberal-democrazia e socialismo. Dopo il XX Congresso del Pcus, che aveva svelato la natura totalitaria e dispotica di quel socialismo, e dopo i saggi bobbiani su Politica e Cultura. Nei quali l’azionista Bobbio era entrato in contrasto con Togliatti, col filosofo marxista Della Volpe, e con il «deficit» statual-democratico del marxismo, «privo di una dottrina dello stato».
Tamburrano è pugnace, e rilutta all’idea bobbiana che il metodo della libertà, ben più dei «mezzi riformisti», sia essenziale alla costruzione di un socialismo degno del nome. E perciò insiste sulla trasformazione «necessaria» che il metodo liberaldemocratico dovrebbe subire, una volta innestato sugli ordinamenti socialisti, fondati sulla liberazione del lavoro. E nondimeno poco a poco il giovane studioso, precoce ex comunista, futuro storico del socialismo e Presidente della Fondazione Nenni, perviene alla medesima conclusione di Bobbio. E cioè che l’«involucro liberale» deve resistere alla trasformazione socialista. Che gli «universali procedurali» della democrazia sono un termine di progresso a quo non reditur. Irreversibili, proprio per garantire un vero socialismo, umanista e non dittattoriale.
Anche Bobbio però prende gusto nel rispondere a quel giovane importuno. E precisa meglio il suo pensiero: «tecniche liberali e valori socialisti». Piani distinti ma connessi, ciascuno a servizio dell’altro. E chiarisce teoricamente il suo «modello». Che somiglia molto a quello che già fu di Carlo Rosselli, e del suo «socialismo liberale». Ovvero: socialismo come incessante perseguimento dell’eguaglianza nella liberta. «Giustizia e libertà» sinergiche. E il tutto impiantato su una democrazia piena, conseguente. Che salvaguarda i beni comuni, dalla scuola alle «chances di vita»( termine di Dahrendorf, che Bobbio non usava...). All’ambiente, alle relazioni umane più ampie e non strumentali («non tutto è economia e profitto»). E non senza la prefigurazione di un’economia solidale e associata (il «terzo settore»), che incorpora responsabilità etica, senza venir meno all’efficienza. Ma il fulcro di tutto questo ragionare, che per lettera il giovane e il vecchio svolgono assieme, è questo: persino l’economia racchiude un contenuto non economico, vale a dire «etico». E lo sapeva bene l’Adam Smith della Teoria dei sentimenti morali. Etica coincidente con l’etica civile della società, con la democrazia stessa insomma. La quale per tal via si approssima a un socialismo non totalitario. Che dia spazio al «mercato», senza che sia il criterio regolatore supremo, bensì una della forme - necessarie e democratizzate - della riproduzione sociale. E questo è uno dei nuclei chiave del carteggio. Un nucleo che in Tamburanno diventerà la puntualizzazione dei «fini» del socialismo: liberazione della persona e democrazia conseguente. Che non annulla la distinzione tra stato e società civile, con le «regole» annesse. Un «Fine» inespugnabile da ogni «revisionismo», altresì necessario a reintrodurre la libertà nel socialismo, e a correggere l’integralismo messianico da «Antico Testamento» di quel Marx per tanti versi ancora attuale.
E tuttavia nel carteggio vi sono tante altre cose. Ad esempio la discussione su Gramsci, che Tamburrano ristudia negli anni ‘60, ricevendone ostilità dalla vulgata gramsciana del Pci. Su Rinascita e su Paese Sera. Per Tamburrano Gramsci è pensatore dell’ «egemonia come democrazia», del dialogo, dell’antistalinismo. E soprattutto è pensatore non totalitario, che svincola la politica dal «determinismo economico», affidandola allo sforzo democratico di fare evolvere le «sovrastrutture», le forme di coscienza, entro cui i «rapporti economici» si manifestano. Su questo Bobbio in verità ha qualche dubbio. Specie sulla questione del «moderno principe», il Partito gramsciano come «imperativo categorigo» e intellettuale collettivo, per Tamburrano viceversa «concetto descrittivo» dei partiti moderni. Ma anche su Gramsci c’è un’intesa di fondo, soprattutto sul suo concetto di «società civile», che pone la politica in Occidente ben al di là della barbarie orientale, dispotica e priva di articolazioni civiche.
Altro punto decisivo dell’epistolario è poi quello della «svolta» Pci-Pds, tra il 1989 e il 1991. Connesso a quello del rapporto mancato tra Psi e Pci-Pds. E ancora una volta il giovane, ormai non più giovane, e il grande studioso, si ritrovano d’accordo sui «fondamentali». La svolta di Occhetto infatti è salutata da entrambi con favore. E nondimeno entrambi la avvertono come «amorfa», «acefala». Priva di assi forti, incapace di tematizzare «ciò che è vivo e ciò che è morto» nel socialismo. E proclive a buttare il bambino e l’acqua sporca, in assenza di un vero superamento della tradizione comunista: a «contenuto positivo. Certo, sia in Tamburrano che in Bobbio il dubbio che il socialismo sia morto affiora eccome. Ma vince la persuasione che senza contenuti identitari la sinistra si dissolve. Non per caso Bobbio rilancia la distizione destra/sinistra. E Tamburrano la necessità mondiale dei fini etici e programmatici socialisti. Quanto al Psi di Craxi, gli scriventi dicono: respinse in chiave annessionista la svolta del Pds. Che a sua volta non seppe sfidare l’ipoteca craxiana sul nome «socialista». Quel nome finì abbandonato, ma la cosa rimane. Sì, anche su questo gli autori concordavano. E hanno ancora ragione.

di Bruno Gravagnuolo da l'Unità del 3 novembre 2007

Un clima pericoloso

L’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell´aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.
Da un caso gravissimo, l´uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all´indicazione di responsabilità collettive. L´assassinio è quasi finito in secondo piano, e l´attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l´apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.
Così non basterà condannare l´accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.
Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E´ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell´indicare le via d´uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.
Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell´immigrazione esigono responsabilità comuni dell´Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E´ stata proprio una donna romena che ha consentito l´immediato arresto dell´assassino.
Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt´erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ‘a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E´ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l´integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell´omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l´assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l´hanno mai fatta.
Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l´unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell´efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell´aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.
Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all´opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell´ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: «Stanno a rubare». E´ l´effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.
Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D´Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l´indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell´ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull´effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?
Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest´anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l´attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell´Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell´ampliamento delle cause che permettono l´allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall´aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l´incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l´ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?
Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all´emozione dell´opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.
La pressione dell´opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l´allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d´essere concretamente cancellata.
Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com´è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L´ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall´"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.
Serve, davvero con "necessità e urgenza", un´altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E´ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un´agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.

di Stefano Rodotà da la Repubblica del 3 Novembre 2007