venerdì 8 agosto 2008

Resistere o arrendersi? Non c'è alternativa alla guerra, il monito di Orwell nel 1940

CONTRARIAMENTE al credo popolare, il passato non è stato più denso di avvenimenti del presente. Se così sembra, è perché guardandoci alle spalle i fatti accaduti anni e anni addietro si affastellano, e perché pochissimi dei nostri ricordi ci pervengono nella loro autentica purezza. È soprattutto grazie ai libri, ai film e alle memorie nel frattempo sopraggiunti, che alla guerra del 1914-18 viene oggi attribuito quel valore straordinario ed epico di cui l'attuale difetta.
Se tuttavia avete potuto vivere quel conflitto, e se sceverate i veri ricordi dalle aggiunte successive, vi accorgerete che non furono di solito i grandi eventi, all'epoca, a suscitare in voi forti emozioni. Non credo che la «Battaglia della Marne», ad esempio, avesse agli occhi del gran pubblico quel carattere melodrammatico che poi le è stato attribuito. Né ricordo di aver mai udito l'espressione «Battaglia della Marne», se non anni dopo l'accaduto. Era semplicemente successo che i tedeschi, portatisi a ventidue miglia da Parigi — il che era senz'altro piuttosto allarmante, dopo le atrocità commesse in Belgio — erano poi, per qualche ragione, tornati indietro. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra. Se, in tutta sincerità, metto a fuoco i miei ricordi senza tener conto di quel che ho appreso in seguito, devo ammettere che nulla, per tutta la durata del conflitto, riuscì a commuovermi così profondamente come poté l'affondamento del Titanic, appena qualche anno prima. Quella sciagura, al confronto marginale, aveva scosso il mondo intero, e lo sconcerto non si è ancora del tutto dissolto. Ricordo le terribili, minuziose cronache lette ad alta voce durante la colazione (allora era normale abitudine leggere forte il giornale), e ricordo che in quel lunghissimo campionario di orrori una notizia mi colpì più di tutte: alla fine, il Titanic si era improvvisamente portato in verticale e, quando la prua iniziò ad affondare, i passeggeri aggrappati a poppa furono sollevati ad almeno trecento piedi nell'aria, prima di sprofondare nell'abisso. Provai un gran senso di vuoto allo stomaco, che riesco quasi ancora ad avvertire. Nulla in guerra mi ha mai procurato una simile sensazione.
Dello scoppio della guerra conservo tre vivide immagini che, data la loro marginalità e irrilevanza, non sono state intaccate da alcun evento posteriore. La prima corrisponde alla caricatura dell'«Imperatore Tedesco» (credo che l'odiato appellativo di «Kaiser» acquistò popolarità soltanto qualche tempo dopo), che fece la sua comparsa alla fine di luglio. La gente fu lievemente scandalizzata da una simile irrisione della sovranità («Ma è un uomo di così bell'aspetto, davvero!»), nonostante fossimo a un passo dalla guerra. L'altra risale ai giorni in cui l'esercito requisì tutti i cavalli della nostra cittadina di campagna, e un vetturino scoppiò in lacrime, nella piazza dove si svolgeva il mercato, quando il suo animale, che da anni e anni lo serviva, gli fu strappato via. L'altra ancora è di una ressa di giovani alla stazione ferroviaria, che sgomitano per accaparrarsi i giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verde pisello (ve n'erano ancora di quel colore, all'epoca), i colletti alti, i pantaloni di foggia affusolata e le bombette, molto più di quanto non ricordi i nomi delle terribili battaglie che già infuriavano ai confini della Francia.
Degli anni centrali della guerra, ricordo soprattutto le spalle quadrate, i polpacci prominenti e il tintinnio degli speroni degli artiglieri, la cui uniforme preferivo di gran lunga a quella della fanteria. In quanto al periodo finale, se mi si chiedesse qual è onestamente il mio ricordo principe, risponderei con estrema semplicità: la margarina. A riprova dell'orribile egoismo dei bambini, già nel 1917 la guerra non ci toccava quasi più, non fosse stato per lo stomaco. Nella biblioteca della scuola, una gigantesca mappa del Fronte Occidentale venne appesa a un cavalletto, con un filo di seta rosso che correva, tracciando uno zigzag, tra varie puntine da disegno. Di tanto in tanto, il filo si muoveva di mezzo pollice in questa o quella direzione, e ogni spostamento era la spia di una montagna di cadaveri. Io non vi prestai mai attenzione. A scuola ero tra i ragazzi con un livello d'intelligenza superiore alla media, eppure non ricordo un solo evento, tra i maggiori dell'epoca, che ci apparisse nel suo autentico significato. La Rivoluzione russa, ad esempio, non ebbe su di noi alcun effetto, eccetto quei pochi i cui genitori avevano investito denaro in Russia. Tra i più giovani, la reazione pacifista aveva preso piede da ben prima che la guerra giungesse a conclusione. Essere il più svogliato possibile alle parate del Corpo addestramento ufficiali di Complemento, e non mostrare alcun interesse per la guerra, tutto ciò era considerato un segno d'illuminazione. I giovani ufficiali reduci dal conflitto, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall'atteggiamento della nuova generazione, ai cui occhi essa era del tutto insignificante, erano soliti rimproverarci la nostra mollezza. Naturalmente, non riuscivano ad addurre alcuna ragione a noi comprensibile.
Erano capaci soltanto di sbraitare che la guerra era «una buona cosa», che «ti temprava», «ti manteneva in forma», eccetera eccetera. Noi ci limitavamo a ridere sotto i baffi. Il nostro era un pacifismo di parte, tipico di Paesi protetti e con una forte marina militare. Fino a parecchi anni dopo il conflitto, possedere una qualche conoscenza o interesse per le questioni militari, o addirittura sapere da quale estremità di un fucile esce la pallottola, era motivo di sospetto nei circoli «illuminati». I fatti del 1914-18 vennero liquidati come un inutile massacro, di cui le stesse vittime furono ritenute, in un certo senso, colpevoli. Quante volte ho sorriso pensando a quel famoso manifesto di reclutamento— «Papà, che cosa hai fatto nella Grande Guerra?» (un bambino pone la domanda al genitore atterrito dalla vergogna) —, e a tutti gli uomini che saranno stati attirati nell'esercito soltanto da quella locandina, e poi disprezzati dai propri figli per non essersi dichiarati obiettori di coscienza.
Ma i morti si sono presi la rivincita, dopo tutto. Non appena la guerra scivolò nel passato, proprio la mia generazione, quella cioè dei «troppo giovani », divenne consapevole dell'enormità dell'esperienza che aveva perduto. Non ci si sentiva pienamente uomini, perché quell'esperienza mancava. Ho trascorso il grosso degli anni 1922-27 in mezzo a uomini appena più grandi di me, e che erano stati in guerra. Ne parlavano senza posa, con orrore, naturalmente, ma anche con sempre maggior nostalgia. Una nostalgia che si riverbera con estrema chiarezza nei libri inglesi sulla guerra. D'altronde, la reazione pacifista non rappresentò che una fase transitoria, e anche i «troppo giovani» erano tutti stati preparati a combattere. La gran parte del ceto medio inglese è addestrata alla guerra sin dall'infanzia, non tecnicamente ma moralmente. Il primo slogan politico che mi sovviene recitava: «We want eight, and we won't wait» («Ne vogliamo otto, e ci faremo sotto»), sottintendendo le corazzate «dreadnoughts ». A sette anni ero membro della Lega Navale e portavo un vestito alla marinara con la scritta «H.M.S. Invincible» sul berretto. Ancor prima di entrare nel Corpo addestramento ufficiali della mia scuola superiore, ero stato cadetto in collegio. Ho imbracciato fucili, a intervalli regolari, sin da quando avevo dieci anni, in preparazione non a una guerra come tante altre, ma a una guerra assai particolare, una guerra ove le cannonate risuonano in un crescendo di frenesia, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, ti rompi le unghie sui sacchetti di sabbia, e ti dimeni tra il fango e il filo spinato, verso il fuoco di sbarramento. Sono convinto che il fascino esercitato dalla Guerra civile spagnola sui miei coetanei fosse dovuto, almeno in parte, alle profonde affinità con la Grande Guerra. Vi furono momenti in cui Franco riuscì a mettere assieme abbastanza aeroplani da portare il conflitto agli standard moderni, e ad essi si devono le svolte decisive. Per il resto, tuttavia, si trattò di una copia sbiadita del 1914-18, una guerra di posizione fatta di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e stagnazione. Il settore del fronte aragonese dove mi trovavo all'inizio del 1937, doveva essere molto simile a un tranquillo reparto nella Francia del 1915. Soltanto l'artiglieria era carente. Anche nelle rare occasioni in cui sparavano contemporaneamente, tutti i cannoni dentro e fuori Huesca non bastavano che a produrre un rumore inoffensivo e intermittente, simile alla fine di un temporale. Le granate sparate dai cannoni da sei pollici di Franco si schiantavano piuttosto fragorosamente, ma non ve n'erano mai più di una dozzina per volta. Posso dire che dopo aver udito per la prima volta i colpi «da guerra» dell'artiglieria, come si usa dire, rimasi almeno in parte deluso. Era tutto così diverso dal tremendo, incessante boato che i miei sensi avevano atteso per ben vent'anni.
Non saprei dire in quale anno ho saputo per la prima volta con certezza che la guerra attuale fosse imminente. Dopo il 1936, naturalmente, era ormai una cosa ovvia, che soltanto uno sciocco non avrebbe colto. Per diversi anni avevo vissuto come un incubo l'arrivo della guerra, e talvolta giunsi anche a pronunciare discorsi e scrivere pamphlet anti-bellici. Ma alla vigilia dell'annuncio del patto russo-tedesco, sognai che la guerra era scoppiata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia il loro recondito significato freudiano, talvolta rivelano la vera condizione dei propri sentimenti. Mi fece capire due cose: primo, che allo scoppio della tanto paventata guerra avrei dovuto semplicemente provare sollievo; secondo, che in fondo ero un patriottico, che non avrei tramato né agito contro la mia sponda, che avrei appoggiato il conflitto e che vi avrei possibilmente combattuto. L'indomani, appena scese le scale, trovai il giornale con l'annuncio del viaggio di Ribbentrop a Mosca. (Il 21 agosto 1939 Ribbentrop fu invitato a Mosca, e il 23 agosto firmò con Molotov il patto russo-tedesco). La guerra era dunque imminente, e il governo, persino quello di Chamberlain, poteva contare sulla mia fedeltà. Inutile aggiungere che quest'ultima era e resta semplicemente un atto formale. Come a quasi tutti i miei conoscenti, il governo ha seccamente rifiutato di assegnarmi una qualsivoglia mansione, anche come copista o soldato semplice. Ma ciò non cambia i propri sentimenti. D'altronde, saranno costretti a servirsi di noi, prima o poi.
Credo che non avrei alcun problema a difendere le mie ragioni a sostegno della guerra, se necessario. Non c'è altra concreta alternativa: resistere a Hitler o arrendersi, e da socialista devo dire che è meglio resistere; in ogni caso, non vedo un solo argomento a favore della resa che non vanifichi il senso della resistenza repubblicana in Spagna, di quella cinese al Giappone, eccetera eccetera. Ma non voglio certo dire che sia questo il fondamento emotivo delle mie azioni. Nel sogno di quella notte capii che il patriottismo così a lungo inculcato nel ceto medio aveva fatto il suo corso, e che laddove l'Inghilterra si fosse trovata in gravi ambasce, per nessuna ragione avrei potuto compiere un sabotaggio. Ma che nessuno travisi il significato di queste parole.
Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È la devozione a qualcosa che cambia continuamente, ma misticamente appare sempre uguale a se stesso, un po' come l'attaccamento degli ex «bolscevichi bianchi» alla Russia. Prestare fedeltà sia all'Inghilterra di Chamberlain che all'Inghilterra del domani potrebbe sembrare impossibile, se non si fosse consapevoli che è un fenomeno di quotidiana ordinarietà. Soltanto una rivoluzione può salvare l'Inghilterra, ciò è evidente ormai da anni, ma la rivoluzione ora è cominciata, e potrebbe procedere abbastanza speditamente, se solo sapremo tenerci alla larga da Hitler. Nel giro di un paio d'anni, o forse uno soltanto, sol che teniamo duro, assisteremo a cambiamenti che sorprenderanno gli sciocchi privi di lungimiranza. Sui rigagnoli di Londra, non mi perito di affermarlo, dovrà scorrere sangue. D'accordo, così sia, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno acquartierate al Ritz, sentirò ancora che l'Inghilterra che mi insegnarono ad amare tanto tempo fa, e per ragioni così disparate, in qualche modo sopravvive.
Sono cresciuto in un'atmosfera permeata di militarismo, e ho poi trascorso cinque tediosi anni tra gli squilli di tromba. A tutt'oggi avverto un vago odor di sacrilegio, quando non si sta sull'attenti durante il «Dio salvi il Re». Tutto ciò è infantile, naturalmente, ma preferisco di gran lunga aver ricevuto questo tipo di educazione che non essere come quegli intellettuali di sinistra così «illuminati» da non saper comprendere le emozioni più comuni. Sono proprio gli individui che non hanno mai avuto un balzo al cuore alla vista della bandiera del Regno Unito coloro i quali, quando arriva il momento della rivoluzione, si tirano indietro. Invito a confrontare la poesia scritta da John Cornford non molto tempo prima di essere ucciso (Before the Storming of Huesca, «Prima della presa di Huesca»), con quella di Sir Henry Newbolt (There's a breathless hush in the close tonight, «C'è una quiete carica di tensione sul campo questa notte»). Se si lasciano da parte le differenze tecniche, riconducibili a una semplice distanza temporale, ecco che il contenuto emotivo delle due poesie appare pressoché identico. Il giovane comunista morto eroicamente nella Brigata Internazionale si era fatto le ossa nelle scuole d'élite. Aveva cambiato bandiera, ma non le proprie emozioni. Che cosa ne discende? Semplicemente la possibilità di tirar fuori un socialista da un ottuso reazionario, il potere di auto- trasformazione insito in qualsiasi vincolo di fedeltà, l'esigenza spirituale di patriottismo e virtù militari, dei quali, per quanta scarsa simpatia i conigli lessi della Sinistra nutrano nei loro riguardi, non si è ancora trovato un sostituto.

di George Orwell dal Corriere della Sera del 8 agosto 2008

lunedì 4 agosto 2008

La politica s’inchina a sua maestà la menzogna

Molti i modi di mentire: dal fornire una versione comoda dei fatti, all’inventarepericoli inesistenti per eludere quelli veri

Il filosofo Giacché spiega come funziona e a cosa serve l’odierna fabbrica del falso: in primo luogo a «tenerci buoni»

«Le masse... cadranno vittime più facilmente di una grossa menzogna che di una piccola». Adolf Hitler in «Mein Kampf»

I TAGLI? SI CHIAMANO «RIFORME». Le torture? «Tecniche di interrogatorio rafforzate». Un tempo le verità inconfessabili del potere erano coperte dal segreto, oggi la guerra contro la verità è combattuta e vinta sul terreno della parola

Cosa tiene in piedi le società odierne nelle quali aumentano a vista d’occhio le differenze di potere e di ricchezza e però nessun accenno compare verso un rifiuto collettivo delle nuove forme di dominio? Come mai in un sistema sociale che sforna in continuazione inedite esclusioni e cronicizza la flessibile precarietà dei lavori regna ancora più piatta la sovrastante potenza ordinatrice del capitale? Cosa impedisce la rivolta degli attori sociali in un mondo in cui le vacche del nord guadagnano con i sussidi loro erogati il doppio dei salari dei lavoratori del sud? Queste domande sono al centro del libro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso, che riflette all’interno di una serrata critica dell’ideologia contemporanea coniugando con finezza una cruda e molto informata descrizione dei processi reali e una sottile ironia.
L’autore, con alle spalle un dottorato di filosofia alla Normale, e un presente nei ruoli direttivi del mondo dell’economia e della finanza, dinanzi ai dilemmi di oggi suggerisce una risposta ai limiti della provocazione teorica. Il nucleo del suo ragionamento è questo: oggi mancano soggetti sociali combattivi perché il grande protagonista del discorso pubblico è diventata la fabbrica del falso. La menzogna con i suoi meccanismi linguistici di occultamento del dato empirico si afferma in ogni ambito del vissuto neutralizzando così i processi reali sempre più relegati su uno sfondo lontano e invisibile. Le parole chiave del lessico contemporaneo rivelano questa perdita di referenzialità che porta alla costruzione di eterei fantasmi che rendono impalpabili gli interessi sociali. Ci sono parole inventate solo per nascondere, altre invece servono per deviare e occultare.
Nel mondo attuale trionfa un aspro e selettivo sistema sociale che però preferisce rimuovere il suo ingombrante e ancora sospetto nome, capitalismo globale, per assumerne uno più mite e in apparenza gradevole, quello di economia di mercato. Il linguaggio tecnico con i suoi eufemismi leggeri contribuisce a fare del mercato proteso alla massimizzazione del profitto una cornice naturale e del tutto astorica. Per esemplificare questa torsione del linguaggio in chiave ideologica, Giacché conta che in un solo giorno la parola mercato compare ben 82 volte sul maggiore quotidiano economico. Persino il Trattato europeo parla per ben 78 volte di mercato, per 27 volte compare in esso la parola concorrenza e una sola volta esce il termine residuale occupazione. E le parole dominanti segnalano un più profondo cambiamento avvenuto nei rapporti sociali. I media rafforzano le potenze egemoni quando diffondono all’unisono una autentica metafisica dell’economia che attribuisce al mercato una ragione assoluta e contorce il senso del reale quando parla con trasporto di «restituzione» al mercato di imprese che però sono sempre state in mani pubbliche.
Oltre a parole che servono per addolcire o per sviare, la fabbrica del falso sforna parole che servono solo per stigmatizzare, per colpire un nemico immaginario per mettere all’erta altri più insidiosi. Giacché rammenta, a questo proposito, una risoluzione del 2006 con la quale il parlamento europeo invita a respingere l’ideologia comunista vista come in sé repressiva. Non se la passano bene al setaccio della repressione linguistica imperante neanche classici come Goethe, Kafka, Dostojevski che sono stati cancellati dai programmi scolastici polacchi perché giudicati immorali, nichilisti, e persino criminali. Il linguaggio serve anche a coniare parole spauracchio e per questo nella repubblica ceca è stata messa fuori legge la gioventù comunista perché nei suoi documenti ufficiali parla ancora di lotta di classe, mentre la costituzione vieta persino l’uso dell’espressione desueta e ormai criminogena. Con locuzioni devianti, con simboli ingannevoli viene coperto il crudo dominio postmoderno che Giacché rende bene con queste cifre: l’1 per cento detiene il 40 per cento del patrimonio finanziario e immobiliare del mondo, il 50 per cento delle popolazione accede solo all’1 per cento della ricchezza planetaria. Inoltre tra i 100 principali soggetti economici mondiali 51 sono imprese, 49 sono i paesi. Su queste basi materiali di dominio, lavora poi un immaginario leggiadro che nega la visibilità mediatica del conflitto e si rifugia in una neolingua del mercato che si autonomizza dalla politica.
La fenomenologia della menzogna prescrive come sua regola aurea che la visibilità stessa del disagio sociale vada sempre rimossa. Giacché ricorda che ad Atene, per i giochi olimpici del 2004, furono deportati 11 mila senzatetto. Negare la tangibilità delle contraddizioni della metropoli è un imperativo supremo per scacciare per sempre i problemi sociali dalla sfera pubblica. Per questo oggi nelle città si vieta l’accattonaggio e il sindaco si veste da sceriffo. In una società della merce, la vista del disagio estremo crea imbarazzo nei consumatori. E perché mai turbare i sensi esteticamente esigenti del consumatore finale con scene imbarazzanti di quotidiana povertà? Per gli ultimi basta la compassione, e la carità può prendere il posto della solidarietà pubblica. Importante è che nessuno pensi di mutare le condizioni sociali di esistenza, o prospetti addirittura strategie per i diritti. Vengono per questo progettate forme di esplicito depistaggio per inculcare in chiunque la paralizzante percezione di vivere insicuri. Lo Stato sociale viene così superato dallo Stato penale che deve inventarsi emergenze e nemici alle porte. Giacché rammenta che sotto Blair non solo si fece ricorso alla schedatura del dna, ma vennero impiantate 4,2 milioni di telecamere spia e inventati 3023 nuovi reati.
Per favorire l’ingresso nello Stato penale emergenziale, la menzogna più grande che viene fabbricata riguarda il lavoro. La sua sconfitta deve essere irreparabile e duratura. Le cifre al riguardo sono quelle che Giacché riporta. Trent’anni fa l’85 per cento della popolazione attiva aveva un lavoro stabile. Nel 2010 un impiego sicuro e protetto toccherà ad appena il 25 per cento. Il lavoro nelle sue retribuzioni non supera spesso la soglia di povertà. Già oggi 3 milioni di lavoratori percepiscono meno di 800 euro al mese e altri 3 milioni sono al di sotto dei mille euro. Esiste una povertà strutturale che nasce dal lavoro, non dalla esclusione dei derelitti. Eppure ciò che la grande officina del falso nasconde è proprio la ragione stessa del conflitto sociale per i diritti e per il salario migliore. In una società che rende ognuno un uomo precario, che può essere acquistato con decine di modalità contrattuali, sembrano sfumare le classi e con esse le ragioni della mobilitazione collettiva. Spesso si riscontra il paradosso, una vera forma di scissione la chiama Giacché, per cui il lavoratore, conferendo i soldi per la sua pensione ad un fondo pensione, si tramuta in investitore che potrebbe, per la sua stessa azienda, decidere delocalizzazioni, licenziamenti. In questi casi - conclude Giacché - non solo il lavoro non pagato origina il plusvalore ma è «il salario differito a trasformarsi immediatamente in capitale».
La immensa fabbrica del falso contribuisce a occultare il dominio reale facendo sì che una grande quantità di soggetti, da ritenersi senz’altro oggettivamente dei proletari postmoderni per reddito e condizione occupazionale, soggettivamente si sentano tutt’altro altro e rifiutino con sdegno ogni identificazione in termini di classe sociale. Interviene qui il miracolo del consumo che, in virtù di una gigantesca macchina mondiale adibita alla produzione illimitata dei desideri, rende tutti cacciatori instancabili di tendenze, sedotti dai messaggi della ricchezza a portata di mano, grazie a bancomat e carte di credito. Quando tutti inseguono la pubblicità per cercare di somigliare ai suoi modelli di consumo, declina ogni responsabilità civica. Compare così una democrazia sfregiata che perde ogni aggancio con l’idea di una eguaglianza da costruire con politiche di inclusione. Quello che continua a portare il nome di democrazia in realtà è sempre più uno stanco rituale con il quale una élite dell’economia e degli affari si lascia legittimare, a scadenze prefissate, dal voto passivo di elettori distratti e disincantati. Tra ingorde oligarchie del denaro e rampanti gestori dei media che si contendono il potere, la libertà torna ad essere una mera appendice della sicurezza e della proprietà che ovunque conquista posti di comando nelle istituzioni.
E che ne è del pensiero critico? La tendenza della società dell’iperconsumo è quella di fare del consumo l’unico collante sociale. Tutto l’agire sociale pare risolversi perciò in una ricerca frenetica di sponsorizzazione e in perenne organizzazione di eventi. Gli stessi luoghi classici di produzione del sapere, le università, entrano nel vortice del consumo e, benché prive di fondi per la ricerca, riescono a spendere per la pubblicità la bellezza di 20 milioni di euro. Come attendibile spirito del tempo Giacché riporta l’esemplare caso della pubblicità dell’Università di Macerata: «Liscia o Gassata? Università di Macerata fonte di cultura, sorgente di professionalità». Tutte le forme di espressione, anche quelle del sapere, assumono ormai i devianti codici espressivi della pubblicità. Depotenziato dalle metafore deformanti della neolingua della merce, il soggetto sociale ancora manca e non si presenta sulla scena pubblica. In attesa che qualcosa sconvolga la seduzione ingannevole della merce, Giacché propone di cominciare assediando intanto il linguaggio per ripulirlo, e per riconsegnare così il reale alla sua durezza espressiva. La filosofia è insomma il proprio tempo negato (per ora) solo con il pensiero.

di Michele Prospero da l’Unità del 4 agosto 2008