CONTRARIAMENTE al credo popolare, il passato non è stato più denso di avvenimenti del presente. Se così sembra, è perché guardandoci alle spalle i fatti accaduti anni e anni addietro si affastellano, e perché pochissimi dei nostri ricordi ci pervengono nella loro autentica purezza. È soprattutto grazie ai libri, ai film e alle memorie nel frattempo sopraggiunti, che alla guerra del 1914-18 viene oggi attribuito quel valore straordinario ed epico di cui l'attuale difetta.
Se tuttavia avete potuto vivere quel conflitto, e se sceverate i veri ricordi dalle aggiunte successive, vi accorgerete che non furono di solito i grandi eventi, all'epoca, a suscitare in voi forti emozioni. Non credo che la «Battaglia della Marne», ad esempio, avesse agli occhi del gran pubblico quel carattere melodrammatico che poi le è stato attribuito. Né ricordo di aver mai udito l'espressione «Battaglia della Marne», se non anni dopo l'accaduto. Era semplicemente successo che i tedeschi, portatisi a ventidue miglia da Parigi — il che era senz'altro piuttosto allarmante, dopo le atrocità commesse in Belgio — erano poi, per qualche ragione, tornati indietro. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra. Se, in tutta sincerità, metto a fuoco i miei ricordi senza tener conto di quel che ho appreso in seguito, devo ammettere che nulla, per tutta la durata del conflitto, riuscì a commuovermi così profondamente come poté l'affondamento del Titanic, appena qualche anno prima. Quella sciagura, al confronto marginale, aveva scosso il mondo intero, e lo sconcerto non si è ancora del tutto dissolto. Ricordo le terribili, minuziose cronache lette ad alta voce durante la colazione (allora era normale abitudine leggere forte il giornale), e ricordo che in quel lunghissimo campionario di orrori una notizia mi colpì più di tutte: alla fine, il Titanic si era improvvisamente portato in verticale e, quando la prua iniziò ad affondare, i passeggeri aggrappati a poppa furono sollevati ad almeno trecento piedi nell'aria, prima di sprofondare nell'abisso. Provai un gran senso di vuoto allo stomaco, che riesco quasi ancora ad avvertire. Nulla in guerra mi ha mai procurato una simile sensazione.
Dello scoppio della guerra conservo tre vivide immagini che, data la loro marginalità e irrilevanza, non sono state intaccate da alcun evento posteriore. La prima corrisponde alla caricatura dell'«Imperatore Tedesco» (credo che l'odiato appellativo di «Kaiser» acquistò popolarità soltanto qualche tempo dopo), che fece la sua comparsa alla fine di luglio. La gente fu lievemente scandalizzata da una simile irrisione della sovranità («Ma è un uomo di così bell'aspetto, davvero!»), nonostante fossimo a un passo dalla guerra. L'altra risale ai giorni in cui l'esercito requisì tutti i cavalli della nostra cittadina di campagna, e un vetturino scoppiò in lacrime, nella piazza dove si svolgeva il mercato, quando il suo animale, che da anni e anni lo serviva, gli fu strappato via. L'altra ancora è di una ressa di giovani alla stazione ferroviaria, che sgomitano per accaparrarsi i giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verde pisello (ve n'erano ancora di quel colore, all'epoca), i colletti alti, i pantaloni di foggia affusolata e le bombette, molto più di quanto non ricordi i nomi delle terribili battaglie che già infuriavano ai confini della Francia.
Degli anni centrali della guerra, ricordo soprattutto le spalle quadrate, i polpacci prominenti e il tintinnio degli speroni degli artiglieri, la cui uniforme preferivo di gran lunga a quella della fanteria. In quanto al periodo finale, se mi si chiedesse qual è onestamente il mio ricordo principe, risponderei con estrema semplicità: la margarina. A riprova dell'orribile egoismo dei bambini, già nel 1917 la guerra non ci toccava quasi più, non fosse stato per lo stomaco. Nella biblioteca della scuola, una gigantesca mappa del Fronte Occidentale venne appesa a un cavalletto, con un filo di seta rosso che correva, tracciando uno zigzag, tra varie puntine da disegno. Di tanto in tanto, il filo si muoveva di mezzo pollice in questa o quella direzione, e ogni spostamento era la spia di una montagna di cadaveri. Io non vi prestai mai attenzione. A scuola ero tra i ragazzi con un livello d'intelligenza superiore alla media, eppure non ricordo un solo evento, tra i maggiori dell'epoca, che ci apparisse nel suo autentico significato. La Rivoluzione russa, ad esempio, non ebbe su di noi alcun effetto, eccetto quei pochi i cui genitori avevano investito denaro in Russia. Tra i più giovani, la reazione pacifista aveva preso piede da ben prima che la guerra giungesse a conclusione. Essere il più svogliato possibile alle parate del Corpo addestramento ufficiali di Complemento, e non mostrare alcun interesse per la guerra, tutto ciò era considerato un segno d'illuminazione. I giovani ufficiali reduci dal conflitto, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall'atteggiamento della nuova generazione, ai cui occhi essa era del tutto insignificante, erano soliti rimproverarci la nostra mollezza. Naturalmente, non riuscivano ad addurre alcuna ragione a noi comprensibile.
Erano capaci soltanto di sbraitare che la guerra era «una buona cosa», che «ti temprava», «ti manteneva in forma», eccetera eccetera. Noi ci limitavamo a ridere sotto i baffi. Il nostro era un pacifismo di parte, tipico di Paesi protetti e con una forte marina militare. Fino a parecchi anni dopo il conflitto, possedere una qualche conoscenza o interesse per le questioni militari, o addirittura sapere da quale estremità di un fucile esce la pallottola, era motivo di sospetto nei circoli «illuminati». I fatti del 1914-18 vennero liquidati come un inutile massacro, di cui le stesse vittime furono ritenute, in un certo senso, colpevoli. Quante volte ho sorriso pensando a quel famoso manifesto di reclutamento— «Papà, che cosa hai fatto nella Grande Guerra?» (un bambino pone la domanda al genitore atterrito dalla vergogna) —, e a tutti gli uomini che saranno stati attirati nell'esercito soltanto da quella locandina, e poi disprezzati dai propri figli per non essersi dichiarati obiettori di coscienza.
Ma i morti si sono presi la rivincita, dopo tutto. Non appena la guerra scivolò nel passato, proprio la mia generazione, quella cioè dei «troppo giovani », divenne consapevole dell'enormità dell'esperienza che aveva perduto. Non ci si sentiva pienamente uomini, perché quell'esperienza mancava. Ho trascorso il grosso degli anni 1922-27 in mezzo a uomini appena più grandi di me, e che erano stati in guerra. Ne parlavano senza posa, con orrore, naturalmente, ma anche con sempre maggior nostalgia. Una nostalgia che si riverbera con estrema chiarezza nei libri inglesi sulla guerra. D'altronde, la reazione pacifista non rappresentò che una fase transitoria, e anche i «troppo giovani» erano tutti stati preparati a combattere. La gran parte del ceto medio inglese è addestrata alla guerra sin dall'infanzia, non tecnicamente ma moralmente. Il primo slogan politico che mi sovviene recitava: «We want eight, and we won't wait» («Ne vogliamo otto, e ci faremo sotto»), sottintendendo le corazzate «dreadnoughts ». A sette anni ero membro della Lega Navale e portavo un vestito alla marinara con la scritta «H.M.S. Invincible» sul berretto. Ancor prima di entrare nel Corpo addestramento ufficiali della mia scuola superiore, ero stato cadetto in collegio. Ho imbracciato fucili, a intervalli regolari, sin da quando avevo dieci anni, in preparazione non a una guerra come tante altre, ma a una guerra assai particolare, una guerra ove le cannonate risuonano in un crescendo di frenesia, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, ti rompi le unghie sui sacchetti di sabbia, e ti dimeni tra il fango e il filo spinato, verso il fuoco di sbarramento. Sono convinto che il fascino esercitato dalla Guerra civile spagnola sui miei coetanei fosse dovuto, almeno in parte, alle profonde affinità con la Grande Guerra. Vi furono momenti in cui Franco riuscì a mettere assieme abbastanza aeroplani da portare il conflitto agli standard moderni, e ad essi si devono le svolte decisive. Per il resto, tuttavia, si trattò di una copia sbiadita del 1914-18, una guerra di posizione fatta di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e stagnazione. Il settore del fronte aragonese dove mi trovavo all'inizio del 1937, doveva essere molto simile a un tranquillo reparto nella Francia del 1915. Soltanto l'artiglieria era carente. Anche nelle rare occasioni in cui sparavano contemporaneamente, tutti i cannoni dentro e fuori Huesca non bastavano che a produrre un rumore inoffensivo e intermittente, simile alla fine di un temporale. Le granate sparate dai cannoni da sei pollici di Franco si schiantavano piuttosto fragorosamente, ma non ve n'erano mai più di una dozzina per volta. Posso dire che dopo aver udito per la prima volta i colpi «da guerra» dell'artiglieria, come si usa dire, rimasi almeno in parte deluso. Era tutto così diverso dal tremendo, incessante boato che i miei sensi avevano atteso per ben vent'anni.
Non saprei dire in quale anno ho saputo per la prima volta con certezza che la guerra attuale fosse imminente. Dopo il 1936, naturalmente, era ormai una cosa ovvia, che soltanto uno sciocco non avrebbe colto. Per diversi anni avevo vissuto come un incubo l'arrivo della guerra, e talvolta giunsi anche a pronunciare discorsi e scrivere pamphlet anti-bellici. Ma alla vigilia dell'annuncio del patto russo-tedesco, sognai che la guerra era scoppiata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia il loro recondito significato freudiano, talvolta rivelano la vera condizione dei propri sentimenti. Mi fece capire due cose: primo, che allo scoppio della tanto paventata guerra avrei dovuto semplicemente provare sollievo; secondo, che in fondo ero un patriottico, che non avrei tramato né agito contro la mia sponda, che avrei appoggiato il conflitto e che vi avrei possibilmente combattuto. L'indomani, appena scese le scale, trovai il giornale con l'annuncio del viaggio di Ribbentrop a Mosca. (Il 21 agosto 1939 Ribbentrop fu invitato a Mosca, e il 23 agosto firmò con Molotov il patto russo-tedesco). La guerra era dunque imminente, e il governo, persino quello di Chamberlain, poteva contare sulla mia fedeltà. Inutile aggiungere che quest'ultima era e resta semplicemente un atto formale. Come a quasi tutti i miei conoscenti, il governo ha seccamente rifiutato di assegnarmi una qualsivoglia mansione, anche come copista o soldato semplice. Ma ciò non cambia i propri sentimenti. D'altronde, saranno costretti a servirsi di noi, prima o poi.
Credo che non avrei alcun problema a difendere le mie ragioni a sostegno della guerra, se necessario. Non c'è altra concreta alternativa: resistere a Hitler o arrendersi, e da socialista devo dire che è meglio resistere; in ogni caso, non vedo un solo argomento a favore della resa che non vanifichi il senso della resistenza repubblicana in Spagna, di quella cinese al Giappone, eccetera eccetera. Ma non voglio certo dire che sia questo il fondamento emotivo delle mie azioni. Nel sogno di quella notte capii che il patriottismo così a lungo inculcato nel ceto medio aveva fatto il suo corso, e che laddove l'Inghilterra si fosse trovata in gravi ambasce, per nessuna ragione avrei potuto compiere un sabotaggio. Ma che nessuno travisi il significato di queste parole.
Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È la devozione a qualcosa che cambia continuamente, ma misticamente appare sempre uguale a se stesso, un po' come l'attaccamento degli ex «bolscevichi bianchi» alla Russia. Prestare fedeltà sia all'Inghilterra di Chamberlain che all'Inghilterra del domani potrebbe sembrare impossibile, se non si fosse consapevoli che è un fenomeno di quotidiana ordinarietà. Soltanto una rivoluzione può salvare l'Inghilterra, ciò è evidente ormai da anni, ma la rivoluzione ora è cominciata, e potrebbe procedere abbastanza speditamente, se solo sapremo tenerci alla larga da Hitler. Nel giro di un paio d'anni, o forse uno soltanto, sol che teniamo duro, assisteremo a cambiamenti che sorprenderanno gli sciocchi privi di lungimiranza. Sui rigagnoli di Londra, non mi perito di affermarlo, dovrà scorrere sangue. D'accordo, così sia, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno acquartierate al Ritz, sentirò ancora che l'Inghilterra che mi insegnarono ad amare tanto tempo fa, e per ragioni così disparate, in qualche modo sopravvive.
Sono cresciuto in un'atmosfera permeata di militarismo, e ho poi trascorso cinque tediosi anni tra gli squilli di tromba. A tutt'oggi avverto un vago odor di sacrilegio, quando non si sta sull'attenti durante il «Dio salvi il Re». Tutto ciò è infantile, naturalmente, ma preferisco di gran lunga aver ricevuto questo tipo di educazione che non essere come quegli intellettuali di sinistra così «illuminati» da non saper comprendere le emozioni più comuni. Sono proprio gli individui che non hanno mai avuto un balzo al cuore alla vista della bandiera del Regno Unito coloro i quali, quando arriva il momento della rivoluzione, si tirano indietro. Invito a confrontare la poesia scritta da John Cornford non molto tempo prima di essere ucciso (Before the Storming of Huesca, «Prima della presa di Huesca»), con quella di Sir Henry Newbolt (There's a breathless hush in the close tonight, «C'è una quiete carica di tensione sul campo questa notte»). Se si lasciano da parte le differenze tecniche, riconducibili a una semplice distanza temporale, ecco che il contenuto emotivo delle due poesie appare pressoché identico. Il giovane comunista morto eroicamente nella Brigata Internazionale si era fatto le ossa nelle scuole d'élite. Aveva cambiato bandiera, ma non le proprie emozioni. Che cosa ne discende? Semplicemente la possibilità di tirar fuori un socialista da un ottuso reazionario, il potere di auto- trasformazione insito in qualsiasi vincolo di fedeltà, l'esigenza spirituale di patriottismo e virtù militari, dei quali, per quanta scarsa simpatia i conigli lessi della Sinistra nutrano nei loro riguardi, non si è ancora trovato un sostituto.
di George Orwell dal Corriere della Sera del 8 agosto 2008
Se tuttavia avete potuto vivere quel conflitto, e se sceverate i veri ricordi dalle aggiunte successive, vi accorgerete che non furono di solito i grandi eventi, all'epoca, a suscitare in voi forti emozioni. Non credo che la «Battaglia della Marne», ad esempio, avesse agli occhi del gran pubblico quel carattere melodrammatico che poi le è stato attribuito. Né ricordo di aver mai udito l'espressione «Battaglia della Marne», se non anni dopo l'accaduto. Era semplicemente successo che i tedeschi, portatisi a ventidue miglia da Parigi — il che era senz'altro piuttosto allarmante, dopo le atrocità commesse in Belgio — erano poi, per qualche ragione, tornati indietro. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra. Se, in tutta sincerità, metto a fuoco i miei ricordi senza tener conto di quel che ho appreso in seguito, devo ammettere che nulla, per tutta la durata del conflitto, riuscì a commuovermi così profondamente come poté l'affondamento del Titanic, appena qualche anno prima. Quella sciagura, al confronto marginale, aveva scosso il mondo intero, e lo sconcerto non si è ancora del tutto dissolto. Ricordo le terribili, minuziose cronache lette ad alta voce durante la colazione (allora era normale abitudine leggere forte il giornale), e ricordo che in quel lunghissimo campionario di orrori una notizia mi colpì più di tutte: alla fine, il Titanic si era improvvisamente portato in verticale e, quando la prua iniziò ad affondare, i passeggeri aggrappati a poppa furono sollevati ad almeno trecento piedi nell'aria, prima di sprofondare nell'abisso. Provai un gran senso di vuoto allo stomaco, che riesco quasi ancora ad avvertire. Nulla in guerra mi ha mai procurato una simile sensazione.
Dello scoppio della guerra conservo tre vivide immagini che, data la loro marginalità e irrilevanza, non sono state intaccate da alcun evento posteriore. La prima corrisponde alla caricatura dell'«Imperatore Tedesco» (credo che l'odiato appellativo di «Kaiser» acquistò popolarità soltanto qualche tempo dopo), che fece la sua comparsa alla fine di luglio. La gente fu lievemente scandalizzata da una simile irrisione della sovranità («Ma è un uomo di così bell'aspetto, davvero!»), nonostante fossimo a un passo dalla guerra. L'altra risale ai giorni in cui l'esercito requisì tutti i cavalli della nostra cittadina di campagna, e un vetturino scoppiò in lacrime, nella piazza dove si svolgeva il mercato, quando il suo animale, che da anni e anni lo serviva, gli fu strappato via. L'altra ancora è di una ressa di giovani alla stazione ferroviaria, che sgomitano per accaparrarsi i giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verde pisello (ve n'erano ancora di quel colore, all'epoca), i colletti alti, i pantaloni di foggia affusolata e le bombette, molto più di quanto non ricordi i nomi delle terribili battaglie che già infuriavano ai confini della Francia.
Degli anni centrali della guerra, ricordo soprattutto le spalle quadrate, i polpacci prominenti e il tintinnio degli speroni degli artiglieri, la cui uniforme preferivo di gran lunga a quella della fanteria. In quanto al periodo finale, se mi si chiedesse qual è onestamente il mio ricordo principe, risponderei con estrema semplicità: la margarina. A riprova dell'orribile egoismo dei bambini, già nel 1917 la guerra non ci toccava quasi più, non fosse stato per lo stomaco. Nella biblioteca della scuola, una gigantesca mappa del Fronte Occidentale venne appesa a un cavalletto, con un filo di seta rosso che correva, tracciando uno zigzag, tra varie puntine da disegno. Di tanto in tanto, il filo si muoveva di mezzo pollice in questa o quella direzione, e ogni spostamento era la spia di una montagna di cadaveri. Io non vi prestai mai attenzione. A scuola ero tra i ragazzi con un livello d'intelligenza superiore alla media, eppure non ricordo un solo evento, tra i maggiori dell'epoca, che ci apparisse nel suo autentico significato. La Rivoluzione russa, ad esempio, non ebbe su di noi alcun effetto, eccetto quei pochi i cui genitori avevano investito denaro in Russia. Tra i più giovani, la reazione pacifista aveva preso piede da ben prima che la guerra giungesse a conclusione. Essere il più svogliato possibile alle parate del Corpo addestramento ufficiali di Complemento, e non mostrare alcun interesse per la guerra, tutto ciò era considerato un segno d'illuminazione. I giovani ufficiali reduci dal conflitto, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall'atteggiamento della nuova generazione, ai cui occhi essa era del tutto insignificante, erano soliti rimproverarci la nostra mollezza. Naturalmente, non riuscivano ad addurre alcuna ragione a noi comprensibile.
Erano capaci soltanto di sbraitare che la guerra era «una buona cosa», che «ti temprava», «ti manteneva in forma», eccetera eccetera. Noi ci limitavamo a ridere sotto i baffi. Il nostro era un pacifismo di parte, tipico di Paesi protetti e con una forte marina militare. Fino a parecchi anni dopo il conflitto, possedere una qualche conoscenza o interesse per le questioni militari, o addirittura sapere da quale estremità di un fucile esce la pallottola, era motivo di sospetto nei circoli «illuminati». I fatti del 1914-18 vennero liquidati come un inutile massacro, di cui le stesse vittime furono ritenute, in un certo senso, colpevoli. Quante volte ho sorriso pensando a quel famoso manifesto di reclutamento— «Papà, che cosa hai fatto nella Grande Guerra?» (un bambino pone la domanda al genitore atterrito dalla vergogna) —, e a tutti gli uomini che saranno stati attirati nell'esercito soltanto da quella locandina, e poi disprezzati dai propri figli per non essersi dichiarati obiettori di coscienza.
Ma i morti si sono presi la rivincita, dopo tutto. Non appena la guerra scivolò nel passato, proprio la mia generazione, quella cioè dei «troppo giovani », divenne consapevole dell'enormità dell'esperienza che aveva perduto. Non ci si sentiva pienamente uomini, perché quell'esperienza mancava. Ho trascorso il grosso degli anni 1922-27 in mezzo a uomini appena più grandi di me, e che erano stati in guerra. Ne parlavano senza posa, con orrore, naturalmente, ma anche con sempre maggior nostalgia. Una nostalgia che si riverbera con estrema chiarezza nei libri inglesi sulla guerra. D'altronde, la reazione pacifista non rappresentò che una fase transitoria, e anche i «troppo giovani» erano tutti stati preparati a combattere. La gran parte del ceto medio inglese è addestrata alla guerra sin dall'infanzia, non tecnicamente ma moralmente. Il primo slogan politico che mi sovviene recitava: «We want eight, and we won't wait» («Ne vogliamo otto, e ci faremo sotto»), sottintendendo le corazzate «dreadnoughts ». A sette anni ero membro della Lega Navale e portavo un vestito alla marinara con la scritta «H.M.S. Invincible» sul berretto. Ancor prima di entrare nel Corpo addestramento ufficiali della mia scuola superiore, ero stato cadetto in collegio. Ho imbracciato fucili, a intervalli regolari, sin da quando avevo dieci anni, in preparazione non a una guerra come tante altre, ma a una guerra assai particolare, una guerra ove le cannonate risuonano in un crescendo di frenesia, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, ti rompi le unghie sui sacchetti di sabbia, e ti dimeni tra il fango e il filo spinato, verso il fuoco di sbarramento. Sono convinto che il fascino esercitato dalla Guerra civile spagnola sui miei coetanei fosse dovuto, almeno in parte, alle profonde affinità con la Grande Guerra. Vi furono momenti in cui Franco riuscì a mettere assieme abbastanza aeroplani da portare il conflitto agli standard moderni, e ad essi si devono le svolte decisive. Per il resto, tuttavia, si trattò di una copia sbiadita del 1914-18, una guerra di posizione fatta di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e stagnazione. Il settore del fronte aragonese dove mi trovavo all'inizio del 1937, doveva essere molto simile a un tranquillo reparto nella Francia del 1915. Soltanto l'artiglieria era carente. Anche nelle rare occasioni in cui sparavano contemporaneamente, tutti i cannoni dentro e fuori Huesca non bastavano che a produrre un rumore inoffensivo e intermittente, simile alla fine di un temporale. Le granate sparate dai cannoni da sei pollici di Franco si schiantavano piuttosto fragorosamente, ma non ve n'erano mai più di una dozzina per volta. Posso dire che dopo aver udito per la prima volta i colpi «da guerra» dell'artiglieria, come si usa dire, rimasi almeno in parte deluso. Era tutto così diverso dal tremendo, incessante boato che i miei sensi avevano atteso per ben vent'anni.
Non saprei dire in quale anno ho saputo per la prima volta con certezza che la guerra attuale fosse imminente. Dopo il 1936, naturalmente, era ormai una cosa ovvia, che soltanto uno sciocco non avrebbe colto. Per diversi anni avevo vissuto come un incubo l'arrivo della guerra, e talvolta giunsi anche a pronunciare discorsi e scrivere pamphlet anti-bellici. Ma alla vigilia dell'annuncio del patto russo-tedesco, sognai che la guerra era scoppiata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia il loro recondito significato freudiano, talvolta rivelano la vera condizione dei propri sentimenti. Mi fece capire due cose: primo, che allo scoppio della tanto paventata guerra avrei dovuto semplicemente provare sollievo; secondo, che in fondo ero un patriottico, che non avrei tramato né agito contro la mia sponda, che avrei appoggiato il conflitto e che vi avrei possibilmente combattuto. L'indomani, appena scese le scale, trovai il giornale con l'annuncio del viaggio di Ribbentrop a Mosca. (Il 21 agosto 1939 Ribbentrop fu invitato a Mosca, e il 23 agosto firmò con Molotov il patto russo-tedesco). La guerra era dunque imminente, e il governo, persino quello di Chamberlain, poteva contare sulla mia fedeltà. Inutile aggiungere che quest'ultima era e resta semplicemente un atto formale. Come a quasi tutti i miei conoscenti, il governo ha seccamente rifiutato di assegnarmi una qualsivoglia mansione, anche come copista o soldato semplice. Ma ciò non cambia i propri sentimenti. D'altronde, saranno costretti a servirsi di noi, prima o poi.
Credo che non avrei alcun problema a difendere le mie ragioni a sostegno della guerra, se necessario. Non c'è altra concreta alternativa: resistere a Hitler o arrendersi, e da socialista devo dire che è meglio resistere; in ogni caso, non vedo un solo argomento a favore della resa che non vanifichi il senso della resistenza repubblicana in Spagna, di quella cinese al Giappone, eccetera eccetera. Ma non voglio certo dire che sia questo il fondamento emotivo delle mie azioni. Nel sogno di quella notte capii che il patriottismo così a lungo inculcato nel ceto medio aveva fatto il suo corso, e che laddove l'Inghilterra si fosse trovata in gravi ambasce, per nessuna ragione avrei potuto compiere un sabotaggio. Ma che nessuno travisi il significato di queste parole.
Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È la devozione a qualcosa che cambia continuamente, ma misticamente appare sempre uguale a se stesso, un po' come l'attaccamento degli ex «bolscevichi bianchi» alla Russia. Prestare fedeltà sia all'Inghilterra di Chamberlain che all'Inghilterra del domani potrebbe sembrare impossibile, se non si fosse consapevoli che è un fenomeno di quotidiana ordinarietà. Soltanto una rivoluzione può salvare l'Inghilterra, ciò è evidente ormai da anni, ma la rivoluzione ora è cominciata, e potrebbe procedere abbastanza speditamente, se solo sapremo tenerci alla larga da Hitler. Nel giro di un paio d'anni, o forse uno soltanto, sol che teniamo duro, assisteremo a cambiamenti che sorprenderanno gli sciocchi privi di lungimiranza. Sui rigagnoli di Londra, non mi perito di affermarlo, dovrà scorrere sangue. D'accordo, così sia, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno acquartierate al Ritz, sentirò ancora che l'Inghilterra che mi insegnarono ad amare tanto tempo fa, e per ragioni così disparate, in qualche modo sopravvive.
Sono cresciuto in un'atmosfera permeata di militarismo, e ho poi trascorso cinque tediosi anni tra gli squilli di tromba. A tutt'oggi avverto un vago odor di sacrilegio, quando non si sta sull'attenti durante il «Dio salvi il Re». Tutto ciò è infantile, naturalmente, ma preferisco di gran lunga aver ricevuto questo tipo di educazione che non essere come quegli intellettuali di sinistra così «illuminati» da non saper comprendere le emozioni più comuni. Sono proprio gli individui che non hanno mai avuto un balzo al cuore alla vista della bandiera del Regno Unito coloro i quali, quando arriva il momento della rivoluzione, si tirano indietro. Invito a confrontare la poesia scritta da John Cornford non molto tempo prima di essere ucciso (Before the Storming of Huesca, «Prima della presa di Huesca»), con quella di Sir Henry Newbolt (There's a breathless hush in the close tonight, «C'è una quiete carica di tensione sul campo questa notte»). Se si lasciano da parte le differenze tecniche, riconducibili a una semplice distanza temporale, ecco che il contenuto emotivo delle due poesie appare pressoché identico. Il giovane comunista morto eroicamente nella Brigata Internazionale si era fatto le ossa nelle scuole d'élite. Aveva cambiato bandiera, ma non le proprie emozioni. Che cosa ne discende? Semplicemente la possibilità di tirar fuori un socialista da un ottuso reazionario, il potere di auto- trasformazione insito in qualsiasi vincolo di fedeltà, l'esigenza spirituale di patriottismo e virtù militari, dei quali, per quanta scarsa simpatia i conigli lessi della Sinistra nutrano nei loro riguardi, non si è ancora trovato un sostituto.
di George Orwell dal Corriere della Sera del 8 agosto 2008
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