Nel discorso di Capodanno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha proposto di fare della crisi un´occasione "per impegnarci a ridurre sempre più le acute disparità che si manifestano nei redditi e nelle condizioni di vita". Supponiamo per un momento che il governo o l´opposizione prendano sul serio le sue parole. Caso mai lo facessero, dovrebbero elaborare una politica rivolta a ridurre in modo stabile le disparità, ovvero le disuguaglianze socio-economiche osservabili nel nostro paese. Il percorso da seguire a tale scopo comprenderebbe diverse tappe. Vediamo quali sarebbero le principali.
Anzitutto, parlando dell´Italia, è poi vero che da noi le disuguaglianze sono maggiori che in altri paesi? Ammesso che lo siano, perché mai il potere politico dovrebbe preoccuparsene? Una risposta alla prima domanda l´ha fornita l´Ocse con un rapporto pubblicato un paio di mesi fa. Sui trenta paesi aderenti all´Ocse, soltanto 5 presentano indici di disuguaglianza superiori all´Italia, mentre ben 24 presentano indici inferiori. D´altra parte i ricercatori della Banca d´Italia forniscono da anni dati analoghi. In Italia il 20 per cento della popolazione più povera percepisce meno del 7 per cento del reddito totale; il 20 per cento più ricco riceve più del 41 per cento. Se si guarda al patrimonio, le disuguaglianze sono anche più grandi: il 10 per cento formato dalle famiglie più ricche detiene la metà della ricchezza reale e finanziaria, mentre la metà formata da quelle più povere possiede appena il 10 per cento della ricchezza totale. Soltanto gli Usa, il Brasile e pochissimi altri paesi mostrano disuguaglianze altrettanto piramidali.
La politica, sostiene la destra, non dovrebbe occuparsi delle disuguaglianze socio-economiche. Perché in fondo, essa dice, sono giuste. Coloro che stanno in alto lo debbono nell´insieme a un impegno nello studio e sul lavoro superiore a quello di coloro che stanno in basso. Se lo Stato interviene in tale processo, sminuisce il riconoscimento dovuto ai primi e compensa i secondi che non se lo meritano. Sostenendo questo la destra commette due errori. Il primo fattuale, perché la spiegazione vale per casi individuali, ma per un fenomeno collettivo come le disuguaglianze socio-economiche non c´è evidenza disponibile che la confermi. Il secondo errore è politico.
Chi si trova nella parte bassa della distribuzione del reddito e della ricchezza ha in media una vita più corta di qualche anno; svolge un lavoro più faticoso; si nutre come può; tende ad ammalarsi più spesso; stenta a mandare i figli all´asilo da piccoli come alle superiori o all´università da grandi; spreca in media un paio d´ore al giorno a fare il pendolare; a suo tempo, avrà una pensione da fame. Soprattutto, chi si trova nelle predette condizioni non conta niente nelle decisioni che vengono assunte dal potere politico giusto in tema di organizzazione del lavoro, salari, sanità, prezzi, costo e disponibilità di asili, scuola, trasporti pubblici, pensioni. Ora, finché si tratta d´una parte modesta della popolazione, un problema politico non si pone per chi sta in cima alla piramide: quelli che stanno alla base sono semplicemente invisibili. Quando invece capita che la base diventi maggioranza, o si affronta la questione delle disuguaglianze sul piano politico, oppure esse corrompono in profondità le strutture della società che le ha tollerate fino a quel punto. Che è il limite al quale l´Italia pare si stia approssimando.
Un segno del suo approssimarsi è evidente nel prolungato peggioramento delle disparità di salario tra l´Italia e i maggiori paesi europei. I rapporti dell´Ocse e alcuni recentissimi dell´Organizzazione Internazionale del Lavoro, datati addirittura 2009, non lasciano dubbi. Tra il 1995 e il 2005 le retribuzioni reali al netto dell´inflazione sono cresciute in Italia d´un misero 1,5 per cento, contro il 9,5 della Germania, il 14,5 della Francia e il 25,5 del Regno Unito. Se però i salari vengono misurati tenendo conto, oltre che dell´inflazione, anche della parità di potere d´acquisto, i salari italiani risultano diminuiti del 16 per cento tra il 1988 e il 2006. L´Oil precisa che questo è il maggior declino delle retribuzioni osservato in 11 paesi dell´eurozona per cui erano disponibili dati comparabili. Il declino ha un riflesso diretto nella quota che i salari rappresentano sul Pil: tra il 1979 e il 2007 tale quota è diminuita in Italia di quasi il 13 per cento. Al presente costituisce solamente il 55 per cento del Pil, sebbene i lavoratori dipendenti regolarmente occupati, quindi captati dalle rilevazioni Istat, siano cresciuti nel frattempo di alcuni milioni. A ragione l´Oil parla di "una vera emergenza salariale in Italia".
Superata la tappa dell´accertamento dei dati, una politica volta a ridurre le disuguaglianze dovrebbe interrogarsi sulle loro numerose cause. Basta scegliere quelle su cui concentrarsi. La produttività delle imprese italiane, che dovrebbe essere fatta anzitutto di ricerca e sviluppo, prodotti innovativi, organizzazione del lavoro ad elevato contenuto professionale, nonché mezzi di produzione idonei a migliorare la qualità di prodotti e servizi e non soltanto a risparmiare lavoro, ristagna da circa un decennio. Le imprese piccole pagano salari molto più bassi in media che non quelle grandi, e l´Italia ha un numero spropositato di esse. Alle politiche attive e passive del lavoro, intese a facilitare un rapido ritorno al lavoro di chi lo ha perso, l´Italia destina poco più dello 0,5 per cento del Pil; Germania, Francia e Spagna, quasi cinque volte tanto. Infine la finanziarizzazione delle imprese ha dirottato masse di capitali che potevano andare agli investimenti verso impieghi improduttivi, come il riacquisto di azioni proprie e i compensi astronomici ai manager sotto forma di stock option, bonus, paracadute e pensioni d´oro in aggiunta allo stipendio.
In compenso è cresciuto il numero dei miliardari in dollari facenti parte del decimo al top delle persone più ricche del mondo. Quelli italiani formano ora il 7 per cento di tale decimo, appena un punto meno della Germania che ha una popolazione molto più grande, e tra 1 e 3 punti in più rispetto a Regno Unito, Francia e Spagna.
Allo scopo di elaborare una politica diretta a ridurre stabilmente le disparità di reddito, come richiesto dal Capo dello Stato, occorre coraggio e consenso sociale. Il primo, è noto, se uno non ce l´ha non se lo può dare. Quanto al consenso, il governo in carica pensa evidentemente di averlo trovato distribuendo qualche euro una tantum ai poverissimi e ad una frazione minima dei precari. L´opposizione farebbe invece bene a pensare di accrescere il proprio prendendo sul serio l´invito di Napolitano. Tenendo conto che in assenza d´una simile politica l´emergenza salariale di cui scrive l´Oil, con le sue componenti finanziarie, potrebbe notevolmente peggiorare nel corso del 2009.
di Luciano Gallino da la Repubblica del 7 gennaio 2009
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