Caro direttore, rinviato di un anno a causa delle elezioni anticipate, il referendum Segni-Guzzetta torna di attualità risvegliando nella maggioranza tensioni che si credevano sopite. I referendari chiedono di andare al voto il 7 giugno unitamente alle elezioni europee e al primo turno delle amministrative.
Scopo dichiarato è quello di risparmiare una cifra che i referendari indicano in 400 milioni e il ministro Maroni in 173. Scopo reale quello di avvalersi della concomitanza delle elezioni per raggiungere il quorum della metà più uno degli elettori prescritto dalla legge per la validità dei referendum. Quanto i referendari tacciono, e molti dei commentatori non dicono, è che - proprio per assicurare che la partecipazione sia spontanea e non indotta artificiosamente - il referendum non deve tenersi in coincidenza con altre consultazioni elettorali. Poiché la legge prescrive che i referendum si tengano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, la sola data di giugno che soddisfi ogni precedente e ogni requisito di legge è il 14. Ogni altra data richiederebbe una modifica normativa che, in ragione dei tempi, imporrebbe un ricorso alla decretazione di urgenza. Ma l'obbligo di fissare una data essendo noto da oltre un anno, è indubbio che non ricorrano le condizioni di "necessità e urgenza" prescritte dalla Costituzione. L'adozione di un decreto legge in materia elettorale potrebbe così giustificarsi solo in presenza di un generale consenso tra le forze politiche che garantendone una pronta ratifica sanasse l'avvenuta forzatura della legittimità costituzionale, consenso - che stando agli ultimi annunci - è forse possibile sulla data del 21 ma non certo su quella del 7 giugno.
Si aggiunga che l'abbinamento del referendum con le elezioni non è un fatto tecnico di scarso rilievo, ma un intervento politico di grande portata che, favorendo il successo del referendum, modificherebbe profondamente la natura del nostro sistema politico. Il referendum non porta risposta ad uno dei principali difetti dell'attuale legge elettorale: contrariamente a quanto affermano i referendari, mantenendo le liste bloccate, la vittoria del "si" non ridarebbe ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, conservando alle segreterie dei partiti il potere di nominarli a proprio piacimento. Ma a questa mancata modifica, il referendum aggiungerebbe un'innovazione ancor più nefasta: la nascita di "partiti-coalizione" profondamente disomogenei, ove i precedenti partiti sopravviverebbero sotto forma di correnti organizzate. Anziché avere una frammentazione limitata dal ricorso a soglie di sbarramento, avremmo una proliferazione incontrollata di gruppi vecchi e nuovi, uniti al solo scopo di conseguire il premio di maggioranza, ma privi di una comune identità. Le difficoltà che già oggi si avvertono nel Pd e nel PdL ne uscirebbero ingigantite. Né questo sarebbe il solo male: al posto dell'attuale "multipartitismo moderato" , caratterizzato da 5 partiti al di sopra del 4%, pienamente compatibile con quella "competizione bipolare" che è la vera essenza del bipolarismo, avremmo un bipartitismo indotto forzosamente che paradossalmente finirebbe col negare proprio l'alternarsi al governo di centro-destra e centro-sinistra. L'incipiente e ancor timida democrazia dell'alternanza cui abbiamo assistito negli ultimi anni è stata infatti resa possibile dall'autonomia rispetto al PdL di UdC e Lega, e nel centro-sinistra dalla capacità dell'IdV di intercettare elettori altrimenti orientati verso l'astensione o un voto di protesta radicale. Senza Lega, UdC, e IdV non avremmo una competizione bipolare ma un netto e stabile predominio del centro-destra sul centro-sinistra. Non un sistema competitivo, con un frequente alternarsi di governo e opposizione, ma il progressivo affermarsi di un sistema a partito dominante. Non l'annunciato salvifico bipartitismo, ma una nuova forma di "bipartitismo imperfetto". Ogni qualvolta si è assistito in Italia ad una riduzione della competizione ad un confronto diretto tra destra e sinistra senza la possibile mediazione di forze di centro, la sfida ha infatti premiato la destra. Costretti a scegliere tra destra e sinistra gli elettori del centro moderato hanno sempre scelto a destra: nel 1924, nel 1948, e nuovamente oggi con Berlusconi. In altre parole, una sinistra riformista può vincere e governare in Italia solo rinunciando ad ogni pretesa di autosufficienza e solo se sostenuta da autonome forze di centro. Adottare con il referendum un sistema elettorale che, distruggendo il centro e ogni spazio di autonomia per i partiti non allineati, favorisse strutturalmente la destra sarebbe per il centro-sinistra e per i suoi elettori una vera e propria forma di eutanasia politica. A ciò si aggiunga che attribuendo il 55% dei seggi alla lista più votata il referendum può porre alla portata del partito dominante persino la modifica della Costituzione con 2/3 dei voti e senza possibilità di referendum confermativo. Una ragione in più per evitare l'election day, e non ricorrere ad un decreto che oltre a porre seri problemi di legittimità costituzionale rappresenterebbe un grave rischio per la democrazia dell'alternanza.
di Stefano Passigli da il Riformista del 16 aprile 2009
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