Il ministro dell'Interno risponde alla domanda di John Lloyd che aveva chiesto: "Che cosa vuol dire definirsi socialisti?"
Caro direttore,ù l'articolo di John Lloyd, "Che cosa vuol dire definirsi socialisti", pubblicato giorni addietro da "La Repubblica", rivolge ai socialisti la classica domanda esistenziale: ma dopo tanti anni e tanti cambiamenti in che cosa consiste la vostra identità? Siete proprio sicuri che la potete considerare ancora socialista, visto che ora liberalizzate l'economia anziché nazionalizzarla, riducete le pensioni pubbliche e fate spazio alla previdenza privata e fate vostre istanze che un tempo avreste ritenuto moderate e altrui? Siete - sia chiaro - una ammirevole forza di progresso nelle odierne società europee e vi state battendo per valori e principi tutti da condividere. Ma la visione che offrite, il pluralismo, la solidarietà, l'ambientalismo e la passione democratica che oggi connotano voi, e non solo voi, li potete davvero ricondurre alla vostra "fierezza" socialista?
Capisco le domande e condivido l'approdo a cui vogliono portare. Ma da vecchio socialista riformista, che si è sempre battuto contro le visioni autoritarie e stataliste in vario modo prevalse nella mia famiglia politica nel corso del ventesimo secolo, sento il bisogno di rivendicare quei tratti identitari, che il socialismo lo fanno riconoscere più nella sinistra dei diritti e del pluralismo di oggi, che in quella dello statalismo di ieri. Si tratta, del resto, dei suoi tratti originari, perché la grande aspirazione di cui il movimento socialista seppe farsi storicamente interprete, l'aspirazione all'eguaglianza, era geneticamente collegata alla libertà, esprimeva il sacrosanto desiderio dei tanti di avere quel bene - la libertà - di cui soltanto i pochi avevano goduto in precedenza.
Lo so bene che proprio in ragione delle ideologie poi prevalse nel movimento socialista eguaglianza e libertà hanno finito per contrapporsi, tanto da fare del "socialismo liberale" un ossimoro coltivato a lungo da una minoranza e guardato addirittura dai più (all'interno della famiglia) come un cedimento al nemico di classe. Ma la verità delle cose è che da quell'ossimoro, in realtà, eravamo partiti e ad esso siamo infine tornati dopo che le ragioni di quei più si sono rivelate errori, se non vere e proprie tragedie, e che loro stessi hanno finito per accettarne i postulati.
Nella storia, dai greci sino alla rivoluzione francese, l'eguaglianza aveva sempre avuto per metro le libertà e i diritti. E proprio per questo ottenere eguaglianza aveva sempre significato arrivare a condividere libertà e diritti dai quali si era in precedenza esclusi. Non era un'aspirazione diversa, anzi era solo più ampia e diffusa, quella che nell'800 trovò le sue radici nelle durezze del nascente capitalismo industriale mentre perdurava lo sfruttamento nelle campagne. E fu davanti alle sconvolgenti novità di quel tempo che presero corpo, sino a prevalere, ideologie che incrinarono lo storico collegamento fra eguaglianza e libertà, ipotizzando nuove organizzazioni sociali complessive che l'eguaglianza l'avrebbero realizzata attraverso trattamenti uniformi erogati dall'alto e a scapito quindi della libertà. Tutto ciò sarebbe accaduto - si intende - in nome di una "superiore" libertà e in base al principio - incontestabile - che estendere davvero ai tanti le libertà dei pochi non è operazione fattibile estendendo sic et simpliciter gli assetti esistenti: l'istruzione a tutti non la si dà portando un tutore in tutte le famiglie, la si dà creando la scuola pubblica.
Ma l'ubris delle ideologie (non solo socialiste) del tempo fu tale che si andò ben oltre nella progettazione delle future società dell'eguaglianza. E in casa socialista gli elementi di analisi e interpretazione della storia forniti da Marx, indiscutibilmente formidabili, divennero tuttavia ben di più, divennero una scienza che pretese di imporsi alla stessa storia e di farla evolvere secondo regole che, se ben conosciute e applicate senza errori, avrebbero portato ai risultati voluti. A una tale scienza si ispirò il comunismo, ma da essa non fu immune neppure la socialdemocrazia burocratica e deterministica, alla quale, non a caso, si contrappose Bernstein, ricordando che la storia non si dirige verso fini, ma è nutrita di movimenti in cui occorre farsi largo cercando di avere una bussola.
C'è voluto oltre un secolo perché Bernstein avesse ragione e l'avessero con lui tutti i socialisti che avevano visto e vedevano l'inammissibile potenziale di potere, partitico, burocratico e statale, che scaturiva dall'impostazione prevalente: con conseguenze tragiche laddove quel potenziale si era tradotto in regimi comunisti, con conseguenze distorsive, diseguali e dispersive di risorse laddove si era tradotto in nazionalizzazioni e pubblicizzazioni a tappeto in contesti socialdemocratici. Certo si è che oggi a prevalere sono i postulati dell'ossimoro liberal-socialista: la storia non è guidata da regole scientifiche, ma è mossa da azioni e interazioni dall'esito imprevedibile, nessuno può aspettarsi di realizzare un futuro già scritto, garantire la libertà a chi non l'ha significa metterlo in condizioni di camminare sulle sue gambe e non fargli nunc et semper da angelo custode, la pubblicizzazione non è una forma di contrasto del potere privato nell'economia necessariamente migliore dell'antitrust.
Non è il tramonto, è la vittoria del socialismo, sono indotto a dire io. E ci tengo a che la si legga così, altrimenti si rischia ciò in cui anche Lloiyd cade e cioè di vedere sfumare, a questo punto, le differenze più rilevanti fra destra e sinistra. Lloyd dice: a questo punto da voi non mi aspetto differenze eclatanti, mi aspetto solidarietà, integrità e rispetto della "rule of law" in misura "maggiore" che dalla destra. Manca qualcosa in questa lettura, manca la percezione di quella che era e non può non rimanere la bussola basilare dei socialisti: la libertà per i più e non per i pochi. Seguire questa bussola può anche portare a differenze che in più casi si manifestano come quantitative. Ma c'è indiscutibilmente qualcosa di più.
Certo, non posso non essere consapevole della storia, né del fatto che la storia la si paga sempre: non tanto e non soltanto la storia comunista, che non è quella del mio socialismo, quanto la storia della stessa socialdemocrazia, per la parte rilevantissima in cui questa finì per immedesimarsi con un ruolo dello Stato nell'economia che, specie dopo la crisi del '29, ebbe anche ispirazioni diverse, produsse positivi effetti di stabilizzazione, ma è oggi largamente superato. Una tale immedesimazione pesa ancora oggi sull'identità socialista, di sicuro pesa sulla lettura che gli altri ne danno e quindi sulla sua stessa capacità di attrazione. D'altra parte il socialismo liberale, in ragione della sua storica e pur immeritata minorità, non potrebbe mai bastare a realizzare da solo il fine della "libertà eguale". Deve tenerlo distinto e lontano dalle accentuazioni individualistiche che avvelenano le società del nostro tempo e deve per questo sapersi legare ai movimenti, in genere di ispirazione religiosa, fortemente orientati alla solidarietà collettiva ed alla responsabilità verso gli altri. Con loro e non solo con loro deve altresì creare una rete che, in ogni parte del mondo, la libertà eguale la radichi e la faccia maturare, tagliando l'erba sotto i piedi, non solo ai tradizionali fattori di sfruttamento e di emarginazione, ma anche alle ideologie radicali e ai populismi che, in nome della emancipazione, minacciano di produrre nuove e vecchie schiavitù e di destabilizzare il mondo.
Sono dunque socialista e fiero di esserlo. Ma proprio per questo sono pronto a confondere la mia identità con quella di quanti, nel contesto del nuovo secolo, in Italia e in Europa, in Europa e nel mondo, possono concorrere a realizzare con me l'ossimoro in cui ho sempre creduto.
di Giuliano Amato da la Repubblica del 22 agosto 2006
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