martedì 5 settembre 2006

Ecco perché il socialismo non può morire

I CRITICI del socialismo come movimento sia ideale sia organizzato hanno a mio avviso pienamente ragione a denunciare il dato evidente che al suo interno regna una forte confusione e a ritenere che con esso occorra fare i conti. Stando alle voci che hanno trovato eco su questo giornale, la grande maggioranza pensa che si tratti di chiudere i conti con un'esperienza che ha avuto un'enorme importanza storica, ma che ora si presenta definitivamente esaurita. Amato va controcorrente, però solo in parte, poiché anch'egli non ritiene auspicabile o difendibile la persistenza della sua autonomia organizzativa. In effetti, nessuno può chiudere gli occhi di fronte al fatto che sopravvive un'Internazionale socialista, esiste un Partito socialista europeo, operano nel mondo un numero assai elevato di partiti socialisti, ma che tutti navigano in un mare incerto, nella prevalente difficoltà di elaborare strategie, programmi di governo che diano loro una distinta fisionomia, insomma di presentare un volto ideale e politico ben definito. Se si tratti di morte come affermano Lloyd e Giddens o meno, certo la malattia è grave. Ma l'interrogativo che pongo è il seguente: è solo il socialismo a non essere in buona salute? Dove e chi sono le correnti, le organizzazioni e i partiti in grado di lanciare messaggi limpidi, di proporre piattaforme davvero efficaci in relazione ai problemi sempre più complessi della governabilità dell'Occidente e più in generale del mondo?
Mi pare di ben comprendere le critiche rivolte allo stato attuale del socialismo da Lloyd, Giddens e Touraine, ma devo d'altra parte dire di non poter fare altrettanto per quanto attiene alle loro conclusioni.
Poiché il socialismo è morto o muore se altri è ben vivo, se altre forze sono in grado di recepirne le istanze di fondo che si ammette abbiano una loro autentica validità e di incorporale in sé; altrimenti le cose si complicano. Oggi si parla della morte del socialismo perché esso è in crisi. Ma quante volte è parso che il liberalismo fosse defunto e che lo fosse anche la democrazia? Al solo socialismo bisogna negare la possibilità di una ripresa?
Chi guardi alla scena che si presenta la vede, a mio giudizio, dominata dai seguenti fattori. L'ondata neoliberista nell'era della globalizzazione ha innalzato la bandiera della libertà dei soggetti economici e dell'espansione del mercato; ma i soggetti protagonisti del mercato globale sono i grandi potentati finanziari ed industriali, che piegano la società ai loro prevalenti interessi, esercitano un'influenza decisiva sulle politiche degli Stati e non esitano quando loro conveniente a difendere monopoli e a invocare politiche protezionistiche, sono responsabili in molti paesi di vaste pratiche di corruzione, generano una distribuzione delle risorse che negli ultimi anni ha portato ad un divario sempre crescente tra le quote di reddito dei ceti alti e quelli medio-bassi. La solidarietà sociale viene largamente invocata, ma si attacca come statalismo il prelievo fiscale che può rendere disponibili le risorse necessarie ad attuarla.
L'assistenza sanitaria è assicurata ad alti livelli per chi può pagarla e lo è sempre meno a chi dipende da un settore pubblico impoverito. Mentre i ricchi godono di mezzi che garantiscono loro una tranquilla continuità di reddito ed elevati consumi, troppi sono coloro che dispongono di retribuzioni insufficienti o che lottano in condizioni di precarietà o di povertà per avere un salario.
Ma vorrei sottolineare un altro elemento di importanza allarmante. La libertà dei grandi soggetti economici alla ricerca del profitto è accompagnata dal saccheggio dell'ambiente che non trova gli ostacoli dovuti in molti paesi da parte degli Stati a partire dalla ricca America per arrivare, con scenari inquietanti, ai paesi attualmente più rampanti come la Cina e l'India. Orbene chi se non il potere pubblico, che si vorrebbe ridotto sempre più ai minimi termini, può dotarsi dei mezzi per affrontare le questioni sopra indicate?
Il socialismo moderno è sorto per rispondere a tre esigenze: lottare contro le forme di società che privano gran parte degli individui dei beni materiali e spirituali per sviluppare in modi "umani" la propria personalità; organizzare e mobilitare gli strati sociali privati in parte o in tutto di questi beni; dare alla società indirizzi di governo per pervenire a una distribuzione delle risorse che impedisca a una parte di costruire il proprio benessere sul malessere altrui.
Storicamente questi obiettivi sono stati interpretati e applicati nel Novecento in due maniere diverse: l'una radicale intesa ad agire mediante la rivoluzione, la dittatura e l'abolizione della proprietà privata; l'altra con le riforme, la democrazia, il ricorso al potere pubblico per regolare il mercato, impedire un uso predatorio delle risorse prodotte a favore degli strati privilegiati, varare istituzioni in grado di proteggere i più deboli e di promuoverne il miglioramento non contingente delle loro condizioni. I critici del socialismo anche democratico fanno carico a questo di aver perseguito forme accentuate di statalismo economico con il potenziamento del "sistema misto". Sennonché questo tipo di statalismo - è il caso di ricordare - è stato il prodotto di una tendenza che ha largamente dominato il secolo, tanto da essere stato fatto proprio anche da governi liberaldemocratici e fascisti. I governi socialdemocratici e laburisti ne hanno rappresentato una variante orientata a scopi umanistici e sociali.
La via comunista è andata incontro ad un fallimento; quella socialdemocratica ha ottenuto grandi risultati. Ha però anch'essa irrimediabilmente chiuso il suo ciclo nel 1989? Touraine sostiene che oggi, dopo la fase neoliberista contrassegnata dalla "onnipotenza" dei dirigenti dell'economia, dalla "pioggia d'oro" finita nelle tasche dei manager, dall'acquiescenza degli Stati ai loro interessi particolari, l'opinione pubblica chiede "una sterzata a sinistra". Sennonché non la vuole posta sotto il segno del socialismo. Osservando la debolezza dei partiti socialisti e dei sindacati ritiene che i soggetti atti a farsene carico possano essere piuttosto i movimenti di base, le associazioni, le organizzazioni non governative ovvero "la società civile" (e a opporre al ruolo dei partiti socialisti quello della società civile sono anche Lloyd e Giddens).
Qui sorge la questione di fondo. E' possibile attuare una sterzata a sinistra senza farlo dalle sedi del potere politico, senza disporre delle leve del governo? Chi può mai accedere al potere e al governo se non i partiti? E quale il contenuto di quella sterzata se non la ripresa e il rilancio degli obiettivi propri dei partiti socialisti democratici: fare leva sugli interessi colpiti, offrire loro un referente politico organizzato, affidare al potere pubblico il compito di regolare con obiettivi sociali il mercato (anche con le liberalizzazioni quando queste valgono a colpire rendite di posizione), avendo come stella polare una più giusta distribuzione delle risorse così da conseguire importanti valori e un ordine civile più umano?

di Massimo L. Salvadori del 5 settembre 2006

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