martedì 15 gennaio 2008

Ignorando quelle vere cavalcando le false tutto rischia di diventare irrilevante

Mentre la politica - la politica "che conta" - è entrata in una fase di particolare complessità (sulla questione salariale e sulla legge elettorale si stanno giocando, in queste settimane, partite abbastanza decisive), l'attualità politica resta dominata da una categoria suprema: l'emergenza. Anzi, più che di una categoria si tratta di una vera e propria sindrome: quasi tutto, fatti reali o fatti montati a dismisura o fatti addirittura inesistenti, in questo Paese diventano Emergenza. Emergenza rifiuti, certo fondata, che ora apre ogni Tg serale a mattutino con la visione apocalittica delle città campane sommerse dalla mondezza - ma che data, come tutti sanno, da almeno tre lustri. Emergenza morti sul lavoro, certo ancora più fondata, che è esplosa con la strage della Thyssen Krupp - ma che a sua volta ha radici lunghe e nettissime ragioni di classe. Emergenza sicurezza, che invece proprio non c'è - e che se mai andrebbe battezzata come emergenza paura. Emergenza salariale, che c'è - e basta essere un normale lavoratore, o una normale massaia che va a fare la spesa, per saperlo. Emergenza riforma elettorale, che forse c'è, ma che comunque non interessa - legittimamente - a nessun cittadino "normale". Tutte cose molto diverse, tra di loro. Ma, appunto, prima ancora che un contenuto, l'emergenzialismo è una modalità, un approccio, una filosofia, a volte consapevole e anche cinica, a volte perfino quasi inconsapevole. L'emergenza viene cioè rappresentata come un'esplosione improvvisa, una bufera inattesa, una nevicata nel mezzo dell'agosto. E' la rottura drammatica di un equilibrio o di un ordine che, fino ad allora, erano percepiti o vissuti come tollerabili. Insomma, è un'eccezione che rompe la normalità - e come tale richiede misure eccezionali, immediate, talora emotive o poco riflettute, di sicuro mai "strategiche". Diamine, se torno a casa e trovo tutto allagato, la mia prima preoccupazione sarà quella di togliere l'acqua in eccesso e di chiamare un pronto intervento idraulico, non certo quella di rimettere a nuovo, o a norma, il sistema che ha prodotto l'allagamento! Così procede la politica italiana, così si comporta l'informazione: un'alleanza maledetta tra due poteri pubblici cruciali, che si alimentano a vicenda nella produzione di un clima che sta minando alcuni essenziali fondamenti della nostra - già non brillante - democrazia.
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Perché la logica dell'emergenza è sempre sbagliata? Per almeno tre ragioni, che proviamo ad analizzare schematicamente.
La prima ragione già la accennavamo sopra: l'eccezionalità, anche quando è legata a necessità effettive o evidenti, fa sempre velo alla natura reale - quasi sempre strutturale - dei problemi e ne rallenta sempre la soluzione, o la possibilità di soluzione. Ne è un esempio chiaro la lunga teoria di "morti bianche", di incidenti sul lavoro, di vere e proprie stragi, che da anni caratterizzano il nostro paese e il sistema economico-sociale - questo giornale (e pochi altri, ricordo il "manifesto" negli anni '70) non si stanca di denunciare, di raccontare, di indicare le cause di fondo, di proporre soluzioni. Ci sono state e ci sono commissioni parlamentari ad hoc. Ma, fino alla tragedia della Thyssen Krupp, né la politica né l'informazione (quella grande, quella che conta) si sono accorti delle morti e degli incidenti quotidiani. Poi, con Torino, è scattato qualcosa: l'Emergenza, appunto. Forse, per qualche settimana, gli incidenti diminuiranno. Ma poi? Calato il sipario su quei sette corpi di operai straziati, esaurita la commozione e stemperata la pietà, tutto resterà come prima - senza la sicurezza, senza i controlli, senza la repressione necessarie, ma sotto la frusta della produttività e della competizione economica mondiale, che sono i valori portanti del nostro tempo.
La seconda ragione è che la sindrome emergenziale, fondata o non fondata che sia, serve talora - molto spesso - a legittimare scelte non democratiche, o pericolosamente antidemocratiche. La guerra è l'esempio più chiaro: in tempi bellici, leggi e diritti della cittadinanza sono sospese, in parte o in tutto, il potere politico stesso cede alla logica del potere militare.
Ma basta dichiarare una guerra "anomala", come la guerra al terrorismo, per ottenere effetti analoghi, pur in tempo di pace, pur nel pacifico e avanzato occidente - negli Usa, il "Patriot Act", a tutt'oggi in vigore, consente giust'appunto la sospensione di diritti finora considerati costitutivi in quella che molti si ostinano a considerare la culla della democrazia. E basta dichiarare un'Emergenza che non c'è - quella della Sicurezza nelle città - per sfornare decreti inutili, perseguitare cittadini di etnia "sbagliata", inviare all'opinione pubblica un messaggio (finto) muscolare. Questo è proprio un caso in cui la coalizione tra le responsabilità della politica e il ruolo dell'informazione provoca - sta provocando - una vera regressione democratica e civile. I direttori dei Tg (e dei grandi quotidiani) possono anche negare l'evidenza, ma mentono sapendo di mentire quando sostengono di fare, né più né meno, il loro mestiere: sono anni che qualsiasi delitto, omicidio o stupro o rapina, commesso da un cittadino extracomunitario ottiene titoli, attenzione e spazio imparagonabili a quelli dei loro omologhi italiani; sono anni che la cronaca nera, l'ossessione "gialla", le telenovelas delittuose, da Cogne a Garlasco, invadono a dismisura la programmazione televisiva; sono anni, insomma, che il sistema dell'informazione, non questo o quel quotidiano, diffonde ogni giorno la certezza a)che i crimini, gli omicidi, stanno vertiginosamente aumentando; b)che sono gli stranieri ad aver indotto questa macabra crescita di delittuosità; c)che il cittadino (italiano e bianco) è sempre più indifeso ed esposto ad ogni pericolo; d)che dunque servono misure eccezionali a garanzia, appunto, della sicurezza delle persone. La politica, come spesso le accade, questa volta ha seguito l'onda, come si usa dire - e del resto la tecnica del capro espiatorio è antica quasi come la civiltà, e serve a molti, quasi a tutti. Il risultato concreto, anche qui, è quasi irrilevante, mentre rilevantissima è la crescita di umori razzisti, xenofobi, intolleranti, spietati. Questa, del resto, è una guerra ad altissimo tasso simbolico, dove il potere, oltretutto, sfrutta ignobilmente l'insicurezza e la paura di massa che effettivamente ci sono - del resto, come può la "common people", normalmente precaria, sentirsi "al sicuro" in tempi come questi? La precarietà come condizione del lavoro e della vita: ecco ciò che sta succedendo effettivamente nelle nostre società, e che mina radicalmente la fiducia nel futuro - talora la razionalità.
Terza e (non) ultima ragione: a forza di procedere di emergenza in emergenza, a forza di ignorare le emergenze vere e di inventare quelle false, tutto diventa egualmente importante e parimenti drammatico - ovvero tutto rischia di diventare irrilevante. Con effetti ulteriori di scetticismo e di sfiducia, nel già vasto abisso che separa la vita reale dall'establishment (economico, politico, istituzionale, informativo, televisivo, ormai che differenza c'è?). Quando, appunto, un'emergenza come quella campana dei rifiuti si protrae, o si ripete, magari aggravata, per un ventennio, ogni allarme rischia di suonare come la grida di manzoniana memoria: un vuoto e roboante esercizio retorico (e bisognerebbe esser dotati di fede cieca per credere nelle virtù taumaturgiche del prefetto Di Gennaro). Quando ci sono emergenze puntuali come le stagioni (le frane primaverili del devastato e mai risanato geo-territorio italiano, le rivolte estive di carcerati che non ce la fanno più, gli incidenti ferroviari per degrado (voluto) delle Ferrovie, le "stragi del sabato sera" sulle strade per incitamento alla velocità, voluto da un'economia a tutt'oggi fondata sull'automobile, e mille altri esempi che si potrebbero fare) è sicuro che subentrano l'abitudine, la "mitridizzazione", forse l'indifferenza. Quando quella che è oggi l'emergenza mondiale più grave di tutte - l'impazzimento climatico - viene tranquillamente dichiarata come tale, e poi non succede nulla, assolutamente nulla, in che cosa le persone possono continuare a credere? Sì, è nostra radicata convinzione che questa Emergenza infinita sia una malattia, tra le più gravi, del nostro tempo. Finchè la politica e l'informazione non saranno in grado di liberarsene, e di tornare ad affrontare i problemi - che sono sempre complessi, e chiedono tempi, pazienza, e la fatica del cambiamento - in un'ottica di serietà, la loro stessa crisi non potrà che galoppare.

di Rina Gagliardi da Liberazione del 13 gennaio 2008

lunedì 14 gennaio 2008

Art. 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica

Non sono un costituzionalista, ma un professore universitario di fisica: per scrivere questo contributo, ho dovuto rileggermi la nostra bella Costituzione.

Non avevo presente l’articolo 9, che dichiara, in apertura,“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.” In particolare non avevo notato la sua collocazione tra i principi fondamentali, ovvero nel primo blocco di 13 articoli. Questi principi fondamentali, che sono probabilmente la parte più innovativa e moderna della nostra costituzione, sono ahimé anche quelli meno attuati nella nostra legislazione.

La ricerca scientifica è vista qui come un bene primario, da perseguire per il suo interesse culturale, e non per le sue ricadute economiche; anzi, tra i principi fondamentali non è detto che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo economico. È notevole poi che la cultura e la ricerca scientifica sono messe sullo stesso piano. Ovviamente la scienza è anche un’impresa pratica che ha lo scopo di aumentare la conoscenza e il controllo dell’uomo sulla natura, ma le ricerche non possono guidate solo dalle applicazioni pratiche che si possono prevedere a breve termine: questo sarebbe anche un atteggiamento completamente miope: in fondo chi avrebbe potuto prevedere che gli studi, fatti negli anni ‘40 per spiegare come la corrente passa nei materiali semiconduttori (materiali che non sono isolanti, ma che conducono male la corrente), avrebbero portato, tramite l’invenzione del transistor, alla rivoluzione informatica dei nostri giorni: computer, cellulari, robot industriali?

Sfortunatamente la politica italiana spesso non ha recepito quest’obbligo della Repubblica di promuovere la ricerca. Per esempio poco dopo la stesura della Costituzione Alcide De Gasperi venne invitato a partecipare ad una riunione della Società Italiana per il progresso delle Scienze. Ai convenuti, preoccupati delle sorti della ricerca scientifica nel nostro Paese, De Gasperi faceva notare che le spese per i laboratori e le biblioteche erano un lusso che un Paese segnato dalla guerra appena finita non poteva permettersi. Anche ai nostri giorni la ricerca è frequentemente valutata più in base alle ricadute più o meno immediate che al suo significato culturale: spesso, quando viene presentata alla stampa una nuova ricerca, la prima domanda dei giornalisti è “ma quali saranno le applicazioni pratiche?”.

Il tema della ricerca è ripreso nell’articolo 33, che nella sezione dei rapporti etico-sociali afferma: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. (…) Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Qui la scienza è accostata all’arte e ne viene proclamata la libertà e autonomia, sempre nei limiti stabiliti.

Ma l’arte, e in particolare la scienza, sono costose; le ricerche richiedono investimenti massicci, gli accordi di Lisbona prevedono per l’Europa una spesa di un tre per cento del PIL (l’Italia è praticamente stazionaria intorno all’un per cento). Rimane poi il problema di come conciliare l’intervento statale con la libertà della scienza. Non ci sono mai le risorse per finanziare tutte le ricerche possibili, e bisogna che lo Stato faccia delle scelte, non solo fra macro aree, ma anche fra progetti nello stesso campo. Le assegnazioni dei finanziamenti alle varie ricerche non devono essere arbitrarie, o come spesso capita, determinate da criteri clientelari.

Il metodo che si usa nei paesi civili è quello della “peer review”, ovvero una valutazione scientifica fatta in maniera anonima da altri scienziati competenti, che non abbiano interessi diretti nella ricerca e che non siano “amici” dei proponenti. Questa metodologia è l’unica compatibile con la nostra Costituzione; inoltre permette di evitare che la ricerca sia dominata da gruppi di potere autoreferenziali e che il denaro pubblico sia sprecato in studi di scarso interesse. In Italia in alcuni casi sono utilizzate le procedure di “peer review”, ma sfortunatamente molto spesso i fondi sono assegnati con procedure non trasparenti. Per rispettare il dettato costituzionale è assolutamente necessario che tutti i fondi assegnati dallo Stato, Regioni, Province, Comuni, Enti di Ricerca, adottino procedure basate sul sistema della “peer review”. Questa soluzione avrebbe anche il vantaggio di sottrarre alla politica decisioni che non le spettano e di ridurne l’invadenza.

Uno di questi necessari passi indietro della politica è stato fatto recentemente dal Ministro Mussi, che ha deciso di non designare direttamente i presidenti degli enti pubblici dipendenti dal Ministero della Ricerca, ma affidare ad un comitato di selezione pubblico (composto da esperti altamente qualificati) la scelta di una rosa di tre nomi tra i quali il Ministro sceglie. Si tratta di una procedura trasparente che tiene ben distinta la parte di valutazione scientifica da quella di indirizzo che spetta al Governo. Sfortunatamente i presidenti degli altri enti pubblici di ricerca, per esempio quelli dipendenti dal Ministero della Sanità, sono ancora designati direttamente dal Ministro, in maniera spesso del tutto arbitraria. Il metodo dei comitati di selezione dovrebbe essere esteso per legge non solo a tutto il mondo della ricerca, ma anche a tutte le nomine fatte dai poteri pubblici, per esempio quelle dei presidenti delle ASL: in questo modo si garantirebbe la professionalità di molte figure che contano molto per la nostra vita quotidiana e si diminuirebbe l’attuale occupazione partitica dello Stato e di tutte le sue istituzioni, occupazione che era stata tanto criticata da Berlinguer.

Per finire vorrei ricordare l’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”. Lo Stato ha quindi il dovere di permettere ai cittadini dotati di talento per la ricerca di svolgere quest'attività in base alle loro capacità. Invece le assunzioni nelle università e negli enti pubblici sono state fatte troppo spesso in base a scelte clientelari o nepotistiche; a volte sono state anche decretate immissioni “ope legis” senza concorso, che hanno provocato inserimenti massicci nel mondo universitario di persone non sufficientemente qualificate, saturando i posti per decenni e impedendo di fatto anche ai più dotati giovani delle leve successive di svolgere quel lavoro di ricerca a cui erano portati e a cui avevano diritto.

Io sono fermamente convinto che la reale democrazia di un sistema politico si misura in base alle opportunità che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini, e alla possibilità che a ciascuno sia consentito di confrontarsi con tali opportunità. Nelle carriere accademiche e di ricerca invece ci sono state generazioni fortemente svantaggiate a causa di assunzioni indiscriminate di generazioni privilegiate. Giovani talenti nati in certi anni si sono allora vista sbarrata la possibilità d’accesso alla ricerca e alla carriera universitaria, benché fossero capacissimi di dare importanti contributi innovativi. Questo modo di agire lede in modo insanabile il principio di eguaglianza e il diritto che tutti i giovani devono avere, a prescindere dalla loro fortuita data di nascita, di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità. Quindi assumere i nuovi ricercatori in base al merito, mediante giusti concorsi, utilizzando con la massima urgenza le risorse a disposizione e trovandone di nuove, è certamente una necessità vitale per garantire il futuro del nostro paese in un mondo che deve affrontare gravi emergenze planetarie, ma è anche un obbligo costituzionale, se vogliamo che la nostra Legge fondamentale non rimanga lettera morta.

di Giorgio Parisi