lunedì 14 gennaio 2008

Art. 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica

Non sono un costituzionalista, ma un professore universitario di fisica: per scrivere questo contributo, ho dovuto rileggermi la nostra bella Costituzione.

Non avevo presente l’articolo 9, che dichiara, in apertura,“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.” In particolare non avevo notato la sua collocazione tra i principi fondamentali, ovvero nel primo blocco di 13 articoli. Questi principi fondamentali, che sono probabilmente la parte più innovativa e moderna della nostra costituzione, sono ahimé anche quelli meno attuati nella nostra legislazione.

La ricerca scientifica è vista qui come un bene primario, da perseguire per il suo interesse culturale, e non per le sue ricadute economiche; anzi, tra i principi fondamentali non è detto che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo economico. È notevole poi che la cultura e la ricerca scientifica sono messe sullo stesso piano. Ovviamente la scienza è anche un’impresa pratica che ha lo scopo di aumentare la conoscenza e il controllo dell’uomo sulla natura, ma le ricerche non possono guidate solo dalle applicazioni pratiche che si possono prevedere a breve termine: questo sarebbe anche un atteggiamento completamente miope: in fondo chi avrebbe potuto prevedere che gli studi, fatti negli anni ‘40 per spiegare come la corrente passa nei materiali semiconduttori (materiali che non sono isolanti, ma che conducono male la corrente), avrebbero portato, tramite l’invenzione del transistor, alla rivoluzione informatica dei nostri giorni: computer, cellulari, robot industriali?

Sfortunatamente la politica italiana spesso non ha recepito quest’obbligo della Repubblica di promuovere la ricerca. Per esempio poco dopo la stesura della Costituzione Alcide De Gasperi venne invitato a partecipare ad una riunione della Società Italiana per il progresso delle Scienze. Ai convenuti, preoccupati delle sorti della ricerca scientifica nel nostro Paese, De Gasperi faceva notare che le spese per i laboratori e le biblioteche erano un lusso che un Paese segnato dalla guerra appena finita non poteva permettersi. Anche ai nostri giorni la ricerca è frequentemente valutata più in base alle ricadute più o meno immediate che al suo significato culturale: spesso, quando viene presentata alla stampa una nuova ricerca, la prima domanda dei giornalisti è “ma quali saranno le applicazioni pratiche?”.

Il tema della ricerca è ripreso nell’articolo 33, che nella sezione dei rapporti etico-sociali afferma: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. (…) Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Qui la scienza è accostata all’arte e ne viene proclamata la libertà e autonomia, sempre nei limiti stabiliti.

Ma l’arte, e in particolare la scienza, sono costose; le ricerche richiedono investimenti massicci, gli accordi di Lisbona prevedono per l’Europa una spesa di un tre per cento del PIL (l’Italia è praticamente stazionaria intorno all’un per cento). Rimane poi il problema di come conciliare l’intervento statale con la libertà della scienza. Non ci sono mai le risorse per finanziare tutte le ricerche possibili, e bisogna che lo Stato faccia delle scelte, non solo fra macro aree, ma anche fra progetti nello stesso campo. Le assegnazioni dei finanziamenti alle varie ricerche non devono essere arbitrarie, o come spesso capita, determinate da criteri clientelari.

Il metodo che si usa nei paesi civili è quello della “peer review”, ovvero una valutazione scientifica fatta in maniera anonima da altri scienziati competenti, che non abbiano interessi diretti nella ricerca e che non siano “amici” dei proponenti. Questa metodologia è l’unica compatibile con la nostra Costituzione; inoltre permette di evitare che la ricerca sia dominata da gruppi di potere autoreferenziali e che il denaro pubblico sia sprecato in studi di scarso interesse. In Italia in alcuni casi sono utilizzate le procedure di “peer review”, ma sfortunatamente molto spesso i fondi sono assegnati con procedure non trasparenti. Per rispettare il dettato costituzionale è assolutamente necessario che tutti i fondi assegnati dallo Stato, Regioni, Province, Comuni, Enti di Ricerca, adottino procedure basate sul sistema della “peer review”. Questa soluzione avrebbe anche il vantaggio di sottrarre alla politica decisioni che non le spettano e di ridurne l’invadenza.

Uno di questi necessari passi indietro della politica è stato fatto recentemente dal Ministro Mussi, che ha deciso di non designare direttamente i presidenti degli enti pubblici dipendenti dal Ministero della Ricerca, ma affidare ad un comitato di selezione pubblico (composto da esperti altamente qualificati) la scelta di una rosa di tre nomi tra i quali il Ministro sceglie. Si tratta di una procedura trasparente che tiene ben distinta la parte di valutazione scientifica da quella di indirizzo che spetta al Governo. Sfortunatamente i presidenti degli altri enti pubblici di ricerca, per esempio quelli dipendenti dal Ministero della Sanità, sono ancora designati direttamente dal Ministro, in maniera spesso del tutto arbitraria. Il metodo dei comitati di selezione dovrebbe essere esteso per legge non solo a tutto il mondo della ricerca, ma anche a tutte le nomine fatte dai poteri pubblici, per esempio quelle dei presidenti delle ASL: in questo modo si garantirebbe la professionalità di molte figure che contano molto per la nostra vita quotidiana e si diminuirebbe l’attuale occupazione partitica dello Stato e di tutte le sue istituzioni, occupazione che era stata tanto criticata da Berlinguer.

Per finire vorrei ricordare l’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”. Lo Stato ha quindi il dovere di permettere ai cittadini dotati di talento per la ricerca di svolgere quest'attività in base alle loro capacità. Invece le assunzioni nelle università e negli enti pubblici sono state fatte troppo spesso in base a scelte clientelari o nepotistiche; a volte sono state anche decretate immissioni “ope legis” senza concorso, che hanno provocato inserimenti massicci nel mondo universitario di persone non sufficientemente qualificate, saturando i posti per decenni e impedendo di fatto anche ai più dotati giovani delle leve successive di svolgere quel lavoro di ricerca a cui erano portati e a cui avevano diritto.

Io sono fermamente convinto che la reale democrazia di un sistema politico si misura in base alle opportunità che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini, e alla possibilità che a ciascuno sia consentito di confrontarsi con tali opportunità. Nelle carriere accademiche e di ricerca invece ci sono state generazioni fortemente svantaggiate a causa di assunzioni indiscriminate di generazioni privilegiate. Giovani talenti nati in certi anni si sono allora vista sbarrata la possibilità d’accesso alla ricerca e alla carriera universitaria, benché fossero capacissimi di dare importanti contributi innovativi. Questo modo di agire lede in modo insanabile il principio di eguaglianza e il diritto che tutti i giovani devono avere, a prescindere dalla loro fortuita data di nascita, di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità. Quindi assumere i nuovi ricercatori in base al merito, mediante giusti concorsi, utilizzando con la massima urgenza le risorse a disposizione e trovandone di nuove, è certamente una necessità vitale per garantire il futuro del nostro paese in un mondo che deve affrontare gravi emergenze planetarie, ma è anche un obbligo costituzionale, se vogliamo che la nostra Legge fondamentale non rimanga lettera morta.

di Giorgio Parisi

1 commento:

Anonimo ha detto...

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