lunedì 4 febbraio 2008

Le classi dirigenti italiane (dal Pd, a Casini, alla Chiesa alla Cisl) si preparano (o sono conquistate) dalla Restaurazione

A volte, la cronaca quotidiana, in genere così ridondante e confusa, ci invia "segni" improvvisamente chiarificatori - come tanti flash che si proiettano sulle tenebre del reale. Solo quattro esempi, tutti di questi giorni già "elettorali". Primo: nei documenti fondativi del Partito Democratico (Carta dei valori, Codice Etico, Statuto) era stato cancellato ogni riferimento alla Resistenza partigiana, tanto che Walter Veltroni è dovuto intervenire a correzione. Secondo. Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha violentemente attaccato l'ultimo film di Francesca Comencini ("In fabbrica") e, soprattutto, ha invitato la Rai (produttrice della pellicola) a non mandarlo in onda, cioè a censurarlo. Terzo: nel corso della cerimonia che ha celebrato il quarantesimo della Comunità di Sant'Egidio, il cardinal Bertone ha scagliato l'anatema della Chiesa cattolica contro il Sessantotto, che era "un mondo contro Dio", e radice della degenerazione morale e spirituale del nostro tempo. Quarto: intervenendo al convegno di "Liberal", sempre sul Sessantotto, il cattolico Pier Ferdinando Casini ha giudicato esiziali, più o meno, i pontificati di Giovanni XXIII e soprattutto di Paolo VI, ha condannato il Concilio e ha lanciato la sua nuova tavola di valori, fondata sulla gerarchia e l'autorità. Che cosa c'entrano, l'una con l'altra, queste affermazioni, questi "segni"? E perché mai, eventualmente, ce ne dovremmo (pre)occupare?
C'entrano, e come, al di là delle differenze evidenti di oggetti, contesti, protagonisti. Impressionante, anzi, è la convergenza culturale che si realizza in circostanze apparentemente così lontane: e sta nel clima di regressione culturale che pervade la società italiana e le sue così dette "classi dirigenti". C'è un'ansia revisionistica e neo-autoritaria, che si esprime sia nella continua cancellazione della storia, quella antica e quella recente, sia nella rimozione di tutto ciò che è stato conflitto, cambiamento, carne e sangue, libertà sostanziale di questo paese. C'è una pulsione di normalità neoconservatrice, che si spinge alla "normalizzazione" del passato prima che del presente - lo rovescia, lo ridisegna, lo falsifica, per seppellirne le tracce vive, la vitalità, l'attualità. Se è vero che la rammemorazione del passato, come ci ha (re)insegnato Walter Benjamin, è al fondamento di ogni autentico sguardo sul futuro, non è forse altrettanto vero che la "riscrittura della storia", di orwelliana memoria è funzione stretta di ogni Grande Restaurazione?

Guardate i bersagli concreti: l'antifascismo - ma anche e soprattutto la sua natura di collante civile e di vera "religione laica" del paese; le lotte operaie e studentesche del '68 - ma anche il conflitto sociale e la protesta giovanile come fattori costitutivi di una democrazia matura; il Concilio Vaticano II - ma anche un'idea, e una pratica, cristiane protese alla trasformazione del mondo, piuttosto che all'occupazione del potere; la libertà di un(a) autrice cinematografica - ma anche, più in generale, l'autonomia della produzione artistica e spettacolare. Ognuno, s'intende, ha le proprie specifiche motivazioni. Nel Partito Democratico, che stenta a definire un'identità che non sia, di volta in volta, pallidamente "riformista", ecumenica, interclassista, postpost, prevale forse la voglia di uscire in termini definitivi dal ‘900, e in particolare dalla storia repubblicana. Per potersi presentare come un soggetto davvero "nuovo", e non come la continuazione fredda di ciò che sono stati la Dc e il Pci, aveva perciò "dimenticato", nientemeno, ogni riferimento alla Resistenza e all'antifascismo - non però si tratta di una smemoratezza, ma di una scelta, forse, chissà, di una concessione alle componenti cattoliche, moderate, ipernuoviste della nuova formazione politica. Con una correzione che va apprezzata, ma che non appare sufficiente a chiarire l'interrogazione di fondo - sul Pd, il suo "senso di sé", la sua cultura politica.
Un "senso di sé", invece, che sembra molto forte nell'attuale leader della Cisl e in varie realtà del mondo cattolico organizzato. Qui, la rimozione assume il volto dichiarato dell'anticomunismo, l'ideologia che rispunta come si deve ad ogni campagna elettorale: invece di apprezzare, da buon sindacalista, la recente tendenza del cinema italiano (anche in film come "La signorina Effe") a tornare ad occuparsi di soggetti dimenticati come gli operai, a rimetterli sulla scena da protagonisti, a riaprire un brano bruciante (e attualissimo, come si vede dalle stragi sul lavoro, i bassi salari, la disperazione operaia) della nostra storia, Bonanni rilancia, nientemeno, l'orgoglio cislino e la censura. Difende la sua bottega e si riscopre vecchio democristiano - di quelli che dettano alla Rai le regole, le produzioni buone e quelle cattive . Vuole, insomma che si dimentichi che cosa è stato il '68 degli operai, degli studenti e dei lavoratori intellettuali: nient'affatto un'epoca di trionfo comunista, orchestrata dal Pci e dai duri della Cgil o della Fiom, ma la stagione in cui esplose una voglia quasi incontenibile di libertà e di liberazione. Del lavoro, della cultura, del sapere. Del potere padronale in fabbrica e del (marcescente) potere accademico nelle università. Della divisione sociale del lavoro, delle gerarchie, dell'autoritarismo. Sì, anche una grande stagione di disordine, che non riuscì nell'impresa gigantesca di "cambiare tutto", ma che molto cambiò - nella società, nelle fabbriche, nella scuola, nella Chiesa, nei rapporti tra i generi, nella modernità. Ne uscimmo diversi tutti, anche i partiti e i sindacati, anche la Cisl (come recita un'altra canzone di Fabrizio De Andrè, tratta dal maggio francese, "anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti") - forse anche l'allora giovane Raffaele Bonanni. Ma tant'è. L'occasione del quarantesimo - quarant'anni sono tanti, quasi un'epoca - offre a molti la possibilità di manifestare la voglia di revanche, in una postcrociata antisessantottina che sarebbe grottesca e perfino un po' comica, se non fosse pericolosa. Così, ieri, l'ex-forzista (sic!) Nando Adornato, navigatore audace tra gli oceani del revisionismo, ex-comunista pentito, ex-ingraiano, ex-testa d'uovo della sinistra, ora fresca new entry nell'Udc, ha spiegato che il Sessantotto è alla radice di tutti i mali e di tutte le devastazioni italiane - il la, logicamente, l'aveva dato il cardinal Bertone, aggredendo un altro mito della nostra giovinezza, Woody Allen. E il moderato Casini ha aggiunto di suo la vera ragione di tanto rancore: il ruolo svolto da Giovanni XXIII e Paolo VI e da tanti cattolici di movimento. Ma, appunto, qual è il bersaglio vero? La libertà del conflitto e del dissenso. La voglia di cambiamento. L'idea di una società di eguali. L'autodeterminazione dei soggetti e delle soggettività. Basta rovesciare queste parole d'ordine nel loro contrario, per avere il programma restaurativo degli anni 2000, ovvero del prossimo decennio. Historia est magistra vitae , ci insegnavano molti anni fa sui banchi della I° media. L'antifascismo, il protagonismo operaio, il dissenso dei giovani - e la libertà di confliggere, di fare buoni film e buona musica, di disinquinare il mondo dalle merci - restano il sale della terra. Anche nel XXI secolo.

di Rina Gagliardi da Liberazione del 3 febbraio 2008

Nessun commento: