ROMA — Essere radicali? Un insegnamento evangelico, prima ancora che politico: avere «fame e sete » di giustizia, sostenere i perseguitati, seguire il Vangelo di Matteo quando raccomanda «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno». Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, valdese e esponente di Rifondazione, esordisce con un libro dedicato all'immigrazione (Fa più rumore l'albero che cade che la foresta che cresce, per Claudiana, con una prefazione di don Luigi Ciotti). E lo dedica alla nonna paterna, Elena Margherita Ferrero, «ragazza madre emigrata negli Usa».
Ministro, nelle sue posizioni su immigrati, welfare, sicurezza, spesso più radicali di quelle «ufficiali » del governo Prodi, conta di più la sua identità di evangelico o quella di partito?
«Essere stato alla guida dei giovani evangelici (la Federazione giovanile evangelica italiana; ndr) è stata l'esperienza più importante per la mia formazione, insieme al lavoro in fabbrica. Diciamo che la matrice evangelica sta prima e quella politica viene dopo... Non ho paura della parola "radicale", ma sinceramente credo che il quadro politico italiano sia talmente moderato che spesso anche idee di semplice buonsenso appaiono estremiste. Mi definirei un comunista riformato, non stalinista...».
La prima parte del suo libro è dedicata alla storia di famiglia e a quella delle migliaia di valdesi che dalle montagne del Piemonte partirono per cercare fortuna in America. Perché è così importante per lei?
«Perché è la mia storia, ma anche la storia di questo Paese. Oggi, la metà degli immigrati in Italia è fatta di donne, le nostre "badanti". Quando le vedo, non posso fare a meno di pensare alla loro infelicità per i figli lasciati a casa, a migliaia di chilometri. È la stessa di mia nonna: quando tornò a casa, mio padre non la riconosceva e voleva restare con la zia».
Come è accaduto che l'Italia, Paese di emigranti per eccellenza, abbia dimenticato in così poco tempo le sue valigie di cartone?
«Negli anni Settanta c'era poco razzismo, dopo è tornato, perché operai e sindacati sono stati sconfitti. È una guerra tra poveri, una terribile rimozione collettiva... Sono stato a Lampedusa, ho visto quel luogo di disperazione, dove ormai approdano quasi solo donne e bambini in fuga dalle guerre. E dico che Ellis Island, che i miei nonni chiamavano in patois la goulo daa loup, cioè "le fauci del lupo" era più civile, così come la Germania degli anni Cinquanta, dove un italiano poteva arrivare col visto turistico, farsi assumere in fabbrica e diventare residente».
Lei propone più diritti per gli immigrati, in particolare per i bambini che nascono in Italia. Pensa che l'Italia abbia un debito verso queste persone?
«Certo. Producono il 5% del nostro Pil, circa 75 miliardi di euro, e noi investiamo 50, 100 milioni all'anno per loro... Eppure cento immigrati delinquenti si vedono di più di tre milioni di persone che lavorano. Mia nonna è tornata a casa con qualche baule di regali, un po' di soldi e una macchina Singer che mia madre ha usato per cucire fino a poco tempo fa. Vorrei che a loro andasse un po' meglio».
di Vera Schiavazzi da Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2007
Ministro, nelle sue posizioni su immigrati, welfare, sicurezza, spesso più radicali di quelle «ufficiali » del governo Prodi, conta di più la sua identità di evangelico o quella di partito?
«Essere stato alla guida dei giovani evangelici (la Federazione giovanile evangelica italiana; ndr) è stata l'esperienza più importante per la mia formazione, insieme al lavoro in fabbrica. Diciamo che la matrice evangelica sta prima e quella politica viene dopo... Non ho paura della parola "radicale", ma sinceramente credo che il quadro politico italiano sia talmente moderato che spesso anche idee di semplice buonsenso appaiono estremiste. Mi definirei un comunista riformato, non stalinista...».
La prima parte del suo libro è dedicata alla storia di famiglia e a quella delle migliaia di valdesi che dalle montagne del Piemonte partirono per cercare fortuna in America. Perché è così importante per lei?
«Perché è la mia storia, ma anche la storia di questo Paese. Oggi, la metà degli immigrati in Italia è fatta di donne, le nostre "badanti". Quando le vedo, non posso fare a meno di pensare alla loro infelicità per i figli lasciati a casa, a migliaia di chilometri. È la stessa di mia nonna: quando tornò a casa, mio padre non la riconosceva e voleva restare con la zia».
Come è accaduto che l'Italia, Paese di emigranti per eccellenza, abbia dimenticato in così poco tempo le sue valigie di cartone?
«Negli anni Settanta c'era poco razzismo, dopo è tornato, perché operai e sindacati sono stati sconfitti. È una guerra tra poveri, una terribile rimozione collettiva... Sono stato a Lampedusa, ho visto quel luogo di disperazione, dove ormai approdano quasi solo donne e bambini in fuga dalle guerre. E dico che Ellis Island, che i miei nonni chiamavano in patois la goulo daa loup, cioè "le fauci del lupo" era più civile, così come la Germania degli anni Cinquanta, dove un italiano poteva arrivare col visto turistico, farsi assumere in fabbrica e diventare residente».
Lei propone più diritti per gli immigrati, in particolare per i bambini che nascono in Italia. Pensa che l'Italia abbia un debito verso queste persone?
«Certo. Producono il 5% del nostro Pil, circa 75 miliardi di euro, e noi investiamo 50, 100 milioni all'anno per loro... Eppure cento immigrati delinquenti si vedono di più di tre milioni di persone che lavorano. Mia nonna è tornata a casa con qualche baule di regali, un po' di soldi e una macchina Singer che mia madre ha usato per cucire fino a poco tempo fa. Vorrei che a loro andasse un po' meglio».
di Vera Schiavazzi da Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2007
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