(ASCA) - Roma, 26 set - C’e’ bisogno di uno Stato che torni ad occuparsi delle persone in concreto, sollevando il sistema dell’assistenza dalla burocrazia, con un’opzione decisa per il Terzo settore. Ma c’e’ bisogno anche che le fondazioni bancarie scelgano che mestiere vogliono fare: se gestire banche o occuparsi di chi e’ in difficolta’, come vorrebbe la normativa. E anche che il volontariato faccia bene il suo mestiere, attaccato alla sua mission e non alla rincorsa permanente di finanziamenti. Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Roma e ”padre” del World social summit che si conclude oggi a Roma con l’intervento di Zygmund Bauman, famoso teorico della societa’ liquida, traccia con l’ASCA un bilancio dell’iniziativa e spiega la sua ricetta contro la paura del nostro secolo.
D: Perche’ la gente di questo secolo ha paura?
E: Lo scenario cui assistiamo non ci presenta un quadro dissimile da quello di epoche lontane come quelle delle grandi invasioni barbariche, delle pestilenze che cancellavano interi stati o delle guerre mondiali. L’umanita’ allora ha resistito Oggi il terrorismo, le pandemie, la crisi ambientale, generano paure che pesano in misura imprevista quando vanno ad annidarsi nell’intimita’ dell’individuo che, squassato dalla perdita di alcuni grandi valori come la fede, la famiglia, la politica, subisce la crisi della propria identita’ e la trasferisce nella realta’ economica, che ne risente anche per la crisi del welfare. Se crolla la prospettiva di lavoro di una famiglia, il futuro di uno studente, la possibilita’ di inserirsi o re-inserirsi nella societa’, infatti, anche tutti gli altri problemi diventano drammaticamente piu’ vicini all’individuo, lo terrorizzano e lo costringono a rimanere nel terrore.
D: Come si interviene in questo scenario?
E: La mia proposta, che reiterero’ nelle conclusioni, richiama, innanzitutto, ad una riscoperta dei valori fondanti l’individuo e la societa’ come l’istruzione, la cultura, cioe’ quelle colonne che possano sorreggerle. C’e’ bisogno, pero’, anche di una riforma del welfare state che, a fronte di uno Stato che arretra perche’ non riesce piu’ a sostenere il peso di questi problemi, puo’ essere portata a compimento solo dal non profit, quel terzo settore al quale ho dedicato tanti anni, e che a mio avviso e’ l’unico a poter consegnare all’uomo quelle risposte che l’umanita’ sembra aver smarrito. Mi ha fatto piacere sentire dagli studiosi dei Paesi emergenti intervenuti al Social summit che a loro avviso la soluzione ai problemi delle loro megalopoli e’ quella solidarieta’ che noi pratichiamo da secoli.
D: Qual e’ il ruolo della politica in questo passaggio?
E: La disattenzione della classe politica rispetto alla dimensione sociale e’ uno dei principali problemi che abbiamo. Il 46% dei cittadini di tutto il mondo, ma in particolare italiani, intervistati dal Censis sulla natura delle proprie paure, non ha risposto che teme il bandito, il diverso, il Rom, ma che ha paura dell’incertezza che gli e’ data dal non poter piu’ contare sulle garanzie di uno Stato sociale che funzioni e gli dia una risposta certa. Ci sono tante realta’ che potrebbero rispondere a questo bisogno, ma se come non profit dobbiamo pagare le tasse come le imprese, non avere cittadinanza attiva perche’ non veniamo riconosciuti con la dignita’ costituzionale che meriteremmo -visto che la sussidiarieta’ e’ stata appiccicata come una pezza alla nostra Costituzione ma non gli si e’ dato ne’ un corpo ne’ una rete - siamo messi in condizione di arenarci.
D: Con il federalismo, tuttavia, lo spostamento di alcune competenze in capo ad Enti locali non in grado di sopportarne il peso di gestione oggi mette in condizione parte del Terzo settore di annunciare la propria estinzione.
E: Sono convinto che non usciremo da questa crisi se non si risolve un grosso problema: dobbiamo sollevare il sistema dell’assistenza da quel grave peso (e costo) che la struttura statale carica nel veicolare le risorse dalla fase di produzione alla destinazione del servizio. Dev’essere il cittadino a modulare la richiesta, a gestirla nella propria autonomia, interrompendo questa lunga catena grazie alle strutture agili ed elastiche che il volontariato ha costruito e che fa funzionare da sempre, rendendo fluido il rapporto tra risorse e cittadini. Non penso, vorrei chiarirlo, che questo sia possibile spostando questo ruolo di ‘’smistamento’ delle risorse sui Centri per i servizi al volontariato - rispetto ai quali, come e’ noto, ho una visione molto critica - perche’ con questo modello rischiamo di ricreare quel sistema ingessato che oggi non permette di operare al pubblico. Non sento alcun politico sostenere questa proposta.
D: Ma non c’e’ il rischio di consumismo dei servizi da parte dei cittadini?
E: La nostra esperienza e i dati ci dicono il contrario. Dobbiamo rieducare i cittadini a un diritto certo ed esigibile, quando serve. Con un pubblico che non gestisce ne’ eroga,ma indirizza e controlla il welfare, potremmo corrispondere in modo piu’ efficace alle aspettative del singolo. Se posso, ad esempio, fruire di un coupon con un pacchetto di prestazioni certe, non credo che accrescero’ la mia domanda di assistenza ma tentero’ di amministrarla con saggezza. Se continuera’, tuttavia, una disattenzione da parte dello Stato, sara’ inutile, a mio avviso, parlare di socialita’, di welfare, visto che questo argomento che dovrebbe essere quello principale finisce, di fatto, ad essere abbandonato in Italia.
D: La politica, dunque, non sta svolgendo fino a fondo il suo ruolo?
E: Anche nel corso del Social summit abbiamo riflettuto tanto sull’intervento pubblico. In America le principali banche sono state nazionalizzate, mentre, ad esempio, in Italia Alitalia sembra dover essere per forza affidata ai privati secondo una formula molto incerta. Io non sono a favore di un intervento illimitato dello Stato, ma di un intervento regolatore si’, anche di fronte ai nuovi strumenti della finanza dei quali abbiamo parlato molto qui in questi giorni. Nel nostro Paese passiamo da un eccesso all’altro: nel caso dell’individuo, dove ci sarebbe bisogno di una personalizzazione dei servizi, lo Stato non lascia spazi al privato sociale perche’ teme un consumismo delle prestazioni che non c’e', ma dall’altro, dove c’e’ gia’ una voragine, lo Stato arretra e la lascia ai privati. Qualcuno dovra’ spiegarci la schizofrenia di questo comportamento pubblico perche’ qualcosa non torna.
D: Quale ruolo possono giocare le fondazioni nel cambiamento da lei auspicato?
E: Parto da una critica che muovo in casa mia. Le fondazioni debbono decidere: o fare come noi della Fondazione Roma, che ci occupiamo esclusivamente delle persone che hanno bisogno, della sanita’, della ricerca scientifica, della cultura, del volontariato, oppure scegliere di gestire le banche e la finanza. Altre fondazioni vogliono fare, in realta’, solo questo: Cariverona, Montepaschi , solo per fare qualche esempio. Noi, al contrario, abbiamo piccole percentuali finanziarie e assicurative, con le quali diversifichiamo, ripartiamo il rischio e destiniamo tutti i proventi ad aiutare la povera gente. Non e’ vero che la filantropia non rende: noi, pur con una scelta di campo molto netta, abbiamo registrato un rendimento annuo di circa il 10%. Ai miei compagni di strada dico: scegliete la filantropia, oppure fate altro, pagando le tasse adeguate ad un’attivita’ di mercato. E che lo stato assicuri a chi fa solo volontariato un trattamento anche fiscale adatto alla sfida.
D: E al terzo settore che cosa chiede?
E. Che faccia bene il proprio mestiere, con professionalita’ e grande coerenza rispetto alla propria mission, senza inventarsi ogni mattina professionista della questua, dedicando tempo e risorse prevalenti al fund raising, con proposte improvvisate e inutili. Sono scelte che, alla lunga, non pagano nessuno, e alimentano incertezza, precarieta’ e paura.