Secondo fiumi di inchiostro questa crisi ridisegna i confini fra stato e mercato. Per uscirne ci vorrà più stato e meno mercato, si scrive ormai da mesi. Anche su questo giornale. Non ci sarebbe niente di preoccupante se si trattasse solo di una disputa dottrinaria.
Una disputa alimentata magari da pensatori poco aggiornati che intravedono, non senza qualche smania di rivincita, una rivalutazione del loro capitale umano. Ma il fatto preoccupante è che queste letture della crisi stanno offrendo ai governi nazionali il pretesto per riprendere il controllo delle banche. Doveroso che lo Stato intervenga, ma solo pro tempore, in attesa che i mercati tornino ad operare. Ci vogliono paletti, limiti temporali precisi all´intervento dello stato nel capitale delle banche. Per capire perché basta ricordare cosa erano le "notti delle banche" quando i partiti si azzuffavano per spartirsi i posti nei consigli di amministrazione delle "banche di interesse nazionale", basta ricordare i lunghi spostamenti e le interminabili attese cui queste bin ci costringevano per compiere le operazioni più semplici.
Per capire invece perché oggi lo Stato deve fornire capitale di ultima istanza alle banche che ne fanno richiesta non c´è bisogno di risalire così indietro nel tempo. Basta rileggere, col senno di poi, quanto è successo negli ultimi 13 mesi.
Questa è una crisi di fiducia. Per questo è così generale. Per questo non può che essere temporanea. Chiediamoci come sia possibile che mutui ipotecari che contano per non più dell´1% del debito mondiale abbiano scatenato questo putiferio. Chiediamoci perché a più di un anno dall´inizio della crisi nessuno, neanche chi istituzionalmente è più informato, sappia ancora offrire una misura delle perdite del sistema finanziario. Si è passati dai 50-100 miliardi di dollari paventati dalla Fed nel settembre 2007 ai 200-300 miliardi stimati dall´Economist nel dicembre 2007, ai 945 miliardi nelle valutazioni di aprile 2008 del Fondo Monetario, quando la Bank of England dichiarava che eravamo ormai fuori dal tunnel. Martedì abbiamo letto le nuove stime del Global Financial Stability Report: 1.400 miliardi. Non si sanno valutare le dimensioni del crac perché non ci sono più mercati che permettano di valutare molti titoli in circolazione, dunque il vero stato patrimoniale di molte banche. E non ci sono mercati perché non c´è informazione, non ci si fida gli uni degli altri. Prima della crisi erano le agenzie di rating a trasmettere questa informazione. Sembravano più affidabili del giudizio del singolo banchiere sul grado di affidabilità del debitore. Paradossalmente questo ruolo crescente delle agenzie di rating ha reso i mercati finanziari sempre più opachi. Le banche di investimento si finanziavano emettendo strumenti finanziari sempre più complessi fatti apposta per ottenere rating positivi. Mettevano insieme tipologie di prestiti e di debitori diversi rispettando principi di diversificazione del rischio per cui se ci sono insolvenze da alcuni debitori, queste verranno compensate da andamenti migliori del previsto di altre categorie di debitori. Ma le agenzie di rating non erano attrezzate per tenere conto di rischi sistemici, che colpiscono tutti, come il crollo del mercato immobiliare. E anche quando avrebbero potuto non hanno voluto tenerne conto perché i loro profitti erano crescenti nel numero di emissioni delle banche di investimento. Colpa di una cattiva regolamentazione. Colpa di regole prudenziali applicate a macchia di leopardo. Bisognerà rivedere le regole e il modo con cui si vigila sul loro rispetto. Ci vorrà del tempo per farlo.
Ci vorrà del tempo anche per spacchettare questi titoli "tossici", guardarci dentro, speriamo trovando non solo sorprese negative. Come ci vorrà del tempo per identificare i manager che ci hanno trascinato sull´orlo del baratro separandoli da quelli che sono solo stati contagiati dalla crisi. Bisognerà fare tutto questo per evitare che la crisi si ripeta. Adesso però, subito, bisogna occuparsi di tenere in piedi il sistema, se non vogliamo tornare all´economia del baratto, quella in cui davvero non c´è più carta.
La mancanza di fiducia ha dunque portato alla ritirata dei mercati. Le banche per svolgere il loro mestiere hanno bisogno di scambiarsi soldi fra di loro: c´è chi è più attivo nel raccogliere risparmi presso le famiglie e chi invece è maggiormente specializzato nei prestiti alle imprese. Ci sono scadenze diverse cui fare fronte sui due versanti, impieghi e depositi. Oggi le banche hanno paura a concedere prestiti ad altre banche temendo che queste siano insolventi. Così le banche hanno smesso di prestarsi denaro tra di loro o lo fanno a costi esorbitanti. Per questo non servono neanche gli interventi delle banche centrali sui tassi di interesse. Gli occhi di molti sono in questi giorni puntati sugli indici di borsa, ma il vero polso della crisi lo si ha monitorando i tassi interbancari. La misura dell´inefficacia del taglio generalizzato dei tassi deciso martedì lo si ha con l´Euribor a tre mesi rimasto invariato. Per tamponare la crisi non bastano più neanche le massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, che ormai si succedono da mesi. Il fatto è che la crisi ormai è fatta anche di banche insolventi, non solo di banche che hanno problemi di liquidità.
Qualcuno deve oggi riempire i vuoti aperti da mercati che hanno cessato di operare, prima che questi vuoti aprano voragini. Questo qualcuno non può che essere lo Stato. Bene perciò che lo Stato fornisca capitale di ultima istanza a quelle banche che lo richiedessero espressamente, come deciso dal Consiglio dei Ministri straordinario di mercoledì sera. Ma deve essere un intervento con precisi limiti temporali, tenuto il più lontano possibile dalla politica, dalle mani dei Governi. Interventi di questo tipo sarebbero stati meglio gestiti a livello europeo, come richiesto dall´appello lanciato da lavoce.info e sottoscritto da 300 economisti europei. I governi dell´Unione hanno invece sin qui dato una pessima prova di se stessi andando ognuno per la sua strada, indice peraltro del fatto che hanno ambizioni di controllo e che temono che siano gli altri a finire per controllare le loro banche. Ma la gravità della crisi potrà indurli a più miti consigli e il nostro paese può comunque cercare un approccio integrato con quei paesi dell´Unione che ci stanno. In ogni caso, la gestione di queste eventuali partecipazioni dovrà essere affidata ad organi terzi, separati dal Tesoro. Bene che si tratti di azioni senza diritto di voto, ma ricordiamoci che anche con le azioni privilegiate o di risparmio si partecipa ad assemblee e che qualunque partecipazione rilevante è influente perché apre la strada al ricatto di mandare tutto all´aria uscendo dall´azionariato. Questi interventi verranno, per forza di cose, finanziati emettendo debito pubblico. Solo ponendo un ferreo limite temporale a queste partecipazioni avremo solo un incremento temporaneo nel debito, magari riusciremo anche a ridurlo rivendendo le azioni a prezzi più alti in un mondo uscito dalla crisi. Anche per questo è bene assicurarsi sin d´ora che ci sarà una ritirata, e far sì che sia una ritirata vera.
di Tito Boeri da la Repubblica del 10 ottobre 2008
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