Nell'autunno 1922 due navi tedesche (poi note come Philosophy Steamers) trasportarono da Pietrogrado alla Germania centinaia di intellettuali, la crema dell'intelligentsia russa pre-rivoluzionaria. «Una deportazione di cervelli senza precedenti» (Heller), che eliminava ogni scomoda opposizione in nome di un obbligato conformismo, e che inferse alla cultura russa un colpo mortale. Non fu un caso isolato. Ci sono ideologie, regimi, situazioni che rigettano gli intellettuali, la ricerca, il pensiero creativo (il caso meglio noto è quello della Germania nazista, ma anche l'Italia fascista fece la sua parte, con intellettuali ebrei e non). Non meno massiccia di quelle è l'emigrazione forzata di giovani talenti dalla prospera e smemorata Italia degli ultimi vent'anni: secondo l'Istituto di ricerca economica di Berlino (febbraio 2008), da anni il nostro Paese esporta migliaia di ricercatori e per ogni dieci che se ne vanno meno di uno viene, o torna, dall'estero. Ma in nome di che cosa i Governi italiani, in ammirevole sintonia bipartisan, s'industriano a favorire la diaspora dei migliori giovani dal Paese? Dietro questa ostinazione c'è un'ideologia, un progetto? C'è un'idea dell'Italia, del suo futuro?
I risultati del Consiglio europeo delle ricerche (Erc) sono un'allarmante cartina al tornasole. Erc è la nuova agenzia di ricerca dell'Unione Europea, che per distribuire i suoi 7,5 miliardi ha adottato una metodologia interamente basata sul talento degli studiosi e sul merito delle loro idee. Il primo bando, riservato ai ricercatori più giovani (con un tetto di 2,5 milioni a persona), si è chiuso qualche mese fa; il secondo, per gli studiosi più avanti in carriera (con un tetto di 3,5 milioni) si è chiuso in questi giorni. Quali i risultati italiani? Sia negli starting grants per i più giovani che negli advanced grants, l'Italia è stata prima per numero delle domande (1.760 su 9.167 nel primo caso (19,2%), 327 su 2.167 nel secondo (15%): sicuro indicatore che il Paese abbonda di ricercatori di ogni età, ma anche che essi disperano di trovare in patria i finanziamenti necessari. Ma quante domande hanno avuto successo?
Negli starting grants, i vincitori italiani sono 35, al secondo posto dopo la Germania, precedendo Gran Bretagna, Francia e Spagna; è dunque chiaro che l'Italia ha offerto a questi studiosi (età media: 35 anni) adeguata formazione e ambCiente di ricerca. Se però si guarda alle sedi di lavoro scelte dai vincitori, l'Italia precipita al quinto posto. Dei 35 vincitori italiani, solo 23 resteranno in patria, gli altri (coi loro fondi europei) preferiscono altri Paesi con migliori strutture di ricerca; e dall'estero in Italia arrivano solo due polacchi e un norvegese. Al contrario, in Gran Bretagna restano 24 vincitori su 29, ma se ne aggiungono 35 da altri Paesi (6 dall'Italia); in Francia restano 26 vincitori su 32, ma ne arrivano altri 12 (2 dall'Italia).
Negli advanced grants, i risultati italiani sono ancor più preoccupanti. Prima come numero di domande, l'Italia è al quarto posto per il successo (23 vincitori), dietro Gran Bretagna (45), Germania (32) Francia (30). Ma dei 23 vincitori italiani, ben 6 portano il proprio grant in altri Paesi, contro un solo non-italiano (un inglese) che ha scelto una sede italiana (Pisa). Al contrario, negli altri Paesi il rapporto fra "uscite" ed "entrate" di vincitori dei grants è molto più favorevole: il saldo netto (contro il totale di 18 grants da spendersi in Italia) è di 56 in Gran Bretagna, 32 in Francia, 26 in Svizzera. Per attrattività l'Italia è dunque all'ultimo posto, anzi sostanzialmente assente. In compenso, il Paese svetta in cima a tutte le classifiche per numero di studiosi che hanno deciso di trasferirsi altrove coi loro cospicui fondi europei. Il bilancio è disastroso: prima per numero di domande (cioè per potenzialità), l'Italia è ultima in Europa per capacità di attrarre studiosi da fuori, ma anche di trattenere i propri cittadini.
In nome di che cosa maggioranza e opposizione, ministri e deputati assistono passivamente a questa emorragia di forze intellettuali? Nessuno potrà credere sul serio che alla base vi sia un calcolo economico. È evidente che formare nuove generazioni di ricercatori per poi "regalare" i migliori ad altri Paesi non è un buon investimento. Eppure, nella strettoia che l'università italiana sta attraversando questi dati non sembrano avere alcun peso, quasi per corale cecità di un Paese determinato a indietreggiare. I severi tagli della legge 133/2008 incideranno seriamente sul futuro dell'università. Sarebbe ingiusto non riconoscere le gravi difficoltà economiche del momento, come lo sarebbe non ammettere i troppi casi di cattiva amministrazione delle risorse da parte degli Atenei.
Il paradosso è che i finanziamenti per università e ricerca in Italia sono da troppi anni strutturalmente insufficienti (meno di un terzo dell'obiettivo fissato dall'agenda di Lisbona) ma al tempo stesso le scarse risorse vengono spesso sprecate o mal spese. Ma nessuna scure che si abbatta alla cieca ha mai generato nuove forme di virtù: colpendo in misura eguale chi ha gestito malissimo le proprie risorse e chi lo ha fatto al meglio, la legge Tremonti non ha dato all'università italiana il segnale giusto.
di Salvatore Settis da il Sole 24 ore del 21 ottobre 2008
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