martedì 4 dicembre 2007

Stati Generali. un nuovo inizio? Dipende

Non so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza

N on so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza. Eventi, cioè, caratterizzati dalla volontà di rappresentare un "mondo" nel suo insieme e nelle sue singole parti, nella sua generalità, appunto, e nelle sue articolazioni, nella sua complessità come nella sua interezza - perfino completezza. Sta di fatto che, da un certo punto in poi, fino ai nostri giorni, gli Stati Generali hanno cominciato a dilagare: solo in questo autunno, anzi in questo mese di novembre, se ne sono tenuti almeno una dozzina, come, tra gli altri, per citare i più politicamente significativi, quelli della cooperazione e solidarietà internazionale, quelli della sostenibilità, promosso dalla regione Toscana, quelli del Terzo Settore - ma anche, per dire, quelli delle donne Udc, quelli delle piccole e medie imprese, quelli del vino, quelli del rock piemontese. E altrettanti ne sono annunciati a venire - a Torino il sindaco Chiamparino ha annunciato i prossimi stati generali della città, per costruire un progetto adeguato di futuro per la ex-capitale dell'automobile. Una tale inflazione di Stati Generali, certo, rischia di depotenziarne il senso e di ridurne via via la portata, quella natura speciale che li distingue dai convegni, dai meeting e dalle assemblee. Tuttavia, il fascino - il valore - di questa dizione non è ancora del tutto andato perduto. Ogni volta che si convocano Stati Generali - anche i più piccoli - si comunicano, quantomeno, un'intenzione, un messaggio, una volontà non ordinarie. Si sottintende il bisogno di unire quel che c'è, tutto quel c'è di reale e di vitale, in un certo settore, campo di attività, giardino di idee. E di andare possibilmente oltre. E di iniziare una fase nuova. Naturalmente, la verifica della bontà dell'intento non potrà che essere ex-post, come si usa dire. Ci sono, anche nelle cronache recenti, Stati Generali che non sono stati nient'affatto generali - come per esempio quelli della scuola, ai tempi del governo Berlusconi, voluti con inusitata pomposità dalla ministra Moratti e rivelatisi un flop. O, al contrario, Stati Generali che hanno segnato una tappa significativa nella vita e nella cultura dei movimenti - come quelli dell'antimafia, tenutisi a Roma un anno fa. Insomma, dipende. Dipende non solo dall'impegno (in forze, energie, persuasione, intelligenza) che viene effettivamente profuso nella costruzione dell'evento, ma anche, se non soprattutto, dalla sua capacità di incontrare davvero il tempo giusto, e di diventare credibile, produttivo, ricco.
Vale, questa specie di legge, anche per gli ormai imminenti Stati Generali della sinistra. Potrebbero essere, sì, un "nuovo inizio", l'avvio di un'altra storia. Potrebbero perfino, essere un (piccolo) fatto rivoluzionario. Dipende. Dipende, anche, se non soprattutto, da quanto essi - gli Stati Generali della sinistra - riusciranno a sfuggire al controllo e a vivere di vita propria. A smentire le scontatezze, le ritualità, i riti dell'anti-ritualità, le facili previsioni, insomma le logiche tradizionali della politica e dell'antipolitica. Ad accendere, alla fin fine, una scintilla - piccola, forse, ma una scintilla vera, una luce che, prima, non si vedeva o non riusciva a prendere chiarezza. E' mai successo davvero, nella nostra storia? Ma sì, quel 5 maggio del 1789 accadde proprio questo.
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Nulla autorizzava a pensare che quel ritorno degli Stati Generali - che non erano più stati convocati dal 1614 - avrebbe così radicalmente cambiato la faccia della Francia, dell'Europa e della modernità. E' pur vero che, concretamente, la rivoluzione di Francia era cominciata, da un pezzo, e da un pezzo era drammaticamente acuita da una crisi sociale senza precedenti, nonché da una catastrofica crisi finanziaria. E' vero che l' ancièn règime era ormai arrivato alle soglie dell'implosione: che era cioè un'architettura abbondantemente marcescente, con un monarca assoluto, una classe di parassiti (i nobili e l'alto clero) che viveva, poche migliaia di privilegiati, sulle spalle e il lavoro di milioni e milioni di persone, un diritto fermo ai secoli del feudalesimo, e non poteva più reggere nel Paese che aveva nel frattempo prodotto l' Encyclopedie , riscoperto il diario dell'abate Meslier, messo in scena le commedie di Beumarchais, lanciato il grido di Emmanuel Syeyès («Che cos'è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa ha rappresentato fino ad oggi nell'ordine politico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualche cosa»). Eppure.
Vedete come la "astuzia della ragione storica" si incarica di operare, anche di nascosto, anche quando le condizioni concrete sembrano tutte congiurare per svilire un evento, o ridurlo ai minimi termini? Il re di Francia, per quanto irresoluto, conservatore, pauroso, aveva bisogno come il pane che il popolo - il popolo borghese, quello che aveva o ricchezza o cultura - si mobilitasse per salvare il suo regno dalla bancarotta: perciò, per convocare gli Stati Generali, scrisse una "lettera preliminare", colma di affetto per i suoi «fedeli sudditi», e densa di promesse «di felicità e prosperità», che nel febbraio dell'89 fu letta in tutte le parrocchie di Francia, «come un'omelia», racconta lo storico Winock. Milioni di francesi furono spinti all'entusiasmo e alla partecipazione: sembrava finalmente venuto il momento in cui i problemi - gravi e gravissimi - che affliggevano il Paese potevano essere affrontati, discussi, risolti. Milioni di persone, diversissime l'una dall'altra per condizione sociale e culturale, ma accomunate dal fatto di aver compiuto venticinque anni, di essere di sesso maschile, e di «essere compresi nei ruoli d'imposta», si gettarono a capofitto nell'impresa: parrocchie, borghi, comuni, città, baliaggi primari e baliaggi secondari, siniscalchie, corporazioni erano i luoghi dove riunirsi, per redigere i propri cahier de doléances ed eleggere i propri deputati agli Stati Generali. Con quali regole? Non c'erano, od erano pochissimo chiare - così come non era chiara la geografia della Francia dell' ancièn régime che confondeva spesso i confini delle province e l'appartenenza delle parrocchie. Quanti dovevano essere i rappresentanti da eleggere? Con quanti e quali gradi? Con norme univoche, che valevano per tutti e dovunque, oppure con una differenziazione che rispettava le specificità locali, tra comunità d'election e pays d'Etat ? Con quale sistema si doveva procedere al voto, segreto o palese? Interrogativi che furono alla fine risolti sulla base del regolamento regio, e della sua creativa interpretazione - era la scoperta di una cosa nuova, la democrazia, ed era la ricerca del suo corollario principale, la costruzione di forme e di regole. Ma, soprattutto, era il Re in persona a sollecitare tutto questo: «Sua Maestà desidera che, fin dalle terre estreme del suo Reame e dalle più umili abitazioni, a ciascuno sia consentito di poter far giungere fino a Lei i suoi voti e i suoi reclami». Parole di fuoco, pur redatte e diffuse da un uomo dedito più che ad ogni altra cosa al piacere della caccia, che però si imprimono nella testa di tutti, anche dei più diseredati, e li spingono alla lotta. «Stroncando l'ingiustizia, essi realizzano la parola del re, o così credono», scrive Albert Mathiez. «La politica, come dice Madame de Stael, è un campo nuovo per l'immaginazione dei francesi: ciascuno si lusinga di recitarvi una parte, ciascuno vede uno scopo per sé, nelle possibilità moltiplicate che si annunciano dappertutto».
E' in questo clima di straordinario fervore che si svolge la campagna elettorale, nei primi mesi dell'anno, ci si scontra sulle prerogative dei tre ordini, si eleggono i deputati, matura la coscienza del Terzo Stato di essere lui - loro, i borghesi - il vero autentico rappresentante della Nazione. Quelle che si svolgono, a pensarci un paio di secoli abbondanti dopo, sono primarie diffuse, capillari, inconsapevoli, che coinvolgono quasi ogni più piccolo angolo della Francia, scoprono i propri leader locali nelle schiere di giuristi e avvocati che affollano il "partito patriottico" (tra di essi, nell'Artois, un piccolo avvocato che difendeva i poveri e si distingueva per gli attacchi ai nobili, che si chiamava Massimiliano Robespeierre) , dividono i curati di campagna dai vescovi e una pattuglia di aristocratici liberal dai nobili conservatori, accumulano una impressionante marea di analisi e proposte concrete - come di speranze. Alla fine, dai diversi "grandi elettori" dei baliaggi, esce una nuova, gigantesca assemblea: millecentocinquaquattro deputati, 291 del clero, 285 della nobiltà, 578 del Terzo Stato. Quelli che andranno a Versailles, per gli Stati Generali.
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Ma seguiamo ancora l'astuzia della ragione storica. Quel 5 maggio cominciò malissimo, con una cerimonia d'apertura che apparve una pietra tombale su tutte le attese, le ansie, gli entusiasmi. Tutto il cerimoniale era studiato per mantenere, fin nelle minuzie fisiche, la separazione tra i tre ordini: nobili e clero vennero ricevuti in pompa magna dal re, nel suo gabinetto, quelli del Terzo Stato, costretti ad una lunghissima attesa e ad una coda interminabile, vennero fatti passare da una porticina secondaria, e si limitarono a sfilare di corsa per la camera da letto del monarca. Tutti costretti a vestirsi di nero - una specie di costume ufficiale, che doveva sancire la visibile "minorità" dei borghesi rispetto agli sfavillanti costumi degli ordini privilegiati. Poi, di fronte a loro, dopo essersi fatto attendere per ore, Luigi XVI pronunciò un breve discorso che diffidava i deputati da ogni pretesa di innovazione e li invitava, al tempo stesso, ad aprire i cordoni della borsa. A seguire, fu Necker (il Padoa Schioppa dell'epoca) a parlare: tre ore di cifre, numeri, di deficit, di tagli alla spesa pubblica. Ma forse fu proprio questa cattiva accoglienza a far scattare la molla decisiva. Se il re e i suoi ministri non parlavano di politica, sarebbero stati loro - i Comuni, questa era il nuovo nome che il Terzo Stato si dette - a impadronirsene, della politica. La sera stessa del 6 maggio i deputati del Terzo Stato si riunirono, provincia per provincia: i bretoni con Chapellier e Lanjunais, quelli dell'Artois con Robespierre, quelli del Delfinato attorno a Mounier e Barnave - e via via, scoprendo che il primo obiettivo erano le procedure, la "verifica dei poteri", cioè della validità delle elezioni, da realizzarsi in un'unica assemblea, insomma l'abbattimento di quella barriera "innaturale" che separava i deputati delle caste alte da quelli delle nuove classi borghesi e popolari. Chi ha detto che le regole non sono nulla e che la sostanza è tutto? Nello spazio di pochissime settimane, dopo estenuanti e vane trattative, il Terzo Stato maturò, proprio su regole e procedure, una nuovissima consapevolezza di se stesso e del suo ruolo storico: il 12 giugno i deputati "comuni" iniziarono da soli la verifica dei poteri e procedettero all'appello di tutti i componenti l'assemblea degli Stati Generali. Il giorno dopo, tre curati del Poitou (Lecesve, Ballare e Jallet) abbandonarono l'assemblea dell'ordine clericale e fecero il loro ingresso, tra gli applausi, nel grande salone dove era riunito il Terzo Stato - furono seguiti, pochi giorni dopo, da altri sedici parroci. La resistenza dei nobili, che pretendevano fino all'ultimo di far valere il voto per ordine invece che per testa, durò ancora qualche giorno. Ma, pensate, che cosa escogitò il piccolo Luigi XVI per annullare e bloccare il movimento: la sera del 19 giugno, dopo aver decretato l'annullamento di tutte le delibere del Terzo Stato, ordinò la chiusura della sala in cui esso s'incontrava, a causa di improvvisi e ineludibili lavori di ristrutturazione. Un mezzuccio meschino? Sì, certo. Ma da quel mezzuccio, la mattina successiva, consegue nientemeno che il giuramento della Pallacorda: nasce l'Assemblea Nazionale, nasce la Francia della libertè, egalitè, fraternitè. Tutto era già cominciato, tutto era destinato a svolgersi con velocità febbrile, bruciando mediazioni, resistenze, forze preponderanti, sconfitte tattiche. E scoprendo, quasi subito, il Quarto Stato, o incomodo, il popolo di Parigi insorta. La sera del 14 luglio 1789, la lunga gloriosa e violenta giornata della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrisse sul suo diario: Rien . Niente.
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No, non credo che gli Stati Generali dell'8 e del 9 dicembre 2007 possano produrre un fuoco paragonabile a quello che si accese quel 5 maggio del 1789. Eppure, non sarebbe male tenere quell'evento nella mente e nella memoria, non per nostalgie o goffi esercizi mimetici, non per riscoprire chissà quali irripetibili modelli, ma per sapere, molto più semplicemente, che ci sono processi reali che hanno ragione di mille miserie, e di mille apparenti "impossibilità". Che c'è sempre una possibilità di andare davvero oltre, quando si convocano gli Stati Generali. Dipende…

di Rina Gagliardi da Liberazione del 2 dicembre 2007

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