La disputa sulle date del referendum sta per esaurirsi; si può perciò cominciare a parlare del merito. Gli intenti che spinsero i referendari ad assumere l'iniziativa nel 2007 erano più che lodevoli. Di fronte al rischio che il panorama rissoso delle coalizioni proprio della scorsa legislatura diventasse un carattere strutturale del nostro sistema politico, proposero di liquidare quelle coalizioni attribuendo il premio di maggioranza alla sola lista vincente. In ogni scelta politica ci sono vantaggi e danni. Allora i vantaggi erano superiori ai danni.
Ora, però, il superamento di quel tipo di coalizioni è avvenuto per via politica. Nel 2008 Veltroni, con coraggio, si coalizzò con la sola Idv e Berlusconi lo seguì stringendo un patto solo con la Lega. E' difficile pensare che si possa tornare alle carovane di un tempo: i primi a ribellarsi sarebbero gli elettori. Perciò, guadagnati per via politica i vantaggi che si volevano conseguire attraverso il referendum, bisogna fare i conti con i danni.
Il quesito principale intende attribuire il premio di maggioranza alla lista che abbia preso più voti: la lista vincente alla Camera o al Senato, in ipotesi anche solo con il 30% dei voti, otterrebbe il 55% dei seggi. Già oggi non gli elettori, ma i capi dei partiti, caso unico nel mondo avanzato, hanno il potere di scegliere i componenti del Parlamento. Il referendum conferma questa loro prerogativa e anzi la potenzia perché mette nelle mani di un solo uomo, il capo del partito vincente, chiunque esso sia, la scelta della maggioranza assoluta dei parlamentari. Le preoccupazioni aumentano quando si guarda agli statuti dei partiti e alle prassi che caratterizzano la loro vita interna: ben pochi partiti politici oggi potrebbero definirsi democratici, visto che molti funzionano con modalità carismatiche e populiste. Se domani vincesse il Sì, un solo partito, in netta minoranza nel Paese, diventerebbe maggioranza assoluta in Parlamento e potrebbe ad esempio, da solo, eleggere il Capo dello Stato, impossessarsi dei mezzi d'informazione, cambiare secondo le proprie convenienze la legge elettorale e i regolamenti parlamentari. Il Parlamento diventerebbe una protesi del governo, anzi del presidente del Consiglio, chiunque esso sia.
Oggi la maggioranza Pdl-Lega assicura una certa dialettica politica che non blocca la democrazia ma favorisce il confronto; lo stesso sarebbe accaduto se avesse vinto la coalizione Pd-Idv. Se domani, grazie al referendum, governasse solo il Pdl o solo il PD la democrazia sarebbe più salda? Il bipartitismo non è una bestemmia, ma esige un sistema elettorale che dia ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari e regole democratiche in tutti i principali partiti. Queste condizioni oggi non ci sono e pertanto il bipartitismo che verrebbe fuori dal referendum consoliderebbe in realtà le attuali oligarchie.
Mi sembra assai rischioso sostenere che conviene far vincere il Si per potere poi cambiare la legge Calderoli. Se davvero ci fosse una maggioranza per cambiare la legge elettorale, perché non la si è cambiata tempestivamente, anche per evitare il referendum? In realtà oggi non c'è una maggioranza per una nuova legge elettorale ed è difficile che possa esserci domani, quando i vincenti avrebbero nelle proprie mani tutto il potere.
di Luciano Violante da La Stampa del 16 aprile 2009
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