giovedì 7 febbraio 2008

Un vuoto di legalità

Muore, senz´essere mai nata, la Seconda Repubblica. Lascia uno spaventoso vuoto di legalità, dove è già precipitata la politica e nel quale rischia di inabissarsi l´intera società italiana. In questo clima, e con un contesto così degradato, si corre verso le elezioni anticipate.
La legalità costituzionale, prima di tutto. Sta accadendo qualcosa che non ha precedenti nell´intera storia repubblicana. Si dubita, con fondate ragioni, della legittimità stessa delle leggi elettorali, dunque dello strumento al quale sono affidate le sorti della democrazia rappresentativa. Questo non avviene per forzature di parte. Deriva da quel che sta scritto in una delle sentenze con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili i referendum elettorali e che, nell´euforia referendaria, era stato trascurato. Non è un dettaglio, ed è ben più che un segnale d´allarme. Dopo aver ricordato di non potersi occupare in questo momento della costituzionalità dell´attuale legge elettorale, né di quella che risulterebbe qualora i referendum fossero approvati, i giudici costituzionali scrivono: "L´impossibilità di dare, in questa sede, un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime tuttavia questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l´esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l´attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una quota minima di voti e di seggi". Un vizio, questo, che non riguarda soltanto la legge che deriverebbe dal referendum, ma "è carenza riscontrabile già nella normativa vigente", dunque nella legge con la quale andremo a votare in aprile.
Che cosa vuol dire tutto questo? Che sulle prossime elezioni si allunga appunto l´ombra dell´illegittimità. Le Camere risultanti dal voto di aprile verranno costituite con un meccanismo sul quale sollevano dubbi non critici malevoli, ma la stessa Corte. La "porcata" di Calderoni e la "trovata" dei referendari sono accomunate da un dubbio che riguarda la loro compatibilità con il sistema costituzionale.
Come uscire da questa situazione? Da molte parti si prospettano ricorsi, conflitti tra poteri dello Stato. Ma, date le caratteristiche delle leggi elettorali, è quasi impossibile sanare quel vizio d´origine. E così l´intero nostro sistema istituzionale è destinato a funzionare in condizioni di "convivenza con l´illegalità", estendendosi ad esso una regola che vige da tempo in molte aree e settori del nostro paese. L´unico rimedio sarebbe la rapida approvazione di una nuova legge elettorale, subito dopo il voto. In questo modo, però, il nuovo Parlamento sarebbe immediatamente delegittimato, l´annunciata "fase costituente" avrebbe basi fragilissime e non sarebbero infondate le richieste di tornare al voto con una legge finalmente conforme alla Costituzione. Sembrerebbe che non vi sia alternativa: convivere con l´illegalità al massimo grado, quello costituzionale, o rassegnarsi ad una fase confusa e instabile. Questo è l´ultimo lascito della cosiddetta Seconda Repubblica, frutto dell´imprevidenza di alcuni e dell´irresponsabilità di molti.
L´illegalità costituzionale non si ferma qui, ma si estende all´intero sistema della comunicazione televisiva, dunque ad una componente ormai essenziale del processo democratico. Di nuovo, la denuncia della stessa illegittimità formale del nostro sistema non viene da critici prevenuti, ma dal vertice delle istituzioni europee, la Corte di Giustizia e la Commissione. La prima ha giudicato illegittima la mancata attribuzione delle frequenze spettanti all´emittente televisiva Europa 7, con una inammissibile chiusura del mercato e un pregiudizio per il pluralismo della comunicazione. E la Commissione ha da tempo avviato una procedura d´infrazione contro l´Italia, ritenendo incompatibile con le regole europee la legge Gasparri, dunque la normativa che sta alla base dell´attuale sistema. Questa situazione, per sé in contrasto con qualsiasi assetto democratico, diventa particolarmente grave nel nostro paese dove, come tutti sanno, si traduce nell´attribuzione di un indebito vantaggio ad una delle parti della contesa elettorale.
Le infinite anomalie italiane si intrecciano sempre più strettamente, rischiano di soffocare la democrazia e certamente producono sfiducia crescente da parte dei cittadini elettori. Che, per la seconda volta, si troveranno radicalmente espropriati della possibilità di scegliere i loro rappresentanti. Le liste bloccate saranno confezionate da una ventina di persone, alle quali è stato così trasferito un potere incontrollato di designare quasi mille parlamentari.
A questa ulteriore distorsione potrebbe esser posto parzialmente rimedio se, a differenza della volta passata, le oligarchie politiche facessero una duplice operazione. Da una parte, dovrebbero adoperare il loro enorme potere per rinnovare davvero la classe dirigente, con l´occhio alla competenza e all´effettiva rappresentatività, invece di perseverare nell´abitudine di promuovere famigli, clienti, yesmen, bevitori di spumante, mangiatori di mortadella, espositori di striscioni ormai vietati anche nelle curve degli stadi. Dall´altra, dovrebbero avviare una operazione di ripulitura che ripristini la legalità attraverso una rigorosissima valutazione della moralità pubblica e dei precedenti penali dei singoli candidati.
Sembrano due missioni impossibili, e forse lo sono. Ma la fiducia dell´opinione pubblica, dunque il suo ritorno alla politica e non la resa alle suggestioni dell´astensione e dell´antipolitica, passa proprio attraverso la ricostruzione della moralità pubblica, la fine della politica come mondo separato, sciolto dall´osservanza d´ogni regola, portatore più che di privilegi di vere e proprie immunità.
Molte indicazioni recenti vanno nel senso opposto. Prendiamo come esempio il caso Cuffaro. Sembrerebbe che le sue dimissioni siano state determinate non da una pesante condanna, ma da un vassoio di cannoli. Presente alla lettura della sentenza, il Presidente della Regione siciliana ha manifestato tutta la sua soddisfazione per essere stato assolto dall´imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa, con una allegria che lasciava allibito chi aveva appena ascoltato una condanna a cinque anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici. Intorno a Cuffaro si strinsero il suo partito e l´intero centrodestra. Poi l´imprevisto, barocco arrivo dei cannoli, e l´inevitabilità delle dimissioni. Dovute, dunque, ad un eccesso nei festeggiamenti, non a sensibilità istituzionale (si annunciava un decreto di rimozione). Ma il suo schieramento politico continua a presentarlo come vittima di una persecuzione giudiziaria, mentre quel processo, come dimostrano i molteplici colloqui di uomini della politica con esponenti mafiosi, è la prova drammatica di una politica che al mondo della criminalità non chiede soltanto un "appoggio esterno", ma con esso tende a compenetrarsi.
Come dimostrano questo ed altri casi, i tentativi di recuperare una legalità perduta da tempo sono affidati soltanto ai giudici, con le inevitabili distorsioni che questo comporta. Ma queste distorsioni, come ripeto da anni, derivano dal modo in cui il ceto politico ha deciso di difendersi, azzerando ogni sua responsabilità, sottraendosi a quelle minime regole deontologiche che qualsiasi professione (avvocati, medici, ingegneri) deve rispettare.
Da tempo la responsabilità politica è scomparsa. Quando si censura il comportamento di un politico, ormai la risposta corrente è "non vi è nulla di penalmente rilevante". Così non solo si confondono codice penale e regole della politica. Si fa diventare la magistratura l´esclusivo e definitivo giudice della politica: e questo accade non per una volontà di potenza dei giudici, ma per le dimissioni della politica da uno dei suoi essenziali compiti. Un establishment che voglia davvero essere tale, e voglia conservare credibilità di fronte all´opinione pubblica, dev´essere capace di escludere non solo chi viola le norme penali, ma chiunque trasgredisca le regole di trasparenza, correttezza moralità, riducendo la politica solo a spregiudicata gestione del potere.
Parlando di legalità, e del suo ripristino, è lecito fare un accenno anche alle questioni "eticamente sensibili"? O questa è una inaccettabile caduta nel laicismo? Un solo caso. In un clima da crociata, e di fronte a prescrizioni sempre più perentorie delle gerarchie ecclesiastiche, amministratori locali vogliono imporre le loro regole per l´interruzione della gravidanza. So bene che citare Zapatero è come parlare del Diavolo. Ma uno Stato dev´essere capace di rivendicare quelle che sono le sue proprie competenze, non delegabili a nessun altro. Solo così i cittadini possono continuare a percepire chi davvero esercita la sovranità, qual è la fonte delle regole, ed essere pronti a rispettarle.

di Stefano Rodotà da la Repubblica del 7 febbraio 2008

lunedì 4 febbraio 2008

Le classi dirigenti italiane (dal Pd, a Casini, alla Chiesa alla Cisl) si preparano (o sono conquistate) dalla Restaurazione

A volte, la cronaca quotidiana, in genere così ridondante e confusa, ci invia "segni" improvvisamente chiarificatori - come tanti flash che si proiettano sulle tenebre del reale. Solo quattro esempi, tutti di questi giorni già "elettorali". Primo: nei documenti fondativi del Partito Democratico (Carta dei valori, Codice Etico, Statuto) era stato cancellato ogni riferimento alla Resistenza partigiana, tanto che Walter Veltroni è dovuto intervenire a correzione. Secondo. Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha violentemente attaccato l'ultimo film di Francesca Comencini ("In fabbrica") e, soprattutto, ha invitato la Rai (produttrice della pellicola) a non mandarlo in onda, cioè a censurarlo. Terzo: nel corso della cerimonia che ha celebrato il quarantesimo della Comunità di Sant'Egidio, il cardinal Bertone ha scagliato l'anatema della Chiesa cattolica contro il Sessantotto, che era "un mondo contro Dio", e radice della degenerazione morale e spirituale del nostro tempo. Quarto: intervenendo al convegno di "Liberal", sempre sul Sessantotto, il cattolico Pier Ferdinando Casini ha giudicato esiziali, più o meno, i pontificati di Giovanni XXIII e soprattutto di Paolo VI, ha condannato il Concilio e ha lanciato la sua nuova tavola di valori, fondata sulla gerarchia e l'autorità. Che cosa c'entrano, l'una con l'altra, queste affermazioni, questi "segni"? E perché mai, eventualmente, ce ne dovremmo (pre)occupare?
C'entrano, e come, al di là delle differenze evidenti di oggetti, contesti, protagonisti. Impressionante, anzi, è la convergenza culturale che si realizza in circostanze apparentemente così lontane: e sta nel clima di regressione culturale che pervade la società italiana e le sue così dette "classi dirigenti". C'è un'ansia revisionistica e neo-autoritaria, che si esprime sia nella continua cancellazione della storia, quella antica e quella recente, sia nella rimozione di tutto ciò che è stato conflitto, cambiamento, carne e sangue, libertà sostanziale di questo paese. C'è una pulsione di normalità neoconservatrice, che si spinge alla "normalizzazione" del passato prima che del presente - lo rovescia, lo ridisegna, lo falsifica, per seppellirne le tracce vive, la vitalità, l'attualità. Se è vero che la rammemorazione del passato, come ci ha (re)insegnato Walter Benjamin, è al fondamento di ogni autentico sguardo sul futuro, non è forse altrettanto vero che la "riscrittura della storia", di orwelliana memoria è funzione stretta di ogni Grande Restaurazione?

Guardate i bersagli concreti: l'antifascismo - ma anche e soprattutto la sua natura di collante civile e di vera "religione laica" del paese; le lotte operaie e studentesche del '68 - ma anche il conflitto sociale e la protesta giovanile come fattori costitutivi di una democrazia matura; il Concilio Vaticano II - ma anche un'idea, e una pratica, cristiane protese alla trasformazione del mondo, piuttosto che all'occupazione del potere; la libertà di un(a) autrice cinematografica - ma anche, più in generale, l'autonomia della produzione artistica e spettacolare. Ognuno, s'intende, ha le proprie specifiche motivazioni. Nel Partito Democratico, che stenta a definire un'identità che non sia, di volta in volta, pallidamente "riformista", ecumenica, interclassista, postpost, prevale forse la voglia di uscire in termini definitivi dal ‘900, e in particolare dalla storia repubblicana. Per potersi presentare come un soggetto davvero "nuovo", e non come la continuazione fredda di ciò che sono stati la Dc e il Pci, aveva perciò "dimenticato", nientemeno, ogni riferimento alla Resistenza e all'antifascismo - non però si tratta di una smemoratezza, ma di una scelta, forse, chissà, di una concessione alle componenti cattoliche, moderate, ipernuoviste della nuova formazione politica. Con una correzione che va apprezzata, ma che non appare sufficiente a chiarire l'interrogazione di fondo - sul Pd, il suo "senso di sé", la sua cultura politica.
Un "senso di sé", invece, che sembra molto forte nell'attuale leader della Cisl e in varie realtà del mondo cattolico organizzato. Qui, la rimozione assume il volto dichiarato dell'anticomunismo, l'ideologia che rispunta come si deve ad ogni campagna elettorale: invece di apprezzare, da buon sindacalista, la recente tendenza del cinema italiano (anche in film come "La signorina Effe") a tornare ad occuparsi di soggetti dimenticati come gli operai, a rimetterli sulla scena da protagonisti, a riaprire un brano bruciante (e attualissimo, come si vede dalle stragi sul lavoro, i bassi salari, la disperazione operaia) della nostra storia, Bonanni rilancia, nientemeno, l'orgoglio cislino e la censura. Difende la sua bottega e si riscopre vecchio democristiano - di quelli che dettano alla Rai le regole, le produzioni buone e quelle cattive . Vuole, insomma che si dimentichi che cosa è stato il '68 degli operai, degli studenti e dei lavoratori intellettuali: nient'affatto un'epoca di trionfo comunista, orchestrata dal Pci e dai duri della Cgil o della Fiom, ma la stagione in cui esplose una voglia quasi incontenibile di libertà e di liberazione. Del lavoro, della cultura, del sapere. Del potere padronale in fabbrica e del (marcescente) potere accademico nelle università. Della divisione sociale del lavoro, delle gerarchie, dell'autoritarismo. Sì, anche una grande stagione di disordine, che non riuscì nell'impresa gigantesca di "cambiare tutto", ma che molto cambiò - nella società, nelle fabbriche, nella scuola, nella Chiesa, nei rapporti tra i generi, nella modernità. Ne uscimmo diversi tutti, anche i partiti e i sindacati, anche la Cisl (come recita un'altra canzone di Fabrizio De Andrè, tratta dal maggio francese, "anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti") - forse anche l'allora giovane Raffaele Bonanni. Ma tant'è. L'occasione del quarantesimo - quarant'anni sono tanti, quasi un'epoca - offre a molti la possibilità di manifestare la voglia di revanche, in una postcrociata antisessantottina che sarebbe grottesca e perfino un po' comica, se non fosse pericolosa. Così, ieri, l'ex-forzista (sic!) Nando Adornato, navigatore audace tra gli oceani del revisionismo, ex-comunista pentito, ex-ingraiano, ex-testa d'uovo della sinistra, ora fresca new entry nell'Udc, ha spiegato che il Sessantotto è alla radice di tutti i mali e di tutte le devastazioni italiane - il la, logicamente, l'aveva dato il cardinal Bertone, aggredendo un altro mito della nostra giovinezza, Woody Allen. E il moderato Casini ha aggiunto di suo la vera ragione di tanto rancore: il ruolo svolto da Giovanni XXIII e Paolo VI e da tanti cattolici di movimento. Ma, appunto, qual è il bersaglio vero? La libertà del conflitto e del dissenso. La voglia di cambiamento. L'idea di una società di eguali. L'autodeterminazione dei soggetti e delle soggettività. Basta rovesciare queste parole d'ordine nel loro contrario, per avere il programma restaurativo degli anni 2000, ovvero del prossimo decennio. Historia est magistra vitae , ci insegnavano molti anni fa sui banchi della I° media. L'antifascismo, il protagonismo operaio, il dissenso dei giovani - e la libertà di confliggere, di fare buoni film e buona musica, di disinquinare il mondo dalle merci - restano il sale della terra. Anche nel XXI secolo.

di Rina Gagliardi da Liberazione del 3 febbraio 2008

martedì 15 gennaio 2008

Ignorando quelle vere cavalcando le false tutto rischia di diventare irrilevante

Mentre la politica - la politica "che conta" - è entrata in una fase di particolare complessità (sulla questione salariale e sulla legge elettorale si stanno giocando, in queste settimane, partite abbastanza decisive), l'attualità politica resta dominata da una categoria suprema: l'emergenza. Anzi, più che di una categoria si tratta di una vera e propria sindrome: quasi tutto, fatti reali o fatti montati a dismisura o fatti addirittura inesistenti, in questo Paese diventano Emergenza. Emergenza rifiuti, certo fondata, che ora apre ogni Tg serale a mattutino con la visione apocalittica delle città campane sommerse dalla mondezza - ma che data, come tutti sanno, da almeno tre lustri. Emergenza morti sul lavoro, certo ancora più fondata, che è esplosa con la strage della Thyssen Krupp - ma che a sua volta ha radici lunghe e nettissime ragioni di classe. Emergenza sicurezza, che invece proprio non c'è - e che se mai andrebbe battezzata come emergenza paura. Emergenza salariale, che c'è - e basta essere un normale lavoratore, o una normale massaia che va a fare la spesa, per saperlo. Emergenza riforma elettorale, che forse c'è, ma che comunque non interessa - legittimamente - a nessun cittadino "normale". Tutte cose molto diverse, tra di loro. Ma, appunto, prima ancora che un contenuto, l'emergenzialismo è una modalità, un approccio, una filosofia, a volte consapevole e anche cinica, a volte perfino quasi inconsapevole. L'emergenza viene cioè rappresentata come un'esplosione improvvisa, una bufera inattesa, una nevicata nel mezzo dell'agosto. E' la rottura drammatica di un equilibrio o di un ordine che, fino ad allora, erano percepiti o vissuti come tollerabili. Insomma, è un'eccezione che rompe la normalità - e come tale richiede misure eccezionali, immediate, talora emotive o poco riflettute, di sicuro mai "strategiche". Diamine, se torno a casa e trovo tutto allagato, la mia prima preoccupazione sarà quella di togliere l'acqua in eccesso e di chiamare un pronto intervento idraulico, non certo quella di rimettere a nuovo, o a norma, il sistema che ha prodotto l'allagamento! Così procede la politica italiana, così si comporta l'informazione: un'alleanza maledetta tra due poteri pubblici cruciali, che si alimentano a vicenda nella produzione di un clima che sta minando alcuni essenziali fondamenti della nostra - già non brillante - democrazia.
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Perché la logica dell'emergenza è sempre sbagliata? Per almeno tre ragioni, che proviamo ad analizzare schematicamente.
La prima ragione già la accennavamo sopra: l'eccezionalità, anche quando è legata a necessità effettive o evidenti, fa sempre velo alla natura reale - quasi sempre strutturale - dei problemi e ne rallenta sempre la soluzione, o la possibilità di soluzione. Ne è un esempio chiaro la lunga teoria di "morti bianche", di incidenti sul lavoro, di vere e proprie stragi, che da anni caratterizzano il nostro paese e il sistema economico-sociale - questo giornale (e pochi altri, ricordo il "manifesto" negli anni '70) non si stanca di denunciare, di raccontare, di indicare le cause di fondo, di proporre soluzioni. Ci sono state e ci sono commissioni parlamentari ad hoc. Ma, fino alla tragedia della Thyssen Krupp, né la politica né l'informazione (quella grande, quella che conta) si sono accorti delle morti e degli incidenti quotidiani. Poi, con Torino, è scattato qualcosa: l'Emergenza, appunto. Forse, per qualche settimana, gli incidenti diminuiranno. Ma poi? Calato il sipario su quei sette corpi di operai straziati, esaurita la commozione e stemperata la pietà, tutto resterà come prima - senza la sicurezza, senza i controlli, senza la repressione necessarie, ma sotto la frusta della produttività e della competizione economica mondiale, che sono i valori portanti del nostro tempo.
La seconda ragione è che la sindrome emergenziale, fondata o non fondata che sia, serve talora - molto spesso - a legittimare scelte non democratiche, o pericolosamente antidemocratiche. La guerra è l'esempio più chiaro: in tempi bellici, leggi e diritti della cittadinanza sono sospese, in parte o in tutto, il potere politico stesso cede alla logica del potere militare.
Ma basta dichiarare una guerra "anomala", come la guerra al terrorismo, per ottenere effetti analoghi, pur in tempo di pace, pur nel pacifico e avanzato occidente - negli Usa, il "Patriot Act", a tutt'oggi in vigore, consente giust'appunto la sospensione di diritti finora considerati costitutivi in quella che molti si ostinano a considerare la culla della democrazia. E basta dichiarare un'Emergenza che non c'è - quella della Sicurezza nelle città - per sfornare decreti inutili, perseguitare cittadini di etnia "sbagliata", inviare all'opinione pubblica un messaggio (finto) muscolare. Questo è proprio un caso in cui la coalizione tra le responsabilità della politica e il ruolo dell'informazione provoca - sta provocando - una vera regressione democratica e civile. I direttori dei Tg (e dei grandi quotidiani) possono anche negare l'evidenza, ma mentono sapendo di mentire quando sostengono di fare, né più né meno, il loro mestiere: sono anni che qualsiasi delitto, omicidio o stupro o rapina, commesso da un cittadino extracomunitario ottiene titoli, attenzione e spazio imparagonabili a quelli dei loro omologhi italiani; sono anni che la cronaca nera, l'ossessione "gialla", le telenovelas delittuose, da Cogne a Garlasco, invadono a dismisura la programmazione televisiva; sono anni, insomma, che il sistema dell'informazione, non questo o quel quotidiano, diffonde ogni giorno la certezza a)che i crimini, gli omicidi, stanno vertiginosamente aumentando; b)che sono gli stranieri ad aver indotto questa macabra crescita di delittuosità; c)che il cittadino (italiano e bianco) è sempre più indifeso ed esposto ad ogni pericolo; d)che dunque servono misure eccezionali a garanzia, appunto, della sicurezza delle persone. La politica, come spesso le accade, questa volta ha seguito l'onda, come si usa dire - e del resto la tecnica del capro espiatorio è antica quasi come la civiltà, e serve a molti, quasi a tutti. Il risultato concreto, anche qui, è quasi irrilevante, mentre rilevantissima è la crescita di umori razzisti, xenofobi, intolleranti, spietati. Questa, del resto, è una guerra ad altissimo tasso simbolico, dove il potere, oltretutto, sfrutta ignobilmente l'insicurezza e la paura di massa che effettivamente ci sono - del resto, come può la "common people", normalmente precaria, sentirsi "al sicuro" in tempi come questi? La precarietà come condizione del lavoro e della vita: ecco ciò che sta succedendo effettivamente nelle nostre società, e che mina radicalmente la fiducia nel futuro - talora la razionalità.
Terza e (non) ultima ragione: a forza di procedere di emergenza in emergenza, a forza di ignorare le emergenze vere e di inventare quelle false, tutto diventa egualmente importante e parimenti drammatico - ovvero tutto rischia di diventare irrilevante. Con effetti ulteriori di scetticismo e di sfiducia, nel già vasto abisso che separa la vita reale dall'establishment (economico, politico, istituzionale, informativo, televisivo, ormai che differenza c'è?). Quando, appunto, un'emergenza come quella campana dei rifiuti si protrae, o si ripete, magari aggravata, per un ventennio, ogni allarme rischia di suonare come la grida di manzoniana memoria: un vuoto e roboante esercizio retorico (e bisognerebbe esser dotati di fede cieca per credere nelle virtù taumaturgiche del prefetto Di Gennaro). Quando ci sono emergenze puntuali come le stagioni (le frane primaverili del devastato e mai risanato geo-territorio italiano, le rivolte estive di carcerati che non ce la fanno più, gli incidenti ferroviari per degrado (voluto) delle Ferrovie, le "stragi del sabato sera" sulle strade per incitamento alla velocità, voluto da un'economia a tutt'oggi fondata sull'automobile, e mille altri esempi che si potrebbero fare) è sicuro che subentrano l'abitudine, la "mitridizzazione", forse l'indifferenza. Quando quella che è oggi l'emergenza mondiale più grave di tutte - l'impazzimento climatico - viene tranquillamente dichiarata come tale, e poi non succede nulla, assolutamente nulla, in che cosa le persone possono continuare a credere? Sì, è nostra radicata convinzione che questa Emergenza infinita sia una malattia, tra le più gravi, del nostro tempo. Finchè la politica e l'informazione non saranno in grado di liberarsene, e di tornare ad affrontare i problemi - che sono sempre complessi, e chiedono tempi, pazienza, e la fatica del cambiamento - in un'ottica di serietà, la loro stessa crisi non potrà che galoppare.

di Rina Gagliardi da Liberazione del 13 gennaio 2008

lunedì 14 gennaio 2008

Art. 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica

Non sono un costituzionalista, ma un professore universitario di fisica: per scrivere questo contributo, ho dovuto rileggermi la nostra bella Costituzione.

Non avevo presente l’articolo 9, che dichiara, in apertura,“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.” In particolare non avevo notato la sua collocazione tra i principi fondamentali, ovvero nel primo blocco di 13 articoli. Questi principi fondamentali, che sono probabilmente la parte più innovativa e moderna della nostra costituzione, sono ahimé anche quelli meno attuati nella nostra legislazione.

La ricerca scientifica è vista qui come un bene primario, da perseguire per il suo interesse culturale, e non per le sue ricadute economiche; anzi, tra i principi fondamentali non è detto che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo economico. È notevole poi che la cultura e la ricerca scientifica sono messe sullo stesso piano. Ovviamente la scienza è anche un’impresa pratica che ha lo scopo di aumentare la conoscenza e il controllo dell’uomo sulla natura, ma le ricerche non possono guidate solo dalle applicazioni pratiche che si possono prevedere a breve termine: questo sarebbe anche un atteggiamento completamente miope: in fondo chi avrebbe potuto prevedere che gli studi, fatti negli anni ‘40 per spiegare come la corrente passa nei materiali semiconduttori (materiali che non sono isolanti, ma che conducono male la corrente), avrebbero portato, tramite l’invenzione del transistor, alla rivoluzione informatica dei nostri giorni: computer, cellulari, robot industriali?

Sfortunatamente la politica italiana spesso non ha recepito quest’obbligo della Repubblica di promuovere la ricerca. Per esempio poco dopo la stesura della Costituzione Alcide De Gasperi venne invitato a partecipare ad una riunione della Società Italiana per il progresso delle Scienze. Ai convenuti, preoccupati delle sorti della ricerca scientifica nel nostro Paese, De Gasperi faceva notare che le spese per i laboratori e le biblioteche erano un lusso che un Paese segnato dalla guerra appena finita non poteva permettersi. Anche ai nostri giorni la ricerca è frequentemente valutata più in base alle ricadute più o meno immediate che al suo significato culturale: spesso, quando viene presentata alla stampa una nuova ricerca, la prima domanda dei giornalisti è “ma quali saranno le applicazioni pratiche?”.

Il tema della ricerca è ripreso nell’articolo 33, che nella sezione dei rapporti etico-sociali afferma: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. (…) Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Qui la scienza è accostata all’arte e ne viene proclamata la libertà e autonomia, sempre nei limiti stabiliti.

Ma l’arte, e in particolare la scienza, sono costose; le ricerche richiedono investimenti massicci, gli accordi di Lisbona prevedono per l’Europa una spesa di un tre per cento del PIL (l’Italia è praticamente stazionaria intorno all’un per cento). Rimane poi il problema di come conciliare l’intervento statale con la libertà della scienza. Non ci sono mai le risorse per finanziare tutte le ricerche possibili, e bisogna che lo Stato faccia delle scelte, non solo fra macro aree, ma anche fra progetti nello stesso campo. Le assegnazioni dei finanziamenti alle varie ricerche non devono essere arbitrarie, o come spesso capita, determinate da criteri clientelari.

Il metodo che si usa nei paesi civili è quello della “peer review”, ovvero una valutazione scientifica fatta in maniera anonima da altri scienziati competenti, che non abbiano interessi diretti nella ricerca e che non siano “amici” dei proponenti. Questa metodologia è l’unica compatibile con la nostra Costituzione; inoltre permette di evitare che la ricerca sia dominata da gruppi di potere autoreferenziali e che il denaro pubblico sia sprecato in studi di scarso interesse. In Italia in alcuni casi sono utilizzate le procedure di “peer review”, ma sfortunatamente molto spesso i fondi sono assegnati con procedure non trasparenti. Per rispettare il dettato costituzionale è assolutamente necessario che tutti i fondi assegnati dallo Stato, Regioni, Province, Comuni, Enti di Ricerca, adottino procedure basate sul sistema della “peer review”. Questa soluzione avrebbe anche il vantaggio di sottrarre alla politica decisioni che non le spettano e di ridurne l’invadenza.

Uno di questi necessari passi indietro della politica è stato fatto recentemente dal Ministro Mussi, che ha deciso di non designare direttamente i presidenti degli enti pubblici dipendenti dal Ministero della Ricerca, ma affidare ad un comitato di selezione pubblico (composto da esperti altamente qualificati) la scelta di una rosa di tre nomi tra i quali il Ministro sceglie. Si tratta di una procedura trasparente che tiene ben distinta la parte di valutazione scientifica da quella di indirizzo che spetta al Governo. Sfortunatamente i presidenti degli altri enti pubblici di ricerca, per esempio quelli dipendenti dal Ministero della Sanità, sono ancora designati direttamente dal Ministro, in maniera spesso del tutto arbitraria. Il metodo dei comitati di selezione dovrebbe essere esteso per legge non solo a tutto il mondo della ricerca, ma anche a tutte le nomine fatte dai poteri pubblici, per esempio quelle dei presidenti delle ASL: in questo modo si garantirebbe la professionalità di molte figure che contano molto per la nostra vita quotidiana e si diminuirebbe l’attuale occupazione partitica dello Stato e di tutte le sue istituzioni, occupazione che era stata tanto criticata da Berlinguer.

Per finire vorrei ricordare l’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”. Lo Stato ha quindi il dovere di permettere ai cittadini dotati di talento per la ricerca di svolgere quest'attività in base alle loro capacità. Invece le assunzioni nelle università e negli enti pubblici sono state fatte troppo spesso in base a scelte clientelari o nepotistiche; a volte sono state anche decretate immissioni “ope legis” senza concorso, che hanno provocato inserimenti massicci nel mondo universitario di persone non sufficientemente qualificate, saturando i posti per decenni e impedendo di fatto anche ai più dotati giovani delle leve successive di svolgere quel lavoro di ricerca a cui erano portati e a cui avevano diritto.

Io sono fermamente convinto che la reale democrazia di un sistema politico si misura in base alle opportunità che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini, e alla possibilità che a ciascuno sia consentito di confrontarsi con tali opportunità. Nelle carriere accademiche e di ricerca invece ci sono state generazioni fortemente svantaggiate a causa di assunzioni indiscriminate di generazioni privilegiate. Giovani talenti nati in certi anni si sono allora vista sbarrata la possibilità d’accesso alla ricerca e alla carriera universitaria, benché fossero capacissimi di dare importanti contributi innovativi. Questo modo di agire lede in modo insanabile il principio di eguaglianza e il diritto che tutti i giovani devono avere, a prescindere dalla loro fortuita data di nascita, di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità. Quindi assumere i nuovi ricercatori in base al merito, mediante giusti concorsi, utilizzando con la massima urgenza le risorse a disposizione e trovandone di nuove, è certamente una necessità vitale per garantire il futuro del nostro paese in un mondo che deve affrontare gravi emergenze planetarie, ma è anche un obbligo costituzionale, se vogliamo che la nostra Legge fondamentale non rimanga lettera morta.

di Giorgio Parisi

martedì 18 dicembre 2007

Ferrero:: la mia radicalità? Seguo il vangelo di San Matteo

ROMA — Essere radicali? Un insegnamento evangelico, prima ancora che politico: avere «fame e sete » di giustizia, sostenere i perseguitati, seguire il Vangelo di Matteo quando raccomanda «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno». Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, valdese e esponente di Rifondazione, esordisce con un libro dedicato all'immigrazione (Fa più rumore l'albero che cade che la foresta che cresce, per Claudiana, con una prefazione di don Luigi Ciotti). E lo dedica alla nonna paterna, Elena Margherita Ferrero, «ragazza madre emigrata negli Usa».

Ministro, nelle sue posizioni su immigrati, welfare, sicurezza, spesso più radicali di quelle «ufficiali » del governo Prodi, conta di più la sua identità di evangelico o quella di partito?
«Essere stato alla guida dei giovani evangelici (la Federazione giovanile evangelica italiana; ndr) è stata l'esperienza più importante per la mia formazione, insieme al lavoro in fabbrica. Diciamo che la matrice evangelica sta prima e quella politica viene dopo... Non ho paura della parola "radicale", ma sinceramente credo che il quadro politico italiano sia talmente moderato che spesso anche idee di semplice buonsenso appaiono estremiste. Mi definirei un comunista riformato, non stalinista...».

La prima parte del suo libro è dedicata alla storia di famiglia e a quella delle migliaia di valdesi che dalle montagne del Piemonte partirono per cercare fortuna in America. Perché è così importante per lei?
«Perché è la mia storia, ma anche la storia di questo Paese. Oggi, la metà degli immigrati in Italia è fatta di donne, le nostre "badanti". Quando le vedo, non posso fare a meno di pensare alla loro infelicità per i figli lasciati a casa, a migliaia di chilometri. È la stessa di mia nonna: quando tornò a casa, mio padre non la riconosceva e voleva restare con la zia».

Come è accaduto che l'Italia, Paese di emigranti per eccellenza, abbia dimenticato in così poco tempo le sue valigie di cartone?
«Negli anni Settanta c'era poco razzismo, dopo è tornato, perché operai e sindacati sono stati sconfitti. È una guerra tra poveri, una terribile rimozione collettiva... Sono stato a Lampedusa, ho visto quel luogo di disperazione, dove ormai approdano quasi solo donne e bambini in fuga dalle guerre. E dico che Ellis Island, che i miei nonni chiamavano in patois la goulo daa loup, cioè "le fauci del lupo" era più civile, così come la Germania degli anni Cinquanta, dove un italiano poteva arrivare col visto turistico, farsi assumere in fabbrica e diventare residente».

Lei propone più diritti per gli immigrati, in particolare per i bambini che nascono in Italia. Pensa che l'Italia abbia un debito verso queste persone?
«Certo. Producono il 5% del nostro Pil, circa 75 miliardi di euro, e noi investiamo 50, 100 milioni all'anno per loro... Eppure cento immigrati delinquenti si vedono di più di tre milioni di persone che lavorano. Mia nonna è tornata a casa con qualche baule di regali, un po' di soldi e una macchina Singer che mia madre ha usato per cucire fino a poco tempo fa. Vorrei che a loro andasse un po' meglio».

di Vera Schiavazzi da Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2007

lunedì 17 dicembre 2007

Se la carità sostituisce lo Stato

Il grande obolo di Stato alla chiesa cattolica, che ogni anno costa circa cinque miliardi di euro ai contribuenti, ha anche un volto e uno scopo nobili: la carità. Le fonti della Chiesa parlano di mezzo miliardo di euro speso dal Vaticano e dalle conferenze episcopali per opere di assistenza in tutto il mondo. La quota più consistente arriva dalla Cei, la conferenza episcopale italiana, che destina il 20 per cento del miliardo ricevuto con l´ «otto per mille», oltre 200 milioni di euro, in assistenza e carità: 115 milioni in Italia e 85 milioni nelle missioni all´estero. Ma il flusso di carità della Chiesa avviene anche attraverso altri canali, come la Caritas internazionale, il fondo papale della Cor Unum, le associazioni di volontariato e perfino la banca vaticana, lo Ior, e la prelatura dell´Opus Dei, più note per attività meno benigne.
Si può discutere se si tratti di tanto o poco rispetto al costo complessivo della chiesa cattolica per gli italiani. Si potrebbe forse fare di più, come sostengono molte voci cattoliche. Ma nei fatti in alcune realtà parrocchie e missioni cattoliche sono rimaste sole a presidiare i confini più disperati della società, quegli stessi dai quali lo stato sociale si ritira ogni giorno.
All´origine dei molti regali e favori fiscali concessi alla Chiesa, soprattutto negli ultimi vent´anni, dopo la revisione del Concordato, non ci sono soltanto il frenetico lobbyismo dei vescovi e la rincorsa di tutti i partiti al pacchetto di voti cattolici, ormai esiguo in termini assoluti (le ricerche citano un 6-8 per cento) ma sempre decisivo. Esiste un tacito patto per cui, mentre lo stato smantella pezzo per pezzo il welfare, la chiesa s´incarica del «lavoro sporco», di tappare le falle più evidenti e arginare la massa crescente di esclusi senza più diritti, garanzie, protezione.
Basta girare le città italiane per vedere quanto sia estesa la rete di supplenza. Le parrocchie sono diventate in molti casi i principali centri di accoglienza per gli immigrati, gli uffici di collocamento per stranieri ed ex carcerati, i consultori per le famiglie che hanno in casa un nonno con l´Alzheimer, un figlio tossico, un parente con problemi di salute mentale. I centri Caritas della capitale sono gli unici punti di riferimento e di ricovero del «popolo della strada», senza tetto, mendicanti, alcolisti abbandonati dallo stato e dalle famiglie. Svolgono un ruolo prezioso di raccolta dati per segnalare le nuove emergenze, come la povertà giovanile italiana, la più alta d´Europa.
L´incapacità dei governi di elaborare una seria politica dell´immigrazione, oltre le sparate populiste, ha delegato nella pratica ai preti la questione sociale più importante degli ultimi vent´anni. A Milano, personaggi come don Colmegna svolgono di fatto il ruolo di «sindaci ombra» nelle periferie ormai popolate in larga maggioranza da immigrati. E non sono soltanto le politiche sociali a mancare. La comunità di Sant´Egidio a Roma è diventata un punto di riferimento internazionale per le politiche nei confronti dell´Africa e del Sud America, certo più consultata in materia della Farnesina. La stessa iniziativa della moratoria contro la pena di morte, l´unico momento in cui la politica estera italiana abbia ricevuto attenzione oltre i confini, è partita dalla comunità con sede in Trastevere. Il Patriarcato di Venezia, in particolare con l´arrivo del cardinale Scola, ha intrecciato una fitta rete di scambi culturali con l´Islam. Franato con i muri il terzomondismo della sinistra, avvelenati i pozzi della solidarietà laica nello «scontro di civiltà», ormai è l´organizzazione cattolica a detenere quasi l´esclusiva dei problemi del terzo mondo, anche quello di casa nostra.
La formula è «soldi in cambio di servizi». Privilegi fiscali, esenzioni, pioggia di finanziamenti a vario titolo ma per delegare al mondo cattolico un lavoro sporco che lo stato non vuole e non sa fare. Alla fine è sempre questa la giustificazione all´anomalo rapporto economico fra stato e chiesa, al di là delle improbabili contestazioni delle cifre (che sono quelle). Il discorso è logico ma lo scambio è diseguale. Lo stato non ha nulla da guadagnare nell´ammettere la propria inettitudine. Come spesso accade, sono proprio alcuni intellettuali cattolici a rilevarlo.
Nella società spappolata dagli egoismi, come appare nell´ultima rapporto del Censis, secondo Giuseppe De Rita il ruolo di supplenza della chiesa cattolica si è evoluto fino a conquistare il cuore dei rapporti sociali: il campo dell´appartenza. «La chiesa è l´unica ormai a capire che si fa sociale con l´appartenenza. Non si tratta soltanto di fornire servizi ma anche accoglienza, valori di riferimento, identità. Un tempo in Italia erano molte le classi di appartenenza. Se penso al Pci nelle regioni rosse o ai grandi sindacati, alla rete delle case del popolo, alle cooperative, questo mondo è scomparso in gran parte, la mediatizzazione della politica ha cambiato i termini della questione. Oggi se Veltroni vuol lanciare il Partito Democratico pensa a un evento, ai gadget, alla comunicazione, ma non è la stessa cosa. Lo stato italiano, a differenza di altri, non ha mai saputo creare appartenenza e per questo non è in grado di fare politiche sociali efficaci, per quanto costose. I comuni sono l´unica appartenenza politica degli italiani». Non è un caso che siano proprio i comuni, i sindaci, a entrare più spesso in conflitto con la supplenza del clero, per esempio nella vicenda dell´Ici. Ma non è paradossale che una società sempre più laicizzata affidi compiti così importanti al clero? La risposta di De Rita è netta. «E´ vero che la religione cattolica in quanto tale è in crisi. Le scelte individuali ormai prevaricano le indicazioni dei vescovi. La vera forza della chiesa non sta nel suo aspetto pubblico, mediatico, politico, ma nell´essere rimasta l´unica organizzazione con un forte radicamento nei territori e una pratica sociale quotidiana. Una pratica di solidarietà che molti laici non hanno, me compreso. La chiesa di Ruini è un altro discorso».
Ma come la pensa chi al sociale ha dedicato la vita? Don Luigi Ciotti s´incarica di combattere da quarant´anni, attraverso il Gruppo Abele e poi Libera, tutte le guerre che la politica considera perse: contro la povertà, le mafie, le dipendenze, la legge non uguale per tutti, i ghetti carcerari, le periferie insicure, le morti in fabbrica. Con il sostegno della chiesa, ma non sempre. Fu processato in Vaticano quando da presidente della Lila sostenne che l´uso del preservativo per non trasmettere l´Aids era un atto d´amore cristiano. E ancora quando parlò dal palco di Cofferati davanti ai tre milioni del Circo Massimo. La sua è una testimonianza in primissima linea. «In quarant´anni ho imparato che una società felice è quella dove c´è meno solidarietà e più diritti. La bontà da sola non basta, a volte anzi è un alibi per lasciare irrisolti i problemi. Questa bontà ci rende complici di un sistema fondato sull´ingiustizia, che poi delega a un pugno di volontari la cura delle baraccopoli perché non diano troppo fastidio. I volontari del gruppo Abele, di Libera, cattolici o no, non hanno certo rimpianti per la vita che si sono scelti, era tutto quanto volevamo fare. Ma non che potevamo fare. Si ha sempre l´impressione di rincorrere i problemi. La questione è reclamare più giustizia, non offrire come carità ciò che dovrebbe essere un diritto». La chiesa con i suoi interventi pubblici sembra richiamare l´attenzione più sui temi sessuali o sulla famiglia che non sulle questioni sociali, o è un pregiudizio anticlericale? «La Chiesa è fatta da uomini e ospita di tutto, anche mondi assai distanti fra di loro. Ma è vero che l´attenzione dei media e della politica si concentra soltanto su alcuni aspetti, Per esempio, se i vescovi criticano i Dico la polemica dura anni. Se invece Benedetto XVI si scaglia contro il precariato giovanile, la sera stessa la notizia sparisce dai telegiornali. Molti nella chiesa pensano di più agli aspetti spirituali e considerano che la giustizia non sia di questo mondo. Io non l´ho mai vista così. Penso che la strada per il cielo si prepara su questa terra»

di Curzio Maltese da la Repubblica del 17 dicembre 2007

venerdì 14 dicembre 2007

Ehi!

Come siamo frettolosi e snob davanti al primo ten­tativo della galassia delle si­nistre di mettersi assieme. Pare che i più scafati manco siano andati a vedere. Eppure non ci sono alternative, o si lascia la sfera politi­ca a Veltroni, e noi ci contentiamo di essere, se va bene, frammenti interessanti e intelligenze o mozioni, o si ricomincia a parlarsi «per». Per fare assieme qualche cosa che freni la de­riva alla centralizzazione sfrenata del dominio del denaro e delle merci che ci frantumano ciascuno nel sin­golo e nei pochi. Raramente in transi­torie masse.

Si dirà: ma in fondo da questa par­te del mondo ce la caviamo, perlo­più abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare, un po' di compassione per gli esclusi. E vero, mettere un freno al meccanismo mondialmente in atto è impellente dove esso produce subito morte, e non è il nostro caso. Non per l'assolu­ta maggioranza di noi, e delle minoranze miserabiliste chi se ne frega? Così alla cancellazione della Cosa Rossa - espressione cretina - da par­te delle maggiori testate (eccezione Rai1) sì è aggiunta la freddezza no­stra, coperta dai quattro morti della Thyssen, come se un incidente del la­voro di questa natura non fosse un evento messo in conto dal meccani­smo oggi dominante.

Non sono d'accordo. Per quel che so, la riunione di sabato e domenica non ha dato che una risposta, la deci­sione di lavorare assieme, obiettivo minimo non andare dispersi alle prossime elezioni, non molto ma me­glio di niente, obiettivo massimo, ma poco interrogato, diventare un partito. Per dir la verità, oggi è lo stes­so, e lo sarà fin che manca una elaborazione comune sul punto in cui sia­mo e un tentativo comune di inter-pretazione delle diverse soggettività presentì, di quel che ciascuna mette nelle diverse sigle o movimenti, per cui uno o una stanno in questo e non in quello. Ma una cosa è starci come un tassello di un mosaico com­plesso, sulla cui natura e destino si moltiplicano gli interrogativi, un'al­tra è starci in soddisfatta autosufficienza. Se questa sembra finita - an­che per le insigni zuccate prese - un lavoro assieme può cominciare. Anche con le femministe, che vengono da molto lontano e in questo primo incontro hanno contrapposto a un ri­tuale un altro loro rituale, facendosi rispondere da rituali parole, ma che per pesare davvero dovranno dimo­strare come non ci sia cespuglio del paesaggio politico in cui siamo che non sia traversato dal conflitto fra i sessi, anch'esso in via di mutamen­to. Conflitto che - ha ragione Dominijanni - non va ridotto a preferenze sessuali, che appartengono e devo­no restare all'individuale libertà. La­sciamo l'elenco al Vaticano. Fame delle figure o tipologie sociali condu­ce dritti, credenti o non credenti, a qualche Malleus Maleficarum (alias caccia alle streghe).

Per conto mio, la prima urgenza è garantire un'area, un perimetro, una disponibilità dentro alle quali parlar­si, rispondersi, cercar di costruire una piattaforma che conti sulla sce­na delle idee, su quella sociale e su quella istituzionale. Dei limiti di que­st'ultima si può dire molto, ma sen­za di essa conta di meno, così come ridursi a essa significa tagliarsi radici e canali di alimentazione.

Tema prioritario? Secondo me capire come i soggetti singoli e collettivi siano prodotti o intaccati o condizionati, o resi meno liberi, dal meccanismo economico-politico dei po­teri oggi mondialmente dominanti. Meccani­smo articolato, in mutazione, produttore di lacerazioni anche interne, ineludibile. Ma a sua volta condizionato dalle soggettività che innesta o con le quali si scontra.

La vecchia storia, Mane sì Marx no, si misu­ra su questo criterio. Non è riconducibile, co­me si usa, alla «questione del lavoro». Per contro, una soggettività non si misura su un'altra soggettività, ma tutte e due con, per così dire, la pesantezza del mondo.

Non vedo difficoltà per chi sta oggi attor­no a Rc o al Pdci, salvo finirla con la negazio­ne o riaffermazione di un «da dove venia­mo» (che sarebbe l'ora di guardare in faccia invece che celebrare o esecrare). Né vedrei difficoltà negli ecologisti: come O'Connor, ma anche senza di lui, sanno bene quanto delle razzie contro gli equilibri naturali o am­bientali dipenda dal denaro e dalla mercifi­cazione generale.

La battaglia per l'ecosistema non ha avversari diversi da quelle per/contro il lavoro sa­lariato e contro le guerre. Quanto ai movi­menti, la loro filosofia rende più semplice aderire a tutto o a questo o a quello mantenendo un'indipendenza. Lo stesso vale per la causa delle donne, che peraltro non si esauri­rà mai neanche nella più complessa e raffina­ta delle politiche - il femminismo sa bene che non è «una delle» esperienze, è costituiva della specie umana. Credo infine che anche i nostri giornali dovrebbero mettere a dispo­sizione non la loro autonomia ma le loro te­ste.

Dimenticavo la questione del leader. Beh, il leader viene ultimo. E dovrebbe lavorare come lo stato, alla propria estinzione ... è il peggio del famoso partito. Per ora non me ne occuperei.

di Rossana Rossanda da il Manifesto del 12 dicembre 2007

mercoledì 12 dicembre 2007

C'è la sinistra. Il resto verrà

Intanto è partito. Sì, ma avrebbe dovuto mettersi in moto tempo fa, quando tutto già sembrava pronto. E magari i binari erano anche un po' più sgombri. Però, quel treno è partito. Sì, ma ancora non si sa se ce la farà a portare a destinazione tutti i vagoni. Ancora non si sa, se e come i passeggeri troveranno posto a bordo. Però, intanto, è partito. Nel parterre della Fiera di Roma - della nuova Fiera di Roma, a metà strada fra la città e l'aeroporto, anche bella col suo profilo ondulato ma che sembra fatta apposta per ridare attualità alla vecchia definizione di cattedrale nel deserto -, nel parterre della Fiera di Roma, si diceva, dove domenica è nata "la Sinistra l'Arcobaleno", potevi parlare con chiunque e avevi le stesse conclusioni. Base, dirigenti, quadri intermedi, gente senza tessera, semplici curiosi (pochi, scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Nuova Fiera). Ognuno aveva la sua critica da fare. Tutte legittime e - sarebbe sciocco negarlo - tutte abbastanza fondate. Che le assemblee di sabato e domenica sono arrivate tardi, che sono state anche un po' rituali. Meno, comunque, molto meno di quel che si possa pensare. Per capire: non è stato un congresso del Pci degli anni '70. Congressi importanti per la storia di questo paese ma che comunque dovevano finire con una sintesi. Su ogni singolo problema. Con una posizione ufficiale. Qui, bastava girare per i seminari per accorgersi che il metodo era un altro. Si proponevano temi, si apriva una ricerca. In una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di cercare. Ci si parlava, ci si conosceva in una sinistra che da troppo tempo aveva smesso di parlarsi. Si diceva tutto questo nel parterre. E si aggiungevano anche preoccupazioni più contingenti: legate alle diverse valutazioni sull'attualità politica delle quattro forze politiche promotrici. Sulla riforma elettorale, sul giudizio da dare di quest'anno e mezzo di governo Prodi. E chi più ne ha, più ne metta. Ma i discorsi raccolti in quell'enorme sala, finivano tutti allo stesso modo: vabbè, l'importante è comunque aver cominciato. Il resto verrà.
Lo dicevano tutti ma proprio tutti-tutti. Un concetto sussurrato, però, più che dichiarato esplicitamente. Perché se ci si pensa non è uno di quelle affermazioni che possano essere inserite nella categoria del "politicamente corretto". In questo capitolo, la formazione di un nuovo soggetto si fa partendo dai programmi, scegliendo le modalità del far politica, gli obiettivi. Se ci si trova d'accordo, si comincia. Stavolta non è stato così. C'è una base comune, è ovvio. Non dettagliatissima ma neanche banale. Ci sono obiettivi comuni e c'è un impegno a lavorare insieme. C'è molto, ma non tutto. Ma c'è soprattutto la consapevolezza che c'è bisogno di sinistra. Che avrà un futuro solo se si unisce e si ripensa.
E' l'invocazione di Ingrao, insomma. Quella richiesta che nasce dalle cose, dalla tragedia della ThyssenKrupp. Il resto verrà. Ma intanto il treno si è messo in moto.
E allora non resta che raccontare le impressioni di questa partenza. Una, è apparsa evidente a chi aveva voglia di ascoltare i discorsi dal palco, domenica mattina. Meno scontati di quello che hanno poi raccontato i giornali. Accorgendosi così che ci sono due velocità. Metafora che si adatta malissimo a quella del treno, ma tant'è. Due velocità. Una è quella imposta da chi è venuto qui a raccontare le proprie esperienze. A raccontare le proprie storie. Non solo di vertenze, non solo di "lotte". Ma anche racconti di un modo diverso di governare, di amministrare. Addirittura, nelle parole dell'amministratore provinciale di Napoli, il racconto di come la sinistra possa inventarsi un proprio progetto per far quadrare i conti pubblici. Tutte insieme queste storie, "narrano" - per usare le parole di Nichi Vendola - di una "cosa" che c'è già. Già esiste. Che addirittura sembra molto solida. Fatta dallo stesso modo di sentire, fatta dalla stessa passione, dallo stesso altruismo. Fatta dalle stesse denunce, dalle stesse analisi.
C'è poi l'altra velocità. Quella assai più lenta che segna il rapporto fra i quattro partiti. Anche questa velocità era "visibile" ascoltando i discorsi dei leader. Non c'era la stessa fretta, non c'era la stessa urgenza nelle parole dei segretari. C'è chi si è impegnato, ha chiesto agli altri analoghi impegni. Ma c'è stato anche chi ha preferito utilizzare questa tribuna per riaffermare le ragioni della propria identità. O microidentità. Chi ha preferito la citazione alla firma di un patto. Fosse anche simbolico. E c'è chi si è messo a metà fra queste due posizioni.
Diverse velocità, allora. Che hanno fatto dire a qualcuno che forse, alla fine del percorso, non ci saranno tutte e quattro le forze politiche che hanno organizzato gli Stati generali. Qualcuna avrà la tentazione di tirarsi da parte. Di inchiodarsi ai suoi simboli o magari di appellarsi ad esigenze di visibilità. Il rischio c'è. Ma non è detto che vada così. Il problema, delle prossime settimane non dei prossimi mesi, forse è tutto qui. Come "rompere gli argini", cosa inventarsi perché la prima velocità irrompa nella seconda. La trascini, le imponga un altro ritmo.
E a Rifondazione - anche di questo nel parterre erano convinti tutti, militanti o semplici "alleati" - spetta un compito ancora più difficile che agli altri. Anche qui una sensazione, una semplice sensazione. Che svela però molto di cosa sia davvero questo partito. Di come sia percepito, di come sia riuscito a trasformarsi durante questi anni. La sensazione nasce dall'ingresso rumoroso dei "no Dal Molin" durante l'assemblea. Chi ha assistito alla scena dal pubblico, ha potuto vedere in sala le reazioni più diverse. Interesse, tanto, ma anche ostilità. Addirittura in qualcuno ostilità preconcetta. Comunque scarsa dimestichezza col problema. Ma in ogni caso, gli Stati Generali non hanno vissuto alcuna tensione. Sono proseguiti aprendosi al confronto con quel movimento, con quelle istanze radicali che sosteneva. E questo, lo si è dovuto solo ai dirigenti, ai militanti di Rifondazione. A chi da anni ha scelto non solo di confrontarsi ma di essere "dentro" i movimenti. Questo lo si è dovuto a chi da anni ha dimestichezza con la spontaneità delle mille associazioni che difendono il territorio, che si oppongono alla guerra, che provano a imporre nuovi diritti. Questo è stato possibile con un partito, con un gruppo dirigente e di militanti, che parlava con persone, con uomini, donne, ragazzi, con cui poi si fanno cortei, occupazioni. Presidi. I "No Dal Molin" sono così riusciti a parlare all'assemblea, hanno chiesto più sinistra, hanno chiesto impegni. Qualcuno è stato sottoscritto, per altri si è rimasti nel vago. Resta il dato che anche chi non è completamente d'accordo, sceglie innanzitutto di interloquire con questa "cosa" nata domenica. E forse anche così può arrivare la spinta a superare le due velocità. E da quel che si è visto alla Fiera di Roma è un lavoro che graverà quasi solo sulle spalle di Rifondazione. Buon lavoro.

di Stefano Bocconetti da Liberazione del 11 dicembre 2007

lunedì 10 dicembre 2007

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

« Gli uomini nascono e muoiono uguali nei diritti »Il testo completo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

domenica 9 dicembre 2007

Ingrao: sinistra, basta divisioni

Ingrao, dicono che tu sia contrario agli Stati Generali della sinistra, cioè alla costruzione di quella che i giornali chiamano "Cosa Rossa", la nuova sinistra arcobaleno. E' vero?
Smentisco queste profezie di sventura e mi auguro che l'assemblea che si tiene alla Fiera di Roma vada nel modo migliore possibile. Naturalmente poi io ho le mie convinzioni sul cammino da compiere

Quali sono le tue convinzioni?
Innanzitutto io credo che lì siano presenti forze che sono essenziali per questo cammino. Però penso che sia necessario dare vita ad una forza compatta che scavalchi le divisioni e la frantumazione dei soggetti. Serve qualcosa che unifichi. E' essenziale superare i processi di frantumazione che non hanno aiutato le lotte della sinistra. E subito dopo questa osservazione ne faccio un'altra: se questo nuovo soggetto vuole nascere bene, prima di ogni altra cosa deve affrontare i mali grandi e crudeli che feriscono il mondo del lavoro. Io dico che la tragedia di Torino parla più di tante analisi e commenti...

Domani a Torino ci sarà lo sciopero generale. Otto ore i metalmeccanici e due ore le altre categorie. E ci sarà un corteo, credo che sarà un corteo molto grande...
Spero ardentemente che sia il punto di partenza di una nuova fase di lotte e di tutela del mondo del lavoro: di morti e di bare ne abbiamo visti troppi in Italia.

Il ministro del lavoro ha detto che bisogna cambiare la cultura del lavoro. A me sembra che sarebbe piuttosto necessario cambiare la cultura dell'impresa, non credi?
Io, nella mia modestia e ostinazione, penso che bisogna far ripartire le lotte di massa. E mettere al centro di queste lotte l'antico e cruciale tema su cui è cresciuto in questo paese un secolo di lotte. Quale tema? Quello del quale parlava una vecchia canzone che ancora ho nell'orecchio: «il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà...». Vorrei sottolineare la parola figli . Io, da vecchietto, ho sempre in mente quella canzone. E mi brucia che la redenzione invocata in quei versi tardi ancora così tanto a venire...

Delle dichiarazioni di Bertinotti che hanno provocato tante polemiche, cosa pensi?
Quando era presidente della Camera io ero più timido. Sono passati tanti anni. Non mi pare poi che Fausto sia quel terribile sovversivo che hanno raccontato i giornali borghesi...

martedì 4 dicembre 2007

Stati Generali. un nuovo inizio? Dipende

Non so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza

N on so quando, e a che proposito, sia venuta in uso la dizione di Stati Generali ad indicare eventi politici, sociali o culturali di una certa solenne importanza. Eventi, cioè, caratterizzati dalla volontà di rappresentare un "mondo" nel suo insieme e nelle sue singole parti, nella sua generalità, appunto, e nelle sue articolazioni, nella sua complessità come nella sua interezza - perfino completezza. Sta di fatto che, da un certo punto in poi, fino ai nostri giorni, gli Stati Generali hanno cominciato a dilagare: solo in questo autunno, anzi in questo mese di novembre, se ne sono tenuti almeno una dozzina, come, tra gli altri, per citare i più politicamente significativi, quelli della cooperazione e solidarietà internazionale, quelli della sostenibilità, promosso dalla regione Toscana, quelli del Terzo Settore - ma anche, per dire, quelli delle donne Udc, quelli delle piccole e medie imprese, quelli del vino, quelli del rock piemontese. E altrettanti ne sono annunciati a venire - a Torino il sindaco Chiamparino ha annunciato i prossimi stati generali della città, per costruire un progetto adeguato di futuro per la ex-capitale dell'automobile. Una tale inflazione di Stati Generali, certo, rischia di depotenziarne il senso e di ridurne via via la portata, quella natura speciale che li distingue dai convegni, dai meeting e dalle assemblee. Tuttavia, il fascino - il valore - di questa dizione non è ancora del tutto andato perduto. Ogni volta che si convocano Stati Generali - anche i più piccoli - si comunicano, quantomeno, un'intenzione, un messaggio, una volontà non ordinarie. Si sottintende il bisogno di unire quel che c'è, tutto quel c'è di reale e di vitale, in un certo settore, campo di attività, giardino di idee. E di andare possibilmente oltre. E di iniziare una fase nuova. Naturalmente, la verifica della bontà dell'intento non potrà che essere ex-post, come si usa dire. Ci sono, anche nelle cronache recenti, Stati Generali che non sono stati nient'affatto generali - come per esempio quelli della scuola, ai tempi del governo Berlusconi, voluti con inusitata pomposità dalla ministra Moratti e rivelatisi un flop. O, al contrario, Stati Generali che hanno segnato una tappa significativa nella vita e nella cultura dei movimenti - come quelli dell'antimafia, tenutisi a Roma un anno fa. Insomma, dipende. Dipende non solo dall'impegno (in forze, energie, persuasione, intelligenza) che viene effettivamente profuso nella costruzione dell'evento, ma anche, se non soprattutto, dalla sua capacità di incontrare davvero il tempo giusto, e di diventare credibile, produttivo, ricco.
Vale, questa specie di legge, anche per gli ormai imminenti Stati Generali della sinistra. Potrebbero essere, sì, un "nuovo inizio", l'avvio di un'altra storia. Potrebbero perfino, essere un (piccolo) fatto rivoluzionario. Dipende. Dipende, anche, se non soprattutto, da quanto essi - gli Stati Generali della sinistra - riusciranno a sfuggire al controllo e a vivere di vita propria. A smentire le scontatezze, le ritualità, i riti dell'anti-ritualità, le facili previsioni, insomma le logiche tradizionali della politica e dell'antipolitica. Ad accendere, alla fin fine, una scintilla - piccola, forse, ma una scintilla vera, una luce che, prima, non si vedeva o non riusciva a prendere chiarezza. E' mai successo davvero, nella nostra storia? Ma sì, quel 5 maggio del 1789 accadde proprio questo.
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Nulla autorizzava a pensare che quel ritorno degli Stati Generali - che non erano più stati convocati dal 1614 - avrebbe così radicalmente cambiato la faccia della Francia, dell'Europa e della modernità. E' pur vero che, concretamente, la rivoluzione di Francia era cominciata, da un pezzo, e da un pezzo era drammaticamente acuita da una crisi sociale senza precedenti, nonché da una catastrofica crisi finanziaria. E' vero che l' ancièn règime era ormai arrivato alle soglie dell'implosione: che era cioè un'architettura abbondantemente marcescente, con un monarca assoluto, una classe di parassiti (i nobili e l'alto clero) che viveva, poche migliaia di privilegiati, sulle spalle e il lavoro di milioni e milioni di persone, un diritto fermo ai secoli del feudalesimo, e non poteva più reggere nel Paese che aveva nel frattempo prodotto l' Encyclopedie , riscoperto il diario dell'abate Meslier, messo in scena le commedie di Beumarchais, lanciato il grido di Emmanuel Syeyès («Che cos'è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa ha rappresentato fino ad oggi nell'ordine politico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualche cosa»). Eppure.
Vedete come la "astuzia della ragione storica" si incarica di operare, anche di nascosto, anche quando le condizioni concrete sembrano tutte congiurare per svilire un evento, o ridurlo ai minimi termini? Il re di Francia, per quanto irresoluto, conservatore, pauroso, aveva bisogno come il pane che il popolo - il popolo borghese, quello che aveva o ricchezza o cultura - si mobilitasse per salvare il suo regno dalla bancarotta: perciò, per convocare gli Stati Generali, scrisse una "lettera preliminare", colma di affetto per i suoi «fedeli sudditi», e densa di promesse «di felicità e prosperità», che nel febbraio dell'89 fu letta in tutte le parrocchie di Francia, «come un'omelia», racconta lo storico Winock. Milioni di francesi furono spinti all'entusiasmo e alla partecipazione: sembrava finalmente venuto il momento in cui i problemi - gravi e gravissimi - che affliggevano il Paese potevano essere affrontati, discussi, risolti. Milioni di persone, diversissime l'una dall'altra per condizione sociale e culturale, ma accomunate dal fatto di aver compiuto venticinque anni, di essere di sesso maschile, e di «essere compresi nei ruoli d'imposta», si gettarono a capofitto nell'impresa: parrocchie, borghi, comuni, città, baliaggi primari e baliaggi secondari, siniscalchie, corporazioni erano i luoghi dove riunirsi, per redigere i propri cahier de doléances ed eleggere i propri deputati agli Stati Generali. Con quali regole? Non c'erano, od erano pochissimo chiare - così come non era chiara la geografia della Francia dell' ancièn régime che confondeva spesso i confini delle province e l'appartenenza delle parrocchie. Quanti dovevano essere i rappresentanti da eleggere? Con quanti e quali gradi? Con norme univoche, che valevano per tutti e dovunque, oppure con una differenziazione che rispettava le specificità locali, tra comunità d'election e pays d'Etat ? Con quale sistema si doveva procedere al voto, segreto o palese? Interrogativi che furono alla fine risolti sulla base del regolamento regio, e della sua creativa interpretazione - era la scoperta di una cosa nuova, la democrazia, ed era la ricerca del suo corollario principale, la costruzione di forme e di regole. Ma, soprattutto, era il Re in persona a sollecitare tutto questo: «Sua Maestà desidera che, fin dalle terre estreme del suo Reame e dalle più umili abitazioni, a ciascuno sia consentito di poter far giungere fino a Lei i suoi voti e i suoi reclami». Parole di fuoco, pur redatte e diffuse da un uomo dedito più che ad ogni altra cosa al piacere della caccia, che però si imprimono nella testa di tutti, anche dei più diseredati, e li spingono alla lotta. «Stroncando l'ingiustizia, essi realizzano la parola del re, o così credono», scrive Albert Mathiez. «La politica, come dice Madame de Stael, è un campo nuovo per l'immaginazione dei francesi: ciascuno si lusinga di recitarvi una parte, ciascuno vede uno scopo per sé, nelle possibilità moltiplicate che si annunciano dappertutto».
E' in questo clima di straordinario fervore che si svolge la campagna elettorale, nei primi mesi dell'anno, ci si scontra sulle prerogative dei tre ordini, si eleggono i deputati, matura la coscienza del Terzo Stato di essere lui - loro, i borghesi - il vero autentico rappresentante della Nazione. Quelle che si svolgono, a pensarci un paio di secoli abbondanti dopo, sono primarie diffuse, capillari, inconsapevoli, che coinvolgono quasi ogni più piccolo angolo della Francia, scoprono i propri leader locali nelle schiere di giuristi e avvocati che affollano il "partito patriottico" (tra di essi, nell'Artois, un piccolo avvocato che difendeva i poveri e si distingueva per gli attacchi ai nobili, che si chiamava Massimiliano Robespeierre) , dividono i curati di campagna dai vescovi e una pattuglia di aristocratici liberal dai nobili conservatori, accumulano una impressionante marea di analisi e proposte concrete - come di speranze. Alla fine, dai diversi "grandi elettori" dei baliaggi, esce una nuova, gigantesca assemblea: millecentocinquaquattro deputati, 291 del clero, 285 della nobiltà, 578 del Terzo Stato. Quelli che andranno a Versailles, per gli Stati Generali.
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Ma seguiamo ancora l'astuzia della ragione storica. Quel 5 maggio cominciò malissimo, con una cerimonia d'apertura che apparve una pietra tombale su tutte le attese, le ansie, gli entusiasmi. Tutto il cerimoniale era studiato per mantenere, fin nelle minuzie fisiche, la separazione tra i tre ordini: nobili e clero vennero ricevuti in pompa magna dal re, nel suo gabinetto, quelli del Terzo Stato, costretti ad una lunghissima attesa e ad una coda interminabile, vennero fatti passare da una porticina secondaria, e si limitarono a sfilare di corsa per la camera da letto del monarca. Tutti costretti a vestirsi di nero - una specie di costume ufficiale, che doveva sancire la visibile "minorità" dei borghesi rispetto agli sfavillanti costumi degli ordini privilegiati. Poi, di fronte a loro, dopo essersi fatto attendere per ore, Luigi XVI pronunciò un breve discorso che diffidava i deputati da ogni pretesa di innovazione e li invitava, al tempo stesso, ad aprire i cordoni della borsa. A seguire, fu Necker (il Padoa Schioppa dell'epoca) a parlare: tre ore di cifre, numeri, di deficit, di tagli alla spesa pubblica. Ma forse fu proprio questa cattiva accoglienza a far scattare la molla decisiva. Se il re e i suoi ministri non parlavano di politica, sarebbero stati loro - i Comuni, questa era il nuovo nome che il Terzo Stato si dette - a impadronirsene, della politica. La sera stessa del 6 maggio i deputati del Terzo Stato si riunirono, provincia per provincia: i bretoni con Chapellier e Lanjunais, quelli dell'Artois con Robespierre, quelli del Delfinato attorno a Mounier e Barnave - e via via, scoprendo che il primo obiettivo erano le procedure, la "verifica dei poteri", cioè della validità delle elezioni, da realizzarsi in un'unica assemblea, insomma l'abbattimento di quella barriera "innaturale" che separava i deputati delle caste alte da quelli delle nuove classi borghesi e popolari. Chi ha detto che le regole non sono nulla e che la sostanza è tutto? Nello spazio di pochissime settimane, dopo estenuanti e vane trattative, il Terzo Stato maturò, proprio su regole e procedure, una nuovissima consapevolezza di se stesso e del suo ruolo storico: il 12 giugno i deputati "comuni" iniziarono da soli la verifica dei poteri e procedettero all'appello di tutti i componenti l'assemblea degli Stati Generali. Il giorno dopo, tre curati del Poitou (Lecesve, Ballare e Jallet) abbandonarono l'assemblea dell'ordine clericale e fecero il loro ingresso, tra gli applausi, nel grande salone dove era riunito il Terzo Stato - furono seguiti, pochi giorni dopo, da altri sedici parroci. La resistenza dei nobili, che pretendevano fino all'ultimo di far valere il voto per ordine invece che per testa, durò ancora qualche giorno. Ma, pensate, che cosa escogitò il piccolo Luigi XVI per annullare e bloccare il movimento: la sera del 19 giugno, dopo aver decretato l'annullamento di tutte le delibere del Terzo Stato, ordinò la chiusura della sala in cui esso s'incontrava, a causa di improvvisi e ineludibili lavori di ristrutturazione. Un mezzuccio meschino? Sì, certo. Ma da quel mezzuccio, la mattina successiva, consegue nientemeno che il giuramento della Pallacorda: nasce l'Assemblea Nazionale, nasce la Francia della libertè, egalitè, fraternitè. Tutto era già cominciato, tutto era destinato a svolgersi con velocità febbrile, bruciando mediazioni, resistenze, forze preponderanti, sconfitte tattiche. E scoprendo, quasi subito, il Quarto Stato, o incomodo, il popolo di Parigi insorta. La sera del 14 luglio 1789, la lunga gloriosa e violenta giornata della presa della Bastiglia, Luigi XVI scrisse sul suo diario: Rien . Niente.
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No, non credo che gli Stati Generali dell'8 e del 9 dicembre 2007 possano produrre un fuoco paragonabile a quello che si accese quel 5 maggio del 1789. Eppure, non sarebbe male tenere quell'evento nella mente e nella memoria, non per nostalgie o goffi esercizi mimetici, non per riscoprire chissà quali irripetibili modelli, ma per sapere, molto più semplicemente, che ci sono processi reali che hanno ragione di mille miserie, e di mille apparenti "impossibilità". Che c'è sempre una possibilità di andare davvero oltre, quando si convocano gli Stati Generali. Dipende…

di Rina Gagliardi da Liberazione del 2 dicembre 2007

martedì 20 novembre 2007

Una Carta dei diritti per l'universo di Internet

Quasi nelle stesse ore in cui a New York una commissione dell´Onu approvava con uno storico voto la proposta di moratoria della pena di morte, a Rio de Janeiro il rappresentante delle stesse Nazioni Unite chiudeva il grande Internet Governance Forum affermando che i molti problemi che si pongono in rete richiedono un Internet Bill of Rights. Accosto questi avvenimenti, che possono apparire lontani e qualitativamente assai diversi, per tre ragioni. In entrambi i casi è balzata in primo piano l´importanza di una politica globale dei diritti. In entrambi i casi non siamo di fronte ad un definitivo punto d´arrivo, ma ad un processo che richiede intelligenza e determinazione politica. In entrambi i casi il risultato è stato reso possibile da una lungimirante iniziativa italiana.
Per la pena di morte si trattava di onorare una primogenitura culturale, quasi un dovere verso una storia che porta il nome di Cesare Beccaria e della Toscana, primo Stato al mondo ad abolire nel 1786 quella pena, "conveniente solo ai popoli barbari", come si espresse il Granduca Pietro Leopoldo. Tutta diversa la situazione riguardante Internet, visto che l´Italia non può certo essere considerata un paese di punta nel mondo dell´innovazione scientifica e tecnologica. E tuttavia proprio da qui è partito, negli ultimi due anni, un movimento che ha progressivamente coinvolto ovunque settori sempre più larghi, dimostrando così che la buona cultura è indispensabile per una buona politica. Quale politica, allora? Il risultato finale di Rio è stato possibile grazie anche al fatto che, un giorno prima, era venuta una dichiarazione congiunta dei governi brasiliano e italiano che indicava proprio nell´Internet Bill of Rights lo strumento per garantire libertà e diritti nel più grande spazio pubblico che l´umanità abbia mai conosciuto.
Ma questa svolta, assai significativa, esige ora una adeguata capacità di azione.Nelle discussioni che hanno preceduto la dichiarazione, il ministro brasiliano della cultura, Gilberto Gil, aveva esplicitamente evocato la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Siamo di fronte ad una situazione che sta diventando paradossale. Ancora sottovalutata e osteggiata da più d´uno in Europa, la Carta sta diventando un punto di riferimento costante per tutti quelli che, in giro per il mondo, sono impegnati nella costruzione di un nuovo sistema di garanzia dei diritti, tanto che studiosi statunitensi hanno parlato di un "sogno europeo" che prende il posto del loro "sogno americano". E´ tempo, dunque, che l´Unione europea abbia piena consapevolezza di questa sua forza e responsabilità verso l´intera "comunità umana", com´è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta dei diritti. Proprio perché conosciamo bene i limiti dell´influenza dell´Europa, il suo futuro politico si lega sempre più nettamente alla capacità d´essere protagonista di questa planetaria "lotta per i diritti"
In questa prospettiva, l´Internet Bill of Rights fornisce una occasione preziosa. Proprio perché dall´Onu è venuta una insperata apertura, è indispensabile rafforzare e rendere concreto il processo così avviato. Indico le prime tappe di questo cammino. La dichiarazione italo-brasiliana è aperta all´adesione di altri Paesi. Non è una operazione facile. Ma il ministro degli Esteri ha dato prova di grande intelligenza politica nel guidare il processo verso il voto sulla moratoria della pena di morte, sì che si può pensare che non sarà indifferente rispetto a questa diversa opportunità.
Più agevole dovrebbe essere una azione volta a far sì che, proprio come è accaduto per la moratoria, l´iniziativa italiana si risolva in una più generale presa di posizione del Parlamento europeo. Qui, tuttavia, si apre una questione più generale. Mentre la Carta dei diritti fondamentali si avvia a diventare giuridicamente vincolante, e ad essa si guarda come ad un modello, la Commissione europea prende iniziative che, anche con discutibili espedienti procedurali, limitano grandemente la tutela di diritti fondamentali, ad esempio in materia di raccolta e conservazione dei dati personali. Si deve uscire da questa schizofrenia istituzionale, che vede le grandi proclamazioni sui diritti troppo spesso contraddette da concrete e forti limitazioni, democraticamente pericolose e tecnicamente non necessarie o sproporzionate.
Una terza via d´azione riguarda le stesse Nazioni Unite. Poco tempo fa Google, consapevole della necessità di prevedere più forti garanzie per i dati personali, ha proposto l´istituzione presso l´Onu di un "Global Privacy Counsel". L´indicazione va raccolta perché offre uno spunto concreto per cominciare a riflettere sulla futura presenza dell´Onu in questo settore. Ma, soprattutto, quella proposta pone un problema più generale. Nel corso di quest´anno abbiamo assistito ad un forte attivismo del mondo economico. Oltre alla proposta di Google, vi è stata una iniziativa congiunta di Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone, che hanno annunciato per la fine dell´anno la pubblicazione di una Carta per tutelare la libertà di espressione su Internet. In luglio Microsoft ha presentato i suoi Privacy Principles. Ma è possibile lasciare la tutela dei diritti fondamentali su Internet soltanto all´iniziativa di soggetti privati, che tendenzialmente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi e che, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche "istituzioni" capaci di intervenire? Si può accettare una privatizzazione della governance di Internet o è indispensabile far sì che una pluralità di attori, ai livelli più diversi, possa dialogare e mettere a punto regole comuni, secondo un modello definito appunto multistakeholder e multilevel?
L´Internet Bill of Rights, infatti, non è concepito da chi lo ha immaginato e lo promuove come una trasposizione nella sfera di Internet delle tradizionali logiche delle convenzioni internazionali. La scelta dell´antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie "costituzionali". Non dimentichiamo che Amnesty Internacional ha denunciato il moltiplicarsi dei casi di censura, "un virus che può cambiare la natura di Internet, rendendola irriconoscibile" se non saranno prese misure adeguate. Ma, conformemente alla natura di Internet, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall´alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che si sono già materializzati nella forma di "dynamic coalitions", gruppi di diversa natura, nati spontaneamente in rete e che proprio a Rio hanno trovato una prima occasione di confronto, di lavoro comune, di diretta influenza sulle decisioni. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all´integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a normative comuni per singole aree del mondo, come di nuovo dimostra l´Unione europea, la regione del mondo dove più intensa è la tutela dei diritti.
Le obiezioni tradizionali - chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? - appartengono al passato, non si rendono conto che "la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale", come ha scritto benissimo Antonio Cassese commentando il voto sulla pena di morte. Nel momento stesso in cui il cammino dell´Internet Bill of Rights diverrà più spedito, già vi sarà stato un cambiamento. Comincerà ad essere visibile un diverso modello culturale, nato proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini. Un modello che favorirà la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per la "global community of courts", per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall´innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l´unico potere opponibile alla forza degli interessi economici.
Né utopia, né fuga in avanti. Già oggi, all´indomani stesso della conferenza di Rio, molti sono all´opera e sono chiare le indicazioni per il lavoro dei prossimi mesi: inventario delle "dynamic coalitions" e creazione di una piattaforma che consenta il dialogo e la collaborazione; inventario dei molti documenti esistenti, per individuare quali possano essere i principi e i diritti alla base dell´Internet Bill of Rights (un elenco è nella dichiarazione italo-brasiliana); elaborazione di una prima bozza da discutere in rete. La semina è stata buona. Ma il raccolto verrà se saranno altrettanto fervidi gli spiriti che sosterranno le azioni future.

di Stefano Rodotà da la Repubblica del 20 Novmbre 2007

mercoledì 14 novembre 2007

Le società contemporanee e l’enigma dell’altro

La recente vicenda dei rumeni in Italia riapre antiche ossessioni
Cos´è che spinge un individuo o un gruppo sociale a crearsi un nemico virtuale

Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente.
Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l´idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive.
Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l´idea dell´umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l´una verso l´altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L´universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l´idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l´universalismo umanistico e razionalistico ha dato l´ultima spinta.
Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l´esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all´art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze.
Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo" del 1948 rappresenti, nell´essenziale, la condanna di quel modo di concepire l´umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l´appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un´altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l´uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici.
Da allora, l´idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità.
Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione?
La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l´irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena.
Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d´ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all´illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola.
Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un´ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più.
La prepotenza dei privati si accompagna per lui all´assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l´irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all´Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l´esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino).
In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all´integrazione sociale, al lavoro, all´istruzione, alla maternità…
Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio?
Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell´espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni.

di Gustavo Zagrebelsky da la Repubblica del 13 novembre 2007

sabato 10 novembre 2007

Bertinotti: «Un'altra sinistra è possibile. Anzi, obbligatoria»

Come rilanciare l'alternativa politica in Italia e in Europa senza adattarsi alla limitazione del danno e, contemporaneamente, senza riaprire le porte del potere alla destra? Tradotto: come riavere una sinistra non subalterna al centro senza far cadere Prodi e rimettere Berlusconi (o chi per lui) a palazzo Chigi? Bel busillis. Cui Fausto Bertinotti risponde con una rievocazione: «In certi momenti vale quel che dicevano gli operai a proposito degli aumenti salariali, 'Pochi, maledetti e subito è sempre meglio che niente'». Tradotto: teniamo in piedi il governo, facciamo una riforma elettorale che limiti i vincoli del maggioritario e diamo subito vita a un soggetto «unitario e plurale» della sinistra con chi ci sta. «Anche perché - va al dunque il presidente della Camera - il nostro scommettere su un circolo virtuoso tra azione di governo (riformatrice) e movimenti (che incalzano il quadro politico), è stata sfiduciata dai fatti». Cioè si è ridotta alla contrattazione del «meno peggio», mentre si divarica la forbice tra la rappresentanza politica e conflitti sociali e si erode il consenso elettorale della sinistra.

Sembra che tutta la sinistra sia un po' inadeguata. Pensa alla manifestazione del 20 ottobre: una grande partecipazione, una richiesta di «esserci» e, poi, scarsissime risposte, se non generiche, della rappresentanza. Non è questa la vera crisi della politica?
Più si constata il successo della manifestazione del 20 tanto più si vede in controluce la profondità della crisi della politica. Nel Pd e dintorni c'è stata una omissione totale di quell'evento. A sinistra c'è stato più un sollievo da scampato pericolo che un investimento politico-intellettuale, mentre ci si aspetterebbe una socializzazione di una riflessione comune su cosa è accaduto, sul perché c'era così tanta gente in piazza e con così tanta passione politica, su quali problemi sociali ciò rivela. Invece, avendo la questione del governo come problema centrale - sia per rifiutarlo che per consolidarlo - l'indagine sulla soggettività del movimento - su ciò che rappresenta e chiede - viene lasciata in secondo piano. Allora la crisi cui siamo di fronte sta nella difficoltà di trovare la soggettività politica e sociale necessaria a potere realizzare un protagonismo capace di intervenire sulla scelta dello stato, sulle scelte economiche, sulle grandi scelte dei diritti sociali, cioè nei luoghi della formazione della decisione politica. Questo mi pare il punto irrisolto.

Nel merito e nel metodo, nei contenuti e nella loro rappresentanza politica. Parlando dei primi: nel tuo editoriale dell'ultimo numero della rivista, «Alternative per il socialismo», ritorni alla centralità del lavoro. E' un ripensamento rispetto alla fase dei movimenti, seguita poi da quella della battaglia politica dentro le istituzioni?
Quei passaggi sono tutte facce dello stesso prisma. Io però riconosco che di volta in volta, se non una centralità però un bandolo della matassa andrebbe tirato e io penso che la crisi sta arrivando proprio al fondo. Se mi si chiede: ma quale è la chiave di volta dell'uscita dalla crisi? quale è la ragione prima della crisi della sinistra? Rispondo che il nodo va cercato nel rapporto fra il lavoro, la società e la politica. Non per una nuova centralità operaia, non per ignorare la critica del femminismo alla società patriarcale o quella ambientalista alla devastazione prodotta dal capitalismo, non per cancellare le storie e i contenuti dei movimenti e le loro diversità, ma perché possano collocarsi in una ipotesi di trasformazione della società e di capacità di intervento sulla decisione della politica, sul luogo strategico di decisione della politica. E secondo me hanno bisogno di ritrovare un nesso con il lavoro in tutte le sue dimensioni. Non è casuale che il successo della manifestazione del 20 sia legato alla lotta alle precarietà. E quella del lavoro non sarà asaustiva ma è paradigmatica.

Sul metodo e sulla rappresentanza politica il minimo che chiedeva la piazza del 20 ottobre era un luogo per una pratica comune, anche istituzionale.Mi sembra invece che persino su questo ci sia un tira e molla, tra identità da conservare e ruoli dirigenti da preservare... Insomma, se continua così non ci sarà né cosa rossa, né semplicemente nessuna «cosa».
Con il massimo rispetto per tutti coloro che si spendono quotidianamente nelle attività di partito, mi sembra che ci siano troppe rigidità. Capisco i problemi e le resistenze, però per questo vale il vecchio detto di Vittorio Foa quando fu tentata l'unità sindacale: «Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua». E' già troppo che stiamo sulla spiaggia.

C'è un passaggio politico obbligatorio, che chiama in causa i gruppi dirigenti della sinistra...
Come era la vecchia formula operaia a proposito di aumenti salariali? Pochi, maledetti ma subito. Benissimo. Come viene fuori questa «cosa»? Un po' rozza, approssimativa, ma unitaria. Tutto il resto viene subito dopo: come deve essere organizzata, che tipo di costruzione teorico-politica, la definizione del programma fondamentale... Ma bisogna partire, con chi ci sta.

Intanto la sinistra si sta logorando in una continua rincorsa alla riduzione del danno stando in un governo che non godendo di ottima salute pone spesso l'antica alternativa tra mangiare una cattiva minestra o saltare dalla finestra. Un po' logorante...
Io credo che la prosecuzione dell'attuale governo sia auspicabile, perché alcuni risultati si possono ottenere anche con la riduzione del danno, basti pensare alle recenti vicende sul pacchetto sicurezza: cosa sarebbe successo con un governo di centrodestra? Per quante critiche si possano fare alla situazione attuale, non c'è paragone. Tuttavia non possiamo non fare il bilancio di un anno e mezzo di governo e vedere - lo dico per me - che l'investimento su un rapporto inedito tra movimenti e governo per realizzare una nuova fase riformatrice, è stato contraddetto dai fatti. E, allora bisogna anche agire sul terreno dell regole istituzionali, per liberare la politica dai lacci che la imprigionano. Da una logica che impone maggioranze per riavere la possibilità di scegliere le alleanze non prodotte da una coazione.

E se non riesce a farlo questo governo, con un esecutivo istituzionale che cambi la legge elettorale? Per far sì che le alleanze si facciano in Parlamento e non in campagna elettorale?
Sì, alleanze che si annuncino prima, che si fanno in Parlamento ma che in ogni caso producono una possibilità di libertà nella scelta delle alleanze. Mentre penso che nell'attuale sistema politico istituzionale la rottura del rapporto tra la sinistra e il centrosinistra sia una tragedia, in un sistema liberato da questo vincolo del maggioritario si aprirebbe una dialettica politica più ampia, quella permessa da un sistema alla tedesca. Anche per riguadagnare la centralità del «medio termine», ed evitare che tutto sia assorbito dall'emergenza del giorno per giorno con al centro solo la sorte del governo.

Ritorniamo alla questione del governo e al ruolo della sinistra al suo interno. Per quanto può durare la strategia della riduzione del danno senza provocare danni irreparabili in termini di rappresentanza sociale e di consenso elettorale? Non è che la sinistra salvando il centrosinistra rischia di estinguersi?
Il rischio c'è, ma come fai a proporre un'uscita da sinistra? Scartiamo che si possa fare con una crisi di governo, non mi sembra che sia quello che chiede la nostra gente, lo abbiamo visto anche il 20 ottobre. Secondo me c'è uno spazio per un rilancio dell'attività di governo, attraverso una rivitalizzazione di alcuni suoi elementi programmatici da ottenere con un dibattito politico molto impegnativo, valorizzando l'iniziativa sociale - e non penso solo alle manifestazioni o al volontariato, penso alle tante pratiche politiche positive in tante parti d'Italia. E poi attraverso una verifica politica.

Stai pensando a un rimpasto di governo?
E' un terreno su cui non posso entrare. Ma credo che vada messa in campo e fatta pesare la partecipazione delle persone. Mi piacerebbe che la maggioranza inventasse, nelle forme che vuole, con l'approssimazione che crede, una sorta di verifica programmatica. Le forze della maggioranza possono pensare a un percorso di consultazione di massa, aperta, pubblica, assembleare? Credo che la sinistra avrebbe tutto da guadagnarci per contare di più e recuperare alcuni punti programmatici dell'Unione.

Però intanto ci si divide persino sulla simbologia. In un processo unitario e plurale, che ne facciamo dei simboli di ciascuno? Falce e martello in soffitta?
E' bene che ciascuno tenga per sé i propri simboli e sarebbe un male pensare che i simboli abbiano la stessa valenza temporale dei programmi o degli schieramenti. I simboli non sono legati a una contingenza e per averne di nuovi non ci si può affidarere a delle invenzioni, nascono da processi storici. E, poi, per l'immediato un nome che unisce ce l'abbiamo già. Semplice, semplice: sinistra.

Un'ultima cosa. Se te la riproponessero oggi, accetteresti la presidenza della Camera?
L'accetterei, per tre motivi. Perché permette una conoscenza delle istituzioni che troppo spesso viene sottovalutato, come ci aveva ricordato parecchi anni fa Pietro Ingrao. Perché permette di dare visibilità e far diventare elementi di battaglia politica temi sociali troppo spesso messi in secondo piano: per fare solo un esempio gli infortuni sul lavoro. E perché dodici anni di direzione di un partito sono tanti, troppi per chi la esercita, come per chi la «subisce».

di Gabriele Polo da il Manifesto del 10 novembre 2007