Ho molto apprezzato l'articolo di Lanfranco Turci e Paolo Benesperi sul protocollo Welfare. Esso ha due grandi pregi e un difettuccio.
Cominciamo dai pregi. Il primo è che entra finalmente nel merito dei problemi, analizzando la parte del protocollo relativa al lavoro in modo attento, andando oltre il quesito "abroghiamo o conserviamo la legge 30?" La verità è che il protocollo è debole anzitutto nella parte indicata da Turci e Benesperi: gli obiettivi europei in materia di formazione permanente e degli altri strumenti per realizzare la "piena e buona occupazione" (in Europa dicono proprio così), sono ben altra cosa delle modeste misure di cui si parla nel protocollo. Così come è vero che per realizzare un sistema di workfare e di flexsecurity (ormai siamo costretti a usare parole inglesi, anche perché si tratta di politiche che l'Italia non ha mai fatto) non c'è solo il problema della disponibilità delle risorse, che pure esiste, ma prima ancora di un corretto uso delle medesime. Basti pensare alle risorse del programma operativo nazionale del Fondo Sociale europeo, finora sperperate a fini clientelari, anche in tema di formazione, soprattutto nelle regioni meridionali, con politiche che per essere bipartisan non per questo sono commendevoli.
Analitico e serio è anche l'esame dei contratti di lavoro esistenti e di quelli di cui si parla nel protocollo. E qui viene il secondo pregio, dal mio punto di vista: nel merito, Turci e Benesperi dicono cose largamente condivisibili, anzitutto quando ricordano che il contratto di lavoro a tempo indeterminato deve essere la forma comune dei rapporti di lavoro: anche questa è testualmente una direttiva europea. Ma, si sa, in Italia si parla solo dell'Europa di Maastricht, ed è giusto, ma si dimentica l'Europa dei diritti. Tanto più che qui si parla di misure a costo zero; anzi, se si attuasse il giusto principio, anch'esso richiamato nell'articolo in questione, per il quale il ricorso eccezionale al contratto atipico non deve essere fiscalmente vantaggioso per l'imprenditore, come invece oggi è, ne potrebbe derivare persino un risparmio per le casse dello Stato.
Realizzare una legislazione del lavoro che contemperi la giusta esigenza dell'impresa di disporre, nei casi eccezionali previsti dalla legge, di lavoro atipico, anche a termine (nessuno sostiene che uno stabilimento balneare di Rimini debba avere dipendenti a tempo indeterminato, quando lavora solo due-tre mesi l'anno) con una tutela dei diritti dei lavoratori non solo nel mercato del lavoro, ma anche nel posto di lavoro. Da questo punto di vista la proposta di Damiano, ancorché solennemente dichiarata inemendabile senza essere nemmeno passata nel Consiglio dei Ministri, va nella direzione esattamente opposta. E valga il vero: se un contratto a termine può esser rinnovato indefinitamente anche dopo 36 mesi, purché si vada all'ispettorato del lavoro accompagnati da un sindacalista per apporre un bollo, si istituzionalizza il lavoro temporaneo come forma ordinaria del rapporto di lavoro. Ma quale giovane o meno giovane non farà il giro dei sindacati, magari gialli, per trovare qualcuno che lo accompagna a mettere il timbro, se l'alternativa è restare privo anche del lavoro a termine? Siamo seri. E' un modello asiatico del lavoro, non europeo.
Anche la parte costruttiva delle proposte dei due autori consente di approfondire e riflettere insieme: per esempio, sulla riforma del periodo di prova, che tentai senza successo di proporre alle parti sociali nel breve ma istruttivo periodo in cui fui ministro del lavoro.
Qual'è allora il difettuccio di cui parlavo all'inizio? E' quello di riporre la definizione di sinistra massimalista per chi, come ad esempio noi di Sinistra Democratica, tenta disperatamente, e finora senza successo, di proporre al governo politiche socialdemocratiche. Credo che bisogna misurarsi nel merito, prima di distribuire etichette.
La verità è un'altra, ed è tutta politica. Come è tornato a scrivere Stefano Folli su Il Sole 24 Ore, a provocare l'instabilità, e anche le tensioni sul tema del lavoro, è l'avvio del partito democratico. L'intangibilità del protocollo Damiano è diventata la metafora del fatto che il nuovo partito è davvero moderno, riformista, e in grado di raccogliere il consenso degli editorialisti dei maggiori quotidiani italiani. Si va dal coraggiosissimo Rutelli, che ha il coraggio di dire le cose che stanno scritte appunto in quegli editoriali, al giovane Letta, che ha meritato in queste settimane l'endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, all'ecumenico Walter Veltroni. A Veltroni, se partecipassi a una delle sue lezioni in corso per l'Italia sulla buona politica, domanderei se è buona politica dire una cosa quando si è all'opposizione e si fa campagna elettorale, e poi fare l'opposto quando si è al governo.
Ai compagni socialisti di tutte le componenti, infine, incoraggiato da quanto scrivono Turci e Benesperi, un suggerimento senza alcuna iattanza: un socialista non potrà essere massimalista, radicale, alternativo, e tanto meno comunista, ma almeno un po' di sinistra forse sì.
di CESARE SALVI da il Riformista del 3 Agosto 2007
Cominciamo dai pregi. Il primo è che entra finalmente nel merito dei problemi, analizzando la parte del protocollo relativa al lavoro in modo attento, andando oltre il quesito "abroghiamo o conserviamo la legge 30?" La verità è che il protocollo è debole anzitutto nella parte indicata da Turci e Benesperi: gli obiettivi europei in materia di formazione permanente e degli altri strumenti per realizzare la "piena e buona occupazione" (in Europa dicono proprio così), sono ben altra cosa delle modeste misure di cui si parla nel protocollo. Così come è vero che per realizzare un sistema di workfare e di flexsecurity (ormai siamo costretti a usare parole inglesi, anche perché si tratta di politiche che l'Italia non ha mai fatto) non c'è solo il problema della disponibilità delle risorse, che pure esiste, ma prima ancora di un corretto uso delle medesime. Basti pensare alle risorse del programma operativo nazionale del Fondo Sociale europeo, finora sperperate a fini clientelari, anche in tema di formazione, soprattutto nelle regioni meridionali, con politiche che per essere bipartisan non per questo sono commendevoli.
Analitico e serio è anche l'esame dei contratti di lavoro esistenti e di quelli di cui si parla nel protocollo. E qui viene il secondo pregio, dal mio punto di vista: nel merito, Turci e Benesperi dicono cose largamente condivisibili, anzitutto quando ricordano che il contratto di lavoro a tempo indeterminato deve essere la forma comune dei rapporti di lavoro: anche questa è testualmente una direttiva europea. Ma, si sa, in Italia si parla solo dell'Europa di Maastricht, ed è giusto, ma si dimentica l'Europa dei diritti. Tanto più che qui si parla di misure a costo zero; anzi, se si attuasse il giusto principio, anch'esso richiamato nell'articolo in questione, per il quale il ricorso eccezionale al contratto atipico non deve essere fiscalmente vantaggioso per l'imprenditore, come invece oggi è, ne potrebbe derivare persino un risparmio per le casse dello Stato.
Realizzare una legislazione del lavoro che contemperi la giusta esigenza dell'impresa di disporre, nei casi eccezionali previsti dalla legge, di lavoro atipico, anche a termine (nessuno sostiene che uno stabilimento balneare di Rimini debba avere dipendenti a tempo indeterminato, quando lavora solo due-tre mesi l'anno) con una tutela dei diritti dei lavoratori non solo nel mercato del lavoro, ma anche nel posto di lavoro. Da questo punto di vista la proposta di Damiano, ancorché solennemente dichiarata inemendabile senza essere nemmeno passata nel Consiglio dei Ministri, va nella direzione esattamente opposta. E valga il vero: se un contratto a termine può esser rinnovato indefinitamente anche dopo 36 mesi, purché si vada all'ispettorato del lavoro accompagnati da un sindacalista per apporre un bollo, si istituzionalizza il lavoro temporaneo come forma ordinaria del rapporto di lavoro. Ma quale giovane o meno giovane non farà il giro dei sindacati, magari gialli, per trovare qualcuno che lo accompagna a mettere il timbro, se l'alternativa è restare privo anche del lavoro a termine? Siamo seri. E' un modello asiatico del lavoro, non europeo.
Anche la parte costruttiva delle proposte dei due autori consente di approfondire e riflettere insieme: per esempio, sulla riforma del periodo di prova, che tentai senza successo di proporre alle parti sociali nel breve ma istruttivo periodo in cui fui ministro del lavoro.
Qual'è allora il difettuccio di cui parlavo all'inizio? E' quello di riporre la definizione di sinistra massimalista per chi, come ad esempio noi di Sinistra Democratica, tenta disperatamente, e finora senza successo, di proporre al governo politiche socialdemocratiche. Credo che bisogna misurarsi nel merito, prima di distribuire etichette.
La verità è un'altra, ed è tutta politica. Come è tornato a scrivere Stefano Folli su Il Sole 24 Ore, a provocare l'instabilità, e anche le tensioni sul tema del lavoro, è l'avvio del partito democratico. L'intangibilità del protocollo Damiano è diventata la metafora del fatto che il nuovo partito è davvero moderno, riformista, e in grado di raccogliere il consenso degli editorialisti dei maggiori quotidiani italiani. Si va dal coraggiosissimo Rutelli, che ha il coraggio di dire le cose che stanno scritte appunto in quegli editoriali, al giovane Letta, che ha meritato in queste settimane l'endorsement di Luca Cordero di Montezemolo, all'ecumenico Walter Veltroni. A Veltroni, se partecipassi a una delle sue lezioni in corso per l'Italia sulla buona politica, domanderei se è buona politica dire una cosa quando si è all'opposizione e si fa campagna elettorale, e poi fare l'opposto quando si è al governo.
Ai compagni socialisti di tutte le componenti, infine, incoraggiato da quanto scrivono Turci e Benesperi, un suggerimento senza alcuna iattanza: un socialista non potrà essere massimalista, radicale, alternativo, e tanto meno comunista, ma almeno un po' di sinistra forse sì.
di CESARE SALVI da il Riformista del 3 Agosto 2007
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