«È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.
Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?
«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».
Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?
«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».
Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?
«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».
Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?
«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».
Il piano inclinato è l’ideologia liberista?
«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».
Ha vinto il concetto di modernismo?
«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».
Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?
«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».
Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?
«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».
Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?
«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».
Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?
«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».
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