Non ha mai nominato, manco una volta, la parola operai, mai la parola fabbrica, mai la parola masse. Temi che un tempo incendiavano i militanti di quello che si vantava di essere il più grande partito comunista d’Occidente. Non ha mai citato, neppure una volta, quel Silvio Berlusconi il cui solo nome per un decennio riusciva magicamente a riaccendere anche le più ammaccate e tristi riunioni di piazza. E dopo aver rimosso le arie dell’ «Internazionale» e «Bandiera Rossa» e perfino della «Canzone Popolare» o dell’ironica «Il cielo è sempre più blu», ha affidato la missione di scaldare i cuori al robusto inno di Mameli e a «Over the Rainbow», come non ci fossero più canzoni capaci di riassumere con parole italiane e comprensibili all’intera platea una fede buona per tutti.
Eppure nella sua appassionata relazione al quarto congresso dei Ds, così appassionata da fargli venire infine un groppo in gola, Piero Fassino è stato chiamato a fare i conti soprattutto con una parola antica: socialismo. E lì, ha dovuto tentare più acrobazie del mitico Giovanni Palmiri il giorno in cui fermò il fiato ai milanesi comparendo su un trapezio nel cielo di piazza Duomo.
Doveva infatti, lassù sul filo, reggere contemporaneamente in equilibrio quattro socialismi differenti. Il primo, ovvio, era il richiamo al socialismo che doveva rassicurare Fabio Mussi o almeno instillare qualche dubbio nei suoi fedeli, con un continuo rimando alla lunga storia della sinistra e un monito sulle scissioni del passato, «nessuna delle quali è stata foriera di maggiori opportunità». Il secondo doveva confortare Poul Rasmussen, George Papandreou, Kurt Beck e Martin Schultz, che certo non erano venuti a Firenze per essere smentiti dopo aver detto più volte di aspettarsi che il «partito nuovo» entri senz’altro nella grande famiglia socialista europea. Il terzo dovrebbe, se non subito almeno in un futuro ravvicinato, convincere i socialisti della diaspora a non vedere nel Partito democratico «una riedizione in scala minore del compromesso storico » ma piuttosto «la casa anche dei socialisti». Operazione complessa per l’erede di quell’Enrico Berlinguer che, al di là della rivendicazione di una diversità morale, marchiò Bettino Craxi come «un pericolo per la democrazia» e di quel Massimo D’Alema che ammiccava: «Diciamo che non son mai stato un socialista italiano. Sono diventato direttamente un socialista europeo».
L’esercizio più arduo, però, era il quarto: fare digerire questo continuo appello al socialismo, nominato e invocato nelle sue varianti 31 volte, a chi nella Margherita ha già detto e ridetto di non avere alcuna intenzione di entrare nel Pse e men che meno nell’Internazionale Socialista. Anche se per il segretario diessino «già oggi è costituita per quasi metà dei suoi 185 partiti da forze di ispirazione culturale diversa dall’esperienza socialista». Esempio? Il Partito del Congresso Indiano e il Partito dei Lavoratori di Lula. Due esempi, come dire, esotici. Basteranno? Francesco Rutelli dice che risponderà oggi. Ma potete scommettere che da qui all’appuntamento fondante della prossima primavera, che appare lontana lontana, il tema sul tappeto resterà questo.
di
GIAN ANTONIO STELLA da il Corriere della Sera del 20-04-2007
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