Che questo sia uno straordinario periodo di confusione lo dimostra quasi tutto quello a cui assistiamo quotidianamente, e anche non quotidianamente. Cito a caso due pamphlets, molto diversi l'uno dall'altro, usciti in questi mesi: l'uno s'intitola Il liberismo è di sinistra di Giavazzi-Alesina, l'altro Per una sinistra reazionaria di Bruno Arpaia. D'accordo, noi saremo anche "ultraconservatori", come ha detto ieri il sindaco di Venezia Massimo Cacciari e come ripetono fino all'ossessione gli editorialisti-professori del Corriere - ma che dire dell'effetto spiazzante che una tale sequenza di incontrollati ossimori può esercitare sul comune cittadino, magari giovane e magari non molto smaliziato? Se la sinistra può essere declinata come liberista, reazionaria, classista, progressista, autoritaria, democratica, sicuritaria e magari xenofoba, che cosa alla fine ne resta non diciamo di solido ma di vagamente comprensibile?
Purtroppo, tutta questa confusione non abita solo nei libri, o nei titoli dei saggi, più o meno, d'occasione: risiede, per una parte sostanziale, nelle "esternazioni" e nelle pratiche concrete di una parte crescente del ceto politico di sinistra - o che nella sinistra si è formato e cresciuto. Ora, nel mezzo di una delicatissima partita sociale e politica - quella che si concluderà a giorni, speriamo, con alcuni miglioramenti sostanziali del protocollo su Welfare e precarietà, e forse con un inizio di riconciliazione tra il governo Prodi e una larghissima fascia del mondo del lavoro - il leit-motiv più insistente suona come una specie di "Marcia funebre di Sigfrido" per la sinistra radicale: essa sarebbe diventata incompatibile, inaffidabile, irresponsabile, essa ha fallito la prova di governo, essa, perciò, non sarà mai più componente di un'alleanza organica per il governo del Paese. In prima linea, manco a dirlo, ci sono i sindaci del centrosinistra, questa sorta di signorotti neofeudali che si sentono oramai detentori di poteri "superiori" e tendono ad esercitarli spesso sgangheratamente: così il primo cittadino di Firenze, Leonardo Domenici (quello della crociata estiva contro i lavavetri) arriva a dire che stare fuori dal governo della cosa pubblica sarebbe "meglio anche per loro" e precisa, ad ogni buon conto, che in quel di Firenze la cosa è già stata fatta. Così, anche, il sindaco di Venezia, che parla di margini "ristrettissimi" per ogni presente e futura collaborazione tra riformisti e radicali. E ci si mette, alla fine, anche l'ottimo ministro Gentiloni, lui così prudente ed elegante, a buttare un po' di benzina sul fuoco. Che cosa unisce tutte queste persone nella loro spietata e implacabile condanna? Ma è chiarissimo: il Piddì, il Partito Democratico ormai a una settimana dal parto ufficiale.
Il Partito democratico che, non ancora del tutto nato, nella pratica politica già tende all'autosufficienza totale e all'arroganza. Come se l'Unione non ci fosse più e non avesse un programma da rispettare. Come se gli spettasse - per dono divino? - il monopolio delle decisioni e del potere che dalle decisioni deriva.
In effetti, se la memoria non ci inganna, non abbiamo mai sentito sulle bocche di questi signori alcuna parola critica sul vero e proprio ricatto che, a differenza della sinistra alternativa, il senatore Dini, recentissimamente autonomizzatosi dal Pd, sta esercitando sul quadro politico. Nessuno sta dicendo la nuda e cruda verità: che cioè il fantasmatico raggruppamento postdiniano degli "Ld", tipico frutto del più deteriore trasformismo italico, pseudo forza politica che quasi certamente ha già in tasca un accordo con il centrodestra (oppure, al contrario, con lo stesso Pd, come accadde con il suo antecedente un paio di elezioni fa, quando a "Rinnovamento italiano" furono gentilmente regalati i voti necessari per superare la soglia di sbarramento), nessuno dice che Dini, appunto, ha fatto (e non da ora) carta straccia del programma comune sottoscritto e lavora su prospettive del tutto difformi dal suo profilo basilare. Nessuno si scandalizza - anzi. Come mai una tale disparità di "trattamento"? Come non scorgervi un calcolo tattico dei più meschini e "piccini"?
Il fatto è che l'ebbrezza del battesimo e la grancassa mediatica stanno facendo perdere al Pd ogni prudenza: anche il suo più che leader in pectore, Walter Veltroni, non perde occasione per sottolineare che, d'ora in poi (?), le coalizioni hanno da essere "coese" e "coerenti", e capaci di decidere in fretta, senza stare a guardare più di tanto che cosa ne pensano, per dire, alcuni milioni di persone tutte "ultraconservatrici" - quelli che alla sinistra affidano le loro speranze di una società almeno un po' meno diseguale. E aggiunge che, siccome il popolo ha la testa dura e potrebbe continuare a votare "male", cioè in modo non coeso, non resta che impedirlo per legge: per esempio attraverso una nuova legge elettorale che impedisca alla sinistra ogni sostanziale (e sostanziosa) rappresentanza. Viene da dire: perché tutti costoro non pensano di andare, per una volta, a risciacquare i loro panni non nell'Arno di Domenici, ma tra i lavoratori, gli operai, gli insegnanti, i ricercatori, che stanno votando alle loro "primarie referendarie", come suggerisce Ichino, e che certo esprimeranno un non irrilevante disagio?
Noi, sia chiaro, non siamo fissati sul Governo: per noi è una leva per favorire la trasformazione di cui l'Italia ha bisogno, uno strumento importante, un mezzo, insomma, e non certo un fine ultimo della nostra lotta politica. All'opposizione staremo benissimo, se la dinamica degli eventi prossimi spingerà le cose in questa direzione. Resta comunque oscuro il pensiero, se di pensiero si tratta, dei "signori del Pd": pensano di poter governare l'Italia da soli, superando di slancio la crisi della politica e la forza crescente delle destre? Pensano di poter fare a meno non solo della sinistra radicale, ma delle istanze sociali, politiche e culturali, e dei soggetti in carne ed ossa, che la sinistra rappresenta? Pensano di essere già negli Stati Uniti d'America e al suo bipartitismo perfetto, senza partecipazione e senza, appunto, sinistra? Pensano che l'unica strada possibile sia quella dei nuovi guru del Corriere ? Sarebbe bene che si chiarissero qualche idea, e ce la spiegassero. In ogni caso, ci consentiamo di suggerire un nuovo slogan, quasi definitivo, che potrebbe consentire al Pd tutte le rimonte inimmaginabili. Eccolo: "Essere di destra è l'unico modo serio oggi per essere di sinistra". Vi piace?
di Rina Gagliardi da Liberazione del 10 ottobre 2007
Purtroppo, tutta questa confusione non abita solo nei libri, o nei titoli dei saggi, più o meno, d'occasione: risiede, per una parte sostanziale, nelle "esternazioni" e nelle pratiche concrete di una parte crescente del ceto politico di sinistra - o che nella sinistra si è formato e cresciuto. Ora, nel mezzo di una delicatissima partita sociale e politica - quella che si concluderà a giorni, speriamo, con alcuni miglioramenti sostanziali del protocollo su Welfare e precarietà, e forse con un inizio di riconciliazione tra il governo Prodi e una larghissima fascia del mondo del lavoro - il leit-motiv più insistente suona come una specie di "Marcia funebre di Sigfrido" per la sinistra radicale: essa sarebbe diventata incompatibile, inaffidabile, irresponsabile, essa ha fallito la prova di governo, essa, perciò, non sarà mai più componente di un'alleanza organica per il governo del Paese. In prima linea, manco a dirlo, ci sono i sindaci del centrosinistra, questa sorta di signorotti neofeudali che si sentono oramai detentori di poteri "superiori" e tendono ad esercitarli spesso sgangheratamente: così il primo cittadino di Firenze, Leonardo Domenici (quello della crociata estiva contro i lavavetri) arriva a dire che stare fuori dal governo della cosa pubblica sarebbe "meglio anche per loro" e precisa, ad ogni buon conto, che in quel di Firenze la cosa è già stata fatta. Così, anche, il sindaco di Venezia, che parla di margini "ristrettissimi" per ogni presente e futura collaborazione tra riformisti e radicali. E ci si mette, alla fine, anche l'ottimo ministro Gentiloni, lui così prudente ed elegante, a buttare un po' di benzina sul fuoco. Che cosa unisce tutte queste persone nella loro spietata e implacabile condanna? Ma è chiarissimo: il Piddì, il Partito Democratico ormai a una settimana dal parto ufficiale.
Il Partito democratico che, non ancora del tutto nato, nella pratica politica già tende all'autosufficienza totale e all'arroganza. Come se l'Unione non ci fosse più e non avesse un programma da rispettare. Come se gli spettasse - per dono divino? - il monopolio delle decisioni e del potere che dalle decisioni deriva.
In effetti, se la memoria non ci inganna, non abbiamo mai sentito sulle bocche di questi signori alcuna parola critica sul vero e proprio ricatto che, a differenza della sinistra alternativa, il senatore Dini, recentissimamente autonomizzatosi dal Pd, sta esercitando sul quadro politico. Nessuno sta dicendo la nuda e cruda verità: che cioè il fantasmatico raggruppamento postdiniano degli "Ld", tipico frutto del più deteriore trasformismo italico, pseudo forza politica che quasi certamente ha già in tasca un accordo con il centrodestra (oppure, al contrario, con lo stesso Pd, come accadde con il suo antecedente un paio di elezioni fa, quando a "Rinnovamento italiano" furono gentilmente regalati i voti necessari per superare la soglia di sbarramento), nessuno dice che Dini, appunto, ha fatto (e non da ora) carta straccia del programma comune sottoscritto e lavora su prospettive del tutto difformi dal suo profilo basilare. Nessuno si scandalizza - anzi. Come mai una tale disparità di "trattamento"? Come non scorgervi un calcolo tattico dei più meschini e "piccini"?
Il fatto è che l'ebbrezza del battesimo e la grancassa mediatica stanno facendo perdere al Pd ogni prudenza: anche il suo più che leader in pectore, Walter Veltroni, non perde occasione per sottolineare che, d'ora in poi (?), le coalizioni hanno da essere "coese" e "coerenti", e capaci di decidere in fretta, senza stare a guardare più di tanto che cosa ne pensano, per dire, alcuni milioni di persone tutte "ultraconservatrici" - quelli che alla sinistra affidano le loro speranze di una società almeno un po' meno diseguale. E aggiunge che, siccome il popolo ha la testa dura e potrebbe continuare a votare "male", cioè in modo non coeso, non resta che impedirlo per legge: per esempio attraverso una nuova legge elettorale che impedisca alla sinistra ogni sostanziale (e sostanziosa) rappresentanza. Viene da dire: perché tutti costoro non pensano di andare, per una volta, a risciacquare i loro panni non nell'Arno di Domenici, ma tra i lavoratori, gli operai, gli insegnanti, i ricercatori, che stanno votando alle loro "primarie referendarie", come suggerisce Ichino, e che certo esprimeranno un non irrilevante disagio?
Noi, sia chiaro, non siamo fissati sul Governo: per noi è una leva per favorire la trasformazione di cui l'Italia ha bisogno, uno strumento importante, un mezzo, insomma, e non certo un fine ultimo della nostra lotta politica. All'opposizione staremo benissimo, se la dinamica degli eventi prossimi spingerà le cose in questa direzione. Resta comunque oscuro il pensiero, se di pensiero si tratta, dei "signori del Pd": pensano di poter governare l'Italia da soli, superando di slancio la crisi della politica e la forza crescente delle destre? Pensano di poter fare a meno non solo della sinistra radicale, ma delle istanze sociali, politiche e culturali, e dei soggetti in carne ed ossa, che la sinistra rappresenta? Pensano di essere già negli Stati Uniti d'America e al suo bipartitismo perfetto, senza partecipazione e senza, appunto, sinistra? Pensano che l'unica strada possibile sia quella dei nuovi guru del Corriere ? Sarebbe bene che si chiarissero qualche idea, e ce la spiegassero. In ogni caso, ci consentiamo di suggerire un nuovo slogan, quasi definitivo, che potrebbe consentire al Pd tutte le rimonte inimmaginabili. Eccolo: "Essere di destra è l'unico modo serio oggi per essere di sinistra". Vi piace?
di Rina Gagliardi da Liberazione del 10 ottobre 2007
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