martedì 16 ottobre 2007

Un voto e via. Il mito della «festa democratica»

In principio fu la forma partito: c'era la base, il vertice, le sezioni, gli organismi dirigenti; nel Pci il centralismo democratico con le sue liturgie, nella Dc le correnti con le loro. Era nel Novecento, un secolo fa. Seguì, della forma-partito, una lunga e inarrestabile crisi. Adesso, non più all'alba ma già al mattino del nuovo secolo, per il partoriendo Pd si dovrebbe parlare, più che di una forma-partito, di un partito-sformato. Con due sole certezze: l'elezione diretta del segretario - nientemeno che «un evento storico», lo definisce nientemeno che Sergio Cofferati - e la rinascita delle correnti; quanto al resto, una base (elettorale) indefinita - un euro una scheda - e procedure improvvisate (malgrado i bizantinismi sulle regole che ne hanno accompagnato la gestazione). Per farsene un'idea, basta scorrere l'eloquente elenco delle sedi in cui sono stati allestiti i 10.000 seggi per il voto di oggi: bar, teatri, studi medici, emeroteche, stazioni di vigili urbani, mercati coperti e scoperti, bocciofile, ristoranti, piste di pattinaggio, librerie, e quel che resta di case del popolo e sezioni Ds e Dl. E' da qui che lo sformato verrà fuori. Per dare davvero nuovo sapore alla democrazia?
La retorica, unica superstite della forma-partito novecentesca, ripete di sì. Per Walter Veltroni, con le primarie di oggi si scrive «una pagina di storia italiana»; per Dario Franceschini, si segna «uno storico spartiacque»; per Massimo D'Alema, si partecipa a «una grande festa democratica», e poco importa che Arturo Parisi senta il bisogno di invocare «vigilanza e trasparenza» fidandosi più degli exit-poll di Diamanti e Pagnoncelli che dei suoi compagni di avventura. Arrivato al traguardo, cioè alle mitiche primarie per anni invocate come la prova del nove del cambiamento e dell'innovazione, il ministro della difesa avverte «la differenza fra sogno e realtà». Poteva svegliarsi prima, ma intanto il sogno di è impadronito di tutti. Le primarie non sono più un mezzo per arrivare alla cosa, sono diventate la cosa: il partito democratico è il modo in cui nasce, e l'idea di democrazia che sbandiera è la democrazia che si pratica con le primarie.
Si può continuare a sognare e convincersi, con le migliaia di protagonisti in corsa, che dalla «festa democratica» di oggi riparte la partecipazione, si riduce la distanza fra cittadini e politica, si rimette nelle mani di ciascuno e ciascuna quello che finora è stato delegato alle segreterie dei partiti o alle chiacchiere del Transatlantico; e che la condizione numero uno perché tutto questa accada è che a votare ci vadano più di un milione di persone. Resta avvolto nel mistero però perché tutto ciò non sia già accaduto dopo il 16 ottobre 2005, quando a votare per l'investitura del candidato-premier dell'Unione ci andarono in quattro milioni, o dopo le primarie sperimentate sotto varie forme in Puglia, in Calabria, in Sicilia, a Milano, a Genova e altrove. Le feste del resto sono belle perché durano poco: un voto e via, fine degli onori e degli oneri della democrazia. Ma il leader, e con lui gli organismi dirigenti, finalmente avranno la loro investitura popolare, e di conseguenza mani più libere.
Per fare che cosa? Sei mesi di accelerazioni e divisioni non hanno chiarito né la natura né i progetti di un partito che fu lanciato, nei congressi di scioglimento dei Ds e dei Dl, come una «necessità storica», una fusione creativa delle culture politiche di partenza, un fattore di ordinamento e stabilizzazione del quadro politico. Le culture politiche sono rimaste divise quando non ostili l'una all'altra, come dimostrano i conflitti perenni sulla laicità dello stato e sui diritti di libertà, dai Pacs al testamento biologico. L'appartenenza di campo internazionale è rimasta incerta, se è vero che mentre Fassino accenna ancora al socialismo europeo Veltroni ha ripetuto l'altro ieri, in un'intervista al Corsera, che salvo l'esperimento svedese la tradizione socialdemocratica del vecchio continente è tutta archiviata al cospetto del faro kennediano. Il moderatismo dilaga nelle parole e nei fatti, lascinado a Rosi Bindi l'improbabile spazio per la rivendicazione del carattere «di sinistra» della nuova impresa. Le politiche sociali si declinano solo all'insegna della sicurezza, che si tratti del precariato da combattere o delle ansie per gli zingari da calmierare. E quanto alla stabilizzazione del quadro politico, com'era ovvio l'accelerazione dell'investitura di Veltroni non potrà che destabilizzare il governo di Prodi, mentre le «alleanze di nuovo conio» incombono sul bipolarismo. I gruppi dirigenti del partito-omnibus, però, grazie alla campagna elettorale per le primarie si sono ben reimpiantati sul territorio e relative fonti di risorse e di voti. Anche questa, a modo suo, è una strategia di stabilizzazione.

di Ida Dominijanni da il Manifesto del 14 ottobre 2007

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