mercoledì 17 ottobre 2007

La voglia di voto e la Cosa rossa

L'hanno chiamata voglia di voto. Che ha coinvolto una parte rilevantissima di quelle persone che ormai tanto tempo fa - tempo politico, ovviamente, perché calendario alla mano si tratta solo di un anno e mezzo fa - hanno permesso alla coalizione di centrosinistra di battere le destre. Voglia di voto, allora, voglia di partecipazione che ha portato tre milioni e mezzo di persone a fare la fila e ad esrimere una preferenza per il nuovo leader del partito democratico. Una voglia di voto che il vincitore, Veltroni - sia domenica sera, sia ieri pomeriggio in una conferenza stampa in cui ha ridetto esattemente le stesse cose di dodici ore prima - ha letto come la vera risposta all'antipolitica. Quella di Grillo, dei suoi blog.
E sono in molti a pensare che sia proprio così. Al punto che anche la destra è costretta ad ammetterlo. Ma forse è qualcosa di meno. I più attenti osservatori hanno spiegato, insomma, che quel "bisogno di voto" è una premessa al rinnovamento della politica. Da sola non basta. Anche perché a ben vedere c'è una sequenza di fatti e parole - che poi in politica contano quasi quanto i fatti - che sembra spingere in un'altra direzione. Ecco la sequenza. Ieri sera Veltroni è stato incoronato e davanti alla selva di microfoni che l'assediavano ha riproposto la solita sequenza dei suoi slogan: il paese vuole ammodernarsi, rinnovarsi, pacificarsi. Il paese vuole riformismo. Nell'accezione che a questa parola assegna anche Montezemolo, quando vuole togliere il diritto alla pensione a milioni di persone. La mattina dopo, ieri, Prodi - che non si fa illusioni e sa benissimo che il successo del sindaco porterà i due in rotta di collisione - ha ripetuto più o meno le stesse parole. Modernità, sviluppo. Riformismo. Un secondo dopo sono arrivati i sindacati, Cisl in testa - ammesso che in qualcosa oggi la seconda confederazione si distingua dalla Cgil - a ripetere: bene modernità e riformismo. Quindi - hanno detto - non toccate l'accordo sul welfare.
E di lì a una mezz'ora il primo ministro che si sente sul collo l'alito del nuovo segretario ha incontrato i segretari delle tre confederazioni. Assicurando loro che gli impercettibili miglioramenti registrati nel consiglio dei ministri saranno annullati. Azzerati, spariti. E così, a conti fatti, il primo risultato del voto di tre milioni e mezzo di persone, un voto tutto politico, si trasforma in un ulteriore colpo alla politica. Ai diritti della politica. Ai diritti della "buona politica", tanto per usare una parola che rimbalza in queste ore da un telegiornale all'altro: quella di chi, per esempio, non pensa che il 22 per cento di "no" all'accordo sul welfare possa essere ignorato.
Un primo atto simbolico. A suo modo inquietante. Ma fermarsi a questo non servirebbe a nessuno. Perché è evidente che quei tre milioni e mezzo di persone, di donne, uomini, ragazzi in fila davanti ai gazebo raccontano di un bisogno. Di una voglia, appunto. Che rivolge domande a tutti.
Parla della voglia di contare. E racconta che davanti all'empasse di un governo che ha ricevuto un mandato e poi sembra essersene dimenticato, le persone usano quel che trovano. Usano gli spazi, le fessure di partecipazione che si riescono ad attivare. Anche quelle che finiscono per incoronanare un sindaco che, davanti a cronisti un po' allibiti, annuncia che da domani «userà parole nuove» per la politica. Tradotto: domani stupirà dicendo una cosa di sinistra, dopodomani tornerà a difendere l'assessore fiorentino Cioni e la sua campagna contro i lavavetri. Candidandosi a prendere tutto. Ma proprio tutto tutto, fino a competere con la destra sui suoi terreni. Ma lo spiraglio per la partecipazione era questo. E questo le persone si sono prese. Si arriva così alla domanda. Alla domanda che comunque l'esperienza delle primarie rivolge anche alla sinistra: perché oltre a quella di Veltroni e Montezemolo, perché oltre alla proposta del partito democratico non c'era in campo un'altra idea? Un altro progetto? E se c'era perché era ancora attardata a definire le forme della possibile convinvenza? Insomma, le primarie oggi sollecitano una risposta anche da questa parte. Dalla parte della sinistra. Una risposta che qualcuno sosterrà avrebbe già potuto e dovuto esserci. Da tempo. Ma anche questo conta poco.
Conta che oggi, dopo quel successo, nessuno può più pensare che basta mettersi sulla riva del fiume e aspettare di raccogliere in una rete tutto ciò che non ce la fa ad entrare nel piddì.Non è stato mai vero. Ma quell'attesa forse aveva un senso all'epoca delle diatribe fra Fassino e Rutelli. Ora quei tre milioni e mezzo di voti hanno sicuramente avuto l'effetto di rendere "presentabile" il piddì. Più presentabile di prima.
L'hanno riverniciato. Ma la partecipazione in una domenica di ottobre di un pezzo del popolo del centrosinistra punta ad altro. E Veltroni non può darglielo. Ecco perché la "cosa rossa" da domenica è diventata più urgente. E quel bisogno di partecipare, quella voglia di unità non ce la fanno ad essere incanalate dentro gli argini di una discussione sulle forme federative, sui meccanismi della rappresentanza e così via. Per dirla tutta: quei bisogni sono più forti di quanto abbia offerto fino ad ora il dibattito sul soggetto unitario della sinistra.
Se così sarà, alla fine Veltroni potrà dire di aver fatto un favore alla sinistra. Ieri in tutti i protagonisti della vicenda c'era la consapevolezza di cosa si sta giocando in questi giorni. Qualcuno più attento, come Franco Giordano ha rischiato una proposta, di arrivare agli "stati generali" con già l'avvio di una forma organizzativa. Altri meno, come il Verde Bonelli che non vuole sentir parlare di "cosa rossa". Come se qualcuno avesse già deciso come chiamarla. Altri ancora, i dirigenti della Sinistra democratica che continuano a difendere il progetto di una casa comune. E non era scontato. Visto che il futuro segretario, fra i suoi fiori all'occhiello, vanta anche quello di aver garantito un 20 per cento di posti nel nuovo consiglio di amministrazione del piddì ad una lista che si chiama "sinistra per Veltroni". Premessa indispensabile per far ripartire le pressioni dirette a far rientrare una parte, una parte almeno, di chi se n'è andato dai diesse. Ottenendo però solo rifiuti. A cominciare da Mussi.
Le condizioni ci sono, allora. Basta volerlo fare. E forse questo conta di più, molto di più di tutto il resto. Il che non vuol dire che la sinistra debba restare a guardare. Indifferente allo scontro che si annuncia fra Prodi e il segretario del suo partito. Scontro annunciato da tutti e in qualche modo confermato ieri dai due. Quando il sindaco neosegretario spiegava che «l'obiettivo del piddì era arrivare alla fine della legislatura». Un obiettivo, non un impegno. E quando Prodi, in una lettera di felicitazioni, gli spiegava molto onestamente che «ci saranno incontri» ma anche momenti di incomprensioni. Affilano le lame, dunque. Com'era prevedibile e come sapevano tutti. Ma alla sinistra è chiesto tutt'altro. E' chiesto di modificare l'accordo sul welfare, è chiesto di dar voce ai metalmeccanici, ma anche ai milioni di lavoratori che hanno votato sì e che pure non vogliono la precarietà per i loro figli. E' chiesto di conquistare qualcosa per evitare che gli scalini diventino orrendi come lo scalone. E' chiesto di fare la sinistra. Di strappare risultati. Che verranno solo se quei pezzi separati avranno il coraggio di mettersi insieme. Fra di loro e insieme alle persone. A quel punto, forse, tutti potremo ringraziare Veltroni.
E' più morbida sul tesseramento Manuela Palermi del Pdci: «Non dico no a niente, ma ora pensiamo alla Finanziaria, incassiamo il risultato della presenza dei Verdi il 20 ottobre (non al corteo ma con la loro raccolta di firme contro gli ogm, ndr.), e dicono sì alla sinistra federata». Il ragionamento di Giordano mette insieme il referendum dei lavoratori sul protocollo sul welfare e la nascita del Pd: altri due fattori che impongono «la costruzione di una forza unitaria a sinistra con un principio di cultura autonoma». Perchè, argomenta il segretario Prc, il rischio è di una «ristrutturazione del sistema politico e sindacale italiano con due facce: da un lato, un Pd che fagociti tutta la dialettica politica; e dall'altro, un sindacato che abbia in totale appannaggio la gestione sociale e delle forze del lavoro». Ed è ancor più importante, «in questa fase delicata, che le resistenze al percorso unitario vengano fuori perchè rischiano di mettere in difficoltà tutto il processo». Quelle interne al Prc non si fanno attendere. Giannini e Pegolo, dell'Ernesto, attaccano l'idea del tesseramento del soggetto unitario, leggendovi il segnale di un futuro «superamento» del Prc (nonostante le modalità indicate da Giordano siano le stesse sperimentate da anni per la Sinistra europea).
Al momento, la sinistra trova convergenza pratica nella battaglia emendativa sulla Finanziaria. Si punta a chiedere di: istituire il reddito d'inserimento; restituire il fiscal drag ai lavoratori dipendenti finanziandolo con l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie; destinare i 170 milioni di euro previsti per il Mose alla riqualificazione ambientale di Venezia e della laguna. Il relatore del dl che accompagna la Finanziaria, Natale Ripamonti (Verdi), assicura che la maggioranza dell'Unione ha già raggiunto un accordo che riduce i tagli al fondo per l'editoria «dal 7 al 2% per i piccoli quotidiani». Le pressioni della sinistra avrebbero inoltre prodotto un'intesa su un «tetto, basato sul reddito, per gli aiuti agli incapienti» e anche per «la soppressione della società Stretto di Messina, ancora esistente nonostante il ponte non si faccia più». Il nodo più grosso resta quello del welfare, sul quale il governo ha agito con «furbizia e dilettantismo», dice Ripamonti. «Urge fare chiarezza - osserva Di Salvo - non si capisce più di quale testo si stia parlando». E il ministro Ferrero lancia l'allarme: il modo «plebiscitario» con cui il Pd ha agito sul protocollo del 23 luglio e la forza mediatica che riesce a esercitare «tende a descrivere la sinistra come rappresentanza politica senza rappresentanza sociale». Insomma, il rischio è che ci si chieda «per chi facciamo le battaglie». Ecco perchè, propone il ministro del Prc, «bisogna individuare quattro-cinque battaglie da portare avanti sia sulla Finanziaria, sia in Parlamento come campagna nel Paese, altrimenti gli unici a fare lavoro di massa saranno le destre e il Pd». La viceministra agli Esteri Sentinelli indica la sua battaglia: quella per i fondi alla cooperazione internazionale. «Per il 2008 la Finanziaria dispone solo allo 0,21% del Pil: il Dpef prevedeva lo 0,33». Non basta, però per il sottosegretario allo Sviluppo Economico Gianni che non capisce «perché non si proceda subito alla unificazione dei gruppi parlamentari». La conclusione è meno catastrofica: «In alto i cuori, non stiamo bene, ma ancora non siamo nel burrone...».

di Stefano Bocconetti da Liberazione del 16 ottobre 2007

Nessun commento: