giovedì 28 giugno 2007

Referendum, tutti gli inganni

Vi sono stati referendum, come quelli sul divorzio o sull’aborto, ove il quesito era chiaro e i cittadini conoscevano perfettamente le conseguenze del proprio «sì» o del proprio «no». E vi sono stati referendum, come quello sul nucleare, ove l’oscurità del quesito e la tecnicità della materia non consentivano di comprendere appieno il portato della propria scelta. Mai, tuttavia, si era assistito, come nel caso odierno, a un’iniziativa referendaria che chiede sostegno promettendo risultati del tutto opposti a quelli che, se approvata, effettivamente produrrà. L’affermazione non deve sorprendere. Quali che siano le buone intenzioni dei promotori, il quesito referendario non porta rimedio ai principali difetti dell’attuale legge elettorale. Non abolendo le liste bloccate, mantiene la selezione degli eletti interamente nelle mani delle segreterie dei partiti lasciando i cittadini spogliati di qualsiasi ruolo. Non garantendo in alcun modo che Camera e Senato non abbiano maggioranze contrapposte, non assicura condizioni di reale governabilità. Non eliminando il premio di maggioranza, non riduce la frammentazione e non contribuisce a superare la mancanza di coesione e di omogeneità delle attuali coalizioni. Quest’ultimo punto merita un approfondimento perché investe l’unica vera innovazione introdotta dal quesito referendario: lo spostamento del premio di maggioranza dalla coalizione vincente alla lista più votata. I promotori del referendum affermano che ciò darebbe avvio a significative aggregazioni e a una riduzione nel numero dei partiti, e che dando una maggioranza di seggi alla lista vincente il potere di ricatto dei piccoli partiti verrebbe spazzato via e l’omogeneità delle maggioranze di governo garantita. Purtroppo, niente di meno vero. La logica della competizione elettorale costringerebbe infatti i maggiori partiti a non competere da soli, ma a promuovere la formazione di liste sempre più ampie e inclusive: sulla scheda elettorale avremmo così non il Partito democratico ma la lista dell’attuale Unione con tutte le sue articolazioni e divisioni, e nel centro-destra non un grande Partito moderato ma l’attuale Cdl con tutte le sue tensioni interne. In altre parole, assisteremmo al formarsi di due «listoni» in nulla diversi dalle due attuali coalizioni, con l’aggravante di aver reso permanenti due schieramenti profondamente disomogenei e perciò incapaci di dar vita a maggioranze di governo coese ed efficaci. Al loro interno continuerebbero infatti a convivere in maniera conflittuale tutti gli attuali partiti. Nessuna riduzione nel loro numero, dunque, e un sostanziale aggiramento degli sbarramenti elettorali. Siamo così al paradosso di un referendum che, osteggiato dai piccoli partiti, in realtà non ne diminuisce minimamente l’utilità marginale e quindi il potere di ricatto; e che, promosso per ridurre la frammentazione del sistema, in realtà la consolida: un referendum, insomma, avversato da chi lo dovrebbe appoggiare, e promosso invece da chi lo dovrebbe osteggiare. La vittoria del «sì» al referendum non rimarrebbe comunque senza conseguenze. Essa segnerebbe infatti la fine di ogni possibile posizione autonoma di Lega e Udc: è dunque facile comprendere le ragioni politiche che spingono An e Forza Italia a sostenere il referendum, mentre è incomprensibile che esso possa trovare appoggio anche in alcuni settori dei Ds e tra i prodiani. Infine, grazie al voto popolare, essa consoliderebbe la pessima legge Calderoli impedendone per lungo tempo qualsiasi modifica. Quanto è dunque certo è che il referendum produce risultati del tutto opposti a quelli promessi. Molti tra i sostenitori del referendum gli attribuiscono almeno il merito di stimolare il Parlamento a modificare la legge elettorale. Se - come appare probabile - dovesse invece provocare una crisi di governo e nuove elezioni, anziché svolgere tale meritoria funzione esso porterebbe a votare nuovamente con la pessima legge Calderoli, e a riprodurre condizioni di ingovernabilità. Bene faranno, dunque, quanti hanno a cuore le sorti della Repubblica a non dare il proprio sostegno al quesito referendario.

di
STEFANO PASSIGLI da La Stampa del 27 giugno 2007

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