venerdì 13 luglio 2007

Caro Emanuele, ma quanto è socialista il Pse (conversazione con Fausto Bertinotti)

Macaluso: «Come sempre, la sinistra arriva agli appuntamenti decisivi senza un suo progetto. Proviamo a ragionare in termini generali. In Italia, lo Stato sociale non si è formato sulla base di un progetto. La Dc è sempre stata al governo, poi i socialisti hanno portato altre istanze, l'opposizione comunista altre ancora. E c'era un sindacato forte. Senza una strategia complessiva, è venuto fuori un Stato un po' sociale, un po' caratterizzato da forme di assistenza cui non corrispondo diritti. E oggi? Oggi la sinistra gioca di rimessa, perché un suo progetto di riforma non ce l'ha, proprio come quando era all'opposizione. Il suo deficit fondamentale è questo. Sei d'accordo? ».

Bertinotti: «Condivido l'istanza di fondo che tu proponi, la necessità di un progetto della sinistra in Europa per delineare il nuovo compromesso sociale, i guai che derivano dalla sua assenza. Ma non sono molto d'accordo con te sul fatto che la sinistra, nel dopoguerra, in Italia non abbia avuto una sua proposta. Lo Stato sociale ha avuto un elemento di ispirazione comune che si ritrova nel fondamento costituzionale nel primo e nel terzo articolo della Costituzione: la cittadinanza e il welfare dovevano essere costruiti sul lavoro, lungo un processo nel quale il riconoscimento dei diritti dei lavoratori tende a diventare universale. In realtà, ci sono tre compromessi che danno ragione del carattere empirico del nostro welfare che tu indicavi. Il primo: tra la cultura del movimento operaio e la cultura cattolica. Il secondo: tra il Nord e il Sud del Paese, anche sulla base, certo, di quella miscela di diritti e assistenza di cui tu parlavi. Il terzo: tra pubblico e privato. Naturalmente non è tutto così lineare. Un esempio: ancora negli anni Settanta c'era un sistema pensionistico duale tra pubblico e privato, nel pubblico si poteva andare in pensione dopo 15 anni, sei mesi e un giorno. Quindi è evidente che ci sono delle aporie in quella costruzione. Ma, sintetizzando, un lineamento progettuale c'era, aveva il suo perno nel rapporto tra lavoro e cittadinanza, viveva con l'idea dell'espansione dei diritti, cioè di un meccanismo inclusivo che aveva al centro la figura dei lavoratori. E lo dimostrano tanti passaggi, dal Piano del lavoro della Cgil al confronto sulle riforme di struttura allo Statuto dei diritti dei lavoratori. La sinistra era divisa, ma una forte esigenza di proposta la aveva. Questa capacità entra in crisi quando quella lunga stagione muore con una sconfitta: il ciclo economico fordista-taylorista arriva alla fine, finiscono le lotte operaie di massa che avevano contestato quel ciclo acquisendo potere contrattuale, e i rapporti politici del dopoguerra (quelli costituzionali fondati sulla grande forza del Pci, del Psi e della Dc) finiscono anche loro, grosso modo con l'assassinio di Moro. Quello che dici tu succede dopo questo crollo. Da quel momento non c'è più una capacità progettuale. E non c'è più, adesso lo so che tu mi sgridi, perché la progettualità viene sostituita dalle compatibilità. Non dico che il problema delle compatibilità non esiste. Dico che la sinistra comincia a litigare - quando litiga - sul grado di compatibilità da accettare. Questo ti fa apparire come la sinistra del no, quando esisti. E, quando non esisti, sembri un esercito di mandarini di Bruxelles, tanti Almunya, uno che dice: queste sono le mie tabelle e questo è il risultato, poco importa se le persone e le classi scompaiono. L'economia si riduce a compatibilità. E questo farebbe saltare sulla sedia non solo Bertinotti, ma anche un riformista come Federico Caffè. Come diceva Claudio Napoleoni, certo che c'è il vincolo esterno, la concorrenza, le compatibilità, il mercato. Ma ci deve essere anche il vincolo interno che sei tu a dover introdurre, con la politica»

Macaluso: «Non c'è dubbio che il riferimento alla Costituzione sia stato fondamentale, ma anche prima della Costituzione, penso alle grandi lotte per la terra messe in moto dai decreti Gullo del 1944, un'idea di Italia c'era. Bisognava cancellare i rapporti semifeudali nelle campagne certo per dare giustizia ai contadini e ai braccianti, ma anche per aprire la via alla modernizzazione. Io ho sempre rifiutato l'idea che quella stagione si sia conclusa con una sconfitta: quelle lotte diedero un colpo alla vecchia classe dirigente baronale, promossero un mutamento sociale, un avvento di nuove soggettività nella vita sociale e nella vita politica. Lo stesso miracolo economico degli anni Sessanta sarebbe stato impossibile senza la cancellazione di quegli elementi feudali. Ecco perché parlo di modernizzazione. Anche il Piano del lavoro era un progetto, e che progetto! Al congresso della Cgil del '49 Di Vittorio, rivolgendosi ai suoi braccianti pugliesi, diceva: “badate, se nel contratto otteniamo degli investimenti per la trasformazione delle terre possiamo cedere qualcosa sul salario”. Ed erano salari da fame. Ma, questo è il punto, Di Vittorio aveva una idea complessiva del lavoro e della società. Il problema si complica negli anni successivi. E riguarda le riforme di struttura come leva per il socialismo. Uno sviluppo guidato dallo Stato attraverso le nazionalizzazioni, il sostegno alla piccola e media industria in un progetto antimonopolistico: questa era, in sintesi, la via italiana al socialismo. Quindi le riforme erano funzionali a un progetto. Certo, non era tutta farina del sacco italiano: c'era una visione mondiale anticapitalista e antimperialista, l'Urss, per quanto potesse non piacerci, in questa lotta era comunque considerata un baluardo contro il capitalismo. La progettualità di cui tu parli viveva dentro questo schema. Ma, siccome questo mondo è crollato, io voglio porti due questioni. La prima: di fronte a tanti radicali mutamenti nel mondo (quelli che con una parola magica vengono chiamati globalizzazione), la sinistra ha riproposto una sua strategia dopo che è caduta quella di cui abbiamo parlato sin qui, e che pure i suoi risultati li aveva portati? Io, te lo dico molto brutalmente, penso di no, e il problema non riguarda solo te e Rifondazione comunista, ma tutta la sinistra, in primo luogo quella che ha avuto più responsabilità e della quale ho fatto parte. E aggiungo: qual è il ruolo dello Stato? Sparisce e tutto è affidato al mercato? Ma se non c'è lo Stato non c'è la politica, come diceva la buonanima di Gramsci. La seconda questione che voglio porti è questa: la mia generazione, quella che assunse la guida del Pci tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ha una grande responsabilità. Dopo la Cecoslovacchia, avrebbe dovuto porre con una diversa energia il problema del rapporto con l'Urss. E non l'ha fatto non perché non avesse consapevolezza di cosa fosse l'Unione sovietica, ma perché, come ho detto, continuava a considerarla, con tutti i suoi limiti, un baluardo anticapitalista. Ora, Fausto, ti dico una cosa essenziale. Ho l'impressione che voi state commettendo lo stesso errore: un errore di tempi. Bada che se le svolte non si fanno in tempo si pagano, eccome, le conseguenze. Noi abbiamo pagato le nostre contraddizioni. Oggi, o si fa una sinistra di governo che per la sua forza o, come dici tu, per la sua massa abbia un progetto e sia in grado di imporlo, oppure non c'è speranza, nel senso che le forze liberiste, conservatrici domineranno. Sai che considero un errore il Partito democratico perché è una risposta sbagliata, anzi sbagliatissima, all'esigenza di costruire una autentica forza riformista. Ma mi preoccupa il quadro che si va delineando: da un lato il Pd che esce dal socialismo europeo e non rappresenta un soggetto riformista forte, ma solo una contraddizione forte, dall'altro quella che chiamano la sinistra radicale, anch'essa fuori dal socialismo europeo. Così si riproduce per l'ennesima volta l'anomalia italiana, che non è uno straordinario laboratorio di novità per l'Europa e per il mondo, ma un disastro. Il disastro di un Paese con una sinistra debole, e quindi subordinata, fuori dalla famiglia del socialismo europeo».

Bertinotti:
«Anche le parti del mio ragionamento che sono diverse dalle tue convergono su un punto che è, allo stesso tempo, una premessa analitica e un dover essere. Se le cose vanno avanti così, si rischia di non avere più una sinistra in Europa e in Italia. O meglio, si rischia di avere tante versioni che si dicono di sinistra e che però sono ininfluenti nei grandi processi, poiché sono o senza classi o senza voti. Chi ha i voti non ha come riferimento un'idea di società. Chi tenta una ricerca alternativa non ha il consenso. E quindi hai ragione tu: la subalternità è determinata dal fatto che o non ci sei o sei fuori gioco. Il problema della ricostruzione della sinistra in Italia c'è. Ripartiamo dalla scansione che hai usato. Io la forzo così, in tre grandi cicli della storia del dopoguerra italiano. Il primo ciclo è quello dell'uscita dall'arretratezza del capitalismo italiano. Hai ragione tu: le lotte sociali e le lotte di riforma contribuiscono, al di là dell'esito diretto della contesa, al processo di modernizzazione del Paese. Questo è possibile perché il Paese parte da una base di arretratezza del capitalismo e anche perché gli attori che entrano sulla scena - penso anche al protagonismo di una borghesia emergente soprattutto nel Nord che tende già a porsi fuori da questo quadro - hanno un orientamento comune. Le nuove classi dirigenti che escono dalla Resistenza hanno come tratto comune una politica keynesiana. Nel piano del lavoro se ne vedono bene le tracce. Ma io ricordo pure un libro di Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica dello spirito del capitalismo, in cui la critica al capitalismo è radicale fino al punto da configurare una incompatibilità tra il cattolicesimo e il capitalismo e da assumere la chiave di intervento keynesiano come possibilità della costruzione del compromesso. Il quadro cambia quando il capitalismo italiano si trasforma in quello che sarà chiamato neocapitalismo. Non possiamo rifare sul Riformista l'undicesimo congresso del Pci, tuttavia quel congresso illustra bene un simile passaggio. Le riforme di struttura ne costituiscono lo sfondo politico e culturale. C'è un grande ventaglio di posizioni, anche contrapposte. Ma è un grande confronto, che certo non si può comprendere se si guarda solo, o soprattutto, ai legami con l'Urss. Anzi, il tentativo è di tornare a pensare, gramscianamente, alla rivoluzione in Occidente. Bada: questo dibattito, in forme diversissime, si affaccia anche nelle socialdemocrazie. In Svezia il piano Meidner mette in discussione del primato della proprietà privata. In Germania, nonostante il Muro, Brandt dice che la socialdemocrazia non può essere considerata l'officina di riparazione del capitalismo. Quindi, nessun provincialismo. Ma che cosa accade? Quasi per eterogenesi dei fini, le riforme di struttura, impensabili senza il traguardo del socialismo, in Italia danno luogo, sostanzialmente, a un compromesso socialdemocratico. Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma della scuola media, il potenziamento dell'industria pubblica come laboratorio di innovazione si realizza qualcosa di molto simile a quello che si sta realizzando negli altri Paesi europei. E questa è la seconda fase, quella dell'età dell'oro, che vivrà tensioni anche durissime ma verrà definitivamente sepolta, con il crollo dei paesi dell'Est, da una grande sconfitta: la mondializzazione e la finanziarizzazione dell'economia, la crisi dei partiti e dei sindacati. È qui, secondo me, che si apre il terzo capitolo. Se chiamiamo “capitalismo arretrato” il primo, e “neocapitalismo” il secondo, il terzo lo possiamo chiamare, facendo nostra per comodità una formula ricorrente, “turbocapitalismo”. Il punto che ora ti vorrei proporre è questo. Nella prima fase innovazione e progresso stavano insieme. Perché Di Vittorio poteva dire una frase come quella che tu ricordavi malgrado le retribuzioni fossero così basse? Perché vedeva, nella crescita economica, la possibilità di un elemento redistributivo. Nella seconda fase, questa relazione comincia a entrare in dubbio. Nella terza, invece, è evidente che innovazione e progresso non stanno più insieme. Oggi, se non c'è la politica, l'innovazione produce diseguaglianza e crisi della coesione sociale. Non voglio ingigantire parlando di guerra e di terrorismo, ma l'innovazione è diventata levatrice di cose rischiose. E non voglio nemmeno passare per catastrofista, ma anche la catastrofe è nell'ordine delle cose possibili. Su questo dovrebbe misurarsi la politica. Ed è molto difficile, perché se ieri si poteva tenere la barra sul socialismo per fare il compromesso socialdemocratico (come diceva Vittorio Foa “bisogna essere rivoluzionari per poter fare le riforme”), oggi, se la sinistra non ha un progetto economico e sociale anche le operazioni redistributive diventano impossibili. Per rinascere, la politica deve organizzare un'idea di società. Capisco che la cosa dà i brividi, ma io penso che il tema della fuoriuscita dalla società capitalista nel tempo del “turbocapitalismo” è il tema ineludibile della politica. La seconda questione che tu poni è: sinistra di governo. Ma cosa vuol dire “di governo”? Per una forza politica che non voglia essere minoritaria il governo è una possibilità. Ma l'accesso al governo non può essere la variabile indipendente della sua esistenza. Tu parli del Partito socialista europeo. Io ti dico: Emanuele, guardiamoci attorno. Mentre si insiste sul Partito del socialismo europeo, si rafforzano le caratteristiche nazionali dei partiti socialisti. Anzi, mi verrebbe da dirti: guarda che il socialismo europeo ha avuto come locomotiva, negli ultimi anni, una cosa che è assai difficile chiamare socialista, la Terza via. Prima Blair, poi anche Schroeder, hanno introdotto una discontinuità radicale con la socialdemocrazia, la rottura con i sindacati. Nel momento in cui si esaurisce la Terza via, perché uno esce di scena e l'altro perde, vedo nascere sotto nomi diversi fenomeni non così dissimili. Siamo così sicuri che Ségolène Royal sia così diversa da Walter Veltroni dal punto di vista delle politiche proposte? Tu parli di socialismo europeo. Io vorrei capire di che si tratta, perché io vedo una propensione che qui prende la forma del Partito democratico ma che altrove continua a chiamarsi socialista ma che mette in discussione fortemente l'impianto socialdemocratico. Bada, io penso che i socialisti francesi abbiano perso malgrado Ségolène, non per colpa di Ségolène. Lei dal punto di vista elettorale ha funzionato: donna, immagine, ascolto, populismo dolce. Però la mancanza di una idea di società l'ha fatta perdere».

Macaluso: «Vorrei farti delle osservazioni. La prima è sul rapporto tra partito e movimenti, che riguarda il passaggio dalla seconda e la terza fase, ma anche l'oggi. Il Pci raccoglieva il consenso di quel mondo. Altrimenti non si spiega il 34 per cento del '76. Anche oggi questo tema, che a mio giudizio voi avete affrontato malissimo nel congresso di Venezia, pensando di fare il partito dei movimenti, è importante. È il problema dell'egemonia: ovvero se un partito è in grado o no di raccogliere le istanze dei movimenti e farle diventare interesse generale. Oppure se debba identificarsi con i movimenti. Io penso che in quella fase il Pci ebbe la capacità di tenere conto dei movimenti (né li respinse né si identificò in essi) e questo produsse un'avanzata. Quanto all'inconciliabilità tra innovazione e progresso che caratterizzerebbe il presente, la tua affermazione mi sembra schematica. Per me non è così. Perché qui entra, o dovrebbe entrare in ballo la politica, come hai detto anche tu. Ma se c'è un partito forte della sinistra con un progetto politico questa inconciliabilità può essere contrastata, altrimenti no. Io non penso, caro Fausto che il capitalismo sia l'ultimo capitolo della storia. Io non so quale sarà, l'ultimo capitolo. Penso però che la battaglia per la trasformazione o, per usare un altro termine, per la civilizzazione del capitalismo sia una sfida tuttora aperta. Il problema è la processualità, la gradualità dell'azione politica. D'altronde, non mi pare che siamo alla vigilia di una rivoluzione, e non lo pensi nemmeno tu: dunque, la processualità è la sostanza della politica riformista nel senso vero della parola, perché le riforme non sono una camicia di forza da mettere alla società, ma strumenti per risolvere i problemi. Veniamo al socialismo europeo. I partiti socialdemocratici non sono tutti uguali: una cosa è stato Blair, una cosa diversa è Brown, un'altra ancora sono Schroeder o Zapatero. E poi, questi partiti sono stati in grado di stare all'opposizione. Sono partiti di governo nel senso che governano quando hanno una proposta in grado di ottenere la maggioranza e quindi di coinvolgere anche forze di centro. E sono partiti in grado di governare società complesse e caratterizzate da forti disomogeneità, come quelle attuali. Non sono d'accordo con il nesso che stabilisci tra questi partiti e il Pd. Il Pd non riesce a trovare una posizione chiara su un punto cruciale: non c'è separazione tra i processi di liberalizzazione economica e i processi di liberalizzazione della società. Nei Paesi europei la sinistra si è fatta carico di diritti che la modernizzazione ha posto in termini diversi rispetto al passato. I partiti di Blair e di Zapatero, ma anche i socialisti francesi, o svedesi, hanno fornito delle risposte. Il Pd invece non potrà darle sui temi dei diritti. Ed è chiaro che sto parlando anche della laicità, che non c'entra nulla con il vecchio anticlericalismo ma riguarda istanze legate alla modernità».

Bertinotti: «Diversamente da te, penso che dobbiamo ereditare un elemento critico nel rapporto tra Pci e movimenti. È vero, come dici tu, che i movimenti hanno aiutato il Pci fino a fargli raggiungere il 34 per cento, ma secondo me non è vero che il Pci abbia aiutato i movimenti. Anzi, laddove questi andavano a sbattere direttamente sulle compatibilità sono stati frenati, o impediti, o non capiti. Pensa solo a un'esperienza come quella della Flm, a un grande sindacato operaio costruito su un'unità che ne cambiava la fisionomia organizzativa con i consigli, che è stato guardato con sospetto e frenato, sbarrando così l'unica via possibile per realizzare l'unità sindacale in Italia. E oggi? Si possono discutere le forme e i contenuti del movimento che i francesi chiamano altermondista, ma che questo sia il primo movimento post-novecentesco secondo me non c'è dubbio. Lo dico in modo rozzo: è evidente che la grande costruzione del rapporto tra partiti e movimenti che si inaugura con la crescita di potenti Stati nazionali, nel momento in cui una dimensione sovranazionale della politica diventa così rilevante in qualche modo deve cambiare. E questo movimento propone secondo me una critica non solo della globalizzazione capitalistica, ma anche delle forme della politica della sinistra. Scusa la formula: propone una uscita da sinistra alla crisi della sinistra. Questo è un problema che abbiamo da vent'anni. Si può dire che dalla Bolognina in poi, Bolognina compresa, la questione se da quella crisi bisognasse uscire da destra o da sinistra - anche qui: scusa la semplificazione - è un problema non risolto. E io penso che bisogna proporsi l'uscita da sinistra non per volontarismo, ma per la natura stessa dei processi di oppressione in atto. A questo punto torno a convergere con te. Anch'io, come te, non conosco l'ultimo capitolo della storia che, secondo me, semplicemente non c'è. E per dirti che qui c'è un punto di convergenza, non tiro in ballo Kautsky, il programma massimo e il programma minimo, ma provo a indicare una prospettiva che, secondo me, non può che fondarsi sull'idea di trasformazione della società. Lo dico sempre con rozzezza: l'idea dell'introduzione di elementi di socialismo mi sembra più interessante per l'oggi delle stesse riforme di struttura. Che cosa sono i beni comuni se non un elemento di socialismo? La questione dell'intervento pubblico nell'economia è ancora fondamentale. Allora ti propongo di assumere nella valutazione dei partiti socialdemocratici, invece che una sorta di pregiudiziale favorevole (non abbiamo mai avuto una socialdemocrazia in Italia, è ora di farla) un'analisi di come le diverse forze socialdemocratiche si sono venute evolvendo o involvendo. Mi chiedo se si possa davvero oggi parlare in Europa realmente di forze socialdemocratiche. Certo, tutte le formazioni socialiste e socialdemocratiche hanno un tratto in comune, l'importanza attribuita ai diritti delle persone non solo dal punto di vista della laicità ma prima ancora da quello dell'esistenza sociale dell'uomo moderno. Ma riconoscerai che questo elemento, seppure importante, non basta a definire una formazione politica di sinistra. Per essere di sinistra, come diceva Bobbio, non si può prescindere dall'uguaglianza…».

Macaluso:
«Ma io sono d'accordo. Una forza di sinistra che non ha come bussola la tendenza all'uguaglianza non è una forza di sinistra. Anche questi diritti fanno parte di questo. Ripeto “anche”…».

Bertinotti: «Sì, ma il problema dell'uguaglianza si deve coniugare con il tema dell'altro, cioè con quello della condizione sociale. E su questo i partiti socialisti contemporanei sono di fronte a un fallimento evidente. Aggiungo: le società contemporanee oltre al tema della libertà e dell'uguaglianza pongono il tema della violenza, e in particolare di quelle forme estreme di violenza che sono la guerra e il terrorismo. Riconoscerai che Blair ha sì saputo cogliere l'elemento dei diritti della persona, ma è entrato in rotta di collisione con i movimenti pacifisti. Quindi continuo a ritenere, malgrado tutto, che un buon assetto per il futuro in Europa sia quello di pensare non a una ma a due sinistre in grado, allo stesso tempo, di competere e convergere. Due sinistre che siano in grado, anche nella sfida, di esplorare questi terreni nuovi. In questo senso penso che la sinistra di alternativa possa costituire un elemento importante non per puntare al massacro dei riformisti, che non solo non è pensabile ma non costituirebbe nemmeno un bene, ma per introdurre una dialettica diversa da quella che abbiamo conosciuto».

di EMANUELE MACALUSO da il Riformista del 13 luglio 2007

Nessun commento: