«Quel che mi riesce impossibile da capire, è la distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Nessuno propugna più la rivoluzione contro le riforme, o sbaglio?». Comincia con una domanda dell’intervistato, l’intervento di Giorgio Ruffolo - uomo della cultura di programma socialista - nel dibattito sulla «sinistra smarrita». Replica alla domanda: Lei sa bene che tutto dipende dalla parola stessa: riformismo. C’è chi la tira di qua e chi di là. Da destra da sinistra, e magari in termini di schieramenti di “nuovo conio”, vedi Rutelli...». «Vero - dice Ruffolo - e allora chiariamo. Riformismo, da sinistra, non è certo assecondare gli equilibri esistenti. Bensì farli evolvere in avanti. Modificando i rapporti di forza tra i ceti sociali». Non significa perciò assecondare il capitalismo? «No, vuol dire fare avanzare tutti. Introdurre giustizia democrazia, regole per l’ambiente. E promuovere i bisogni sociali. E poi il capitalismo non è una forza naturale eterna. Benché si sia rivelato imbattibile nel produrre ricchezza, fino ad oggi».
Dunque Professore, la sinistra ha una missione specifica? «Sì, emancipativa! Opposta alla subalternità rispetto agli assetti dati, pur dentro compatibilità realistiche. È su questo che si misurano la destra e la sinistra. Non in relazione a criteri ideologici o topografici. Tipo: a sinistra contro l’America, a destra a favore. A sinistra con gli arabi, a destra contro...». Bene, ma facciamo qualche esempio concreto. La sinistra deve difendere uno stato sociale universalistico, o modellarlo secondo le esigenze dell’impresa privata? «Lo stato sociale universalistico - per la sinistra - è irrinunciabile. Tutti hanno diritto ai servizi fondamentali, senza i quali non ci sono né persone né diritti. Né eguaglianza, né libertà. Ben per questo Jospin diceva: economia di mercato sì, società di mercato no. Slogan ancora buono, da sottoscrivere. Il problema è come trovare le risorse, in una situazione in cui la pressione fiscale è avvertita come intollerabile». Giusto, ma evasione fiscale a parte, non è certo di sinistra togliere ai poveri... per dare ai poveri. Come si vuol fare con le pensioni: diminuendo i rendimenti e alzando l’età pensionabile. Ai danni dei lavoratori che versano i contributi, e col pretesto di voler finanziare formazione e ammortizzatori sociali. «Le rispondo così. Sulle pensioni s’è fatto dell’allarmismo, visto che l’età media effettiva del pensionamento in Italia non è lontana da quella europea. Tuttavia un problema di riequilibrio, tra base contributiva e allungamento della vita media, esiste. E in fondo quello trovato dal centrosinistra al governo mi pare un buon compromesso: allungamento dell’età lavorativa, spalmato gradualmente. Che rispetta i diritti acquisiti, e guarda agli equilibri di bilancio. Il punto però resta: come finanziare il nuovo welfare, oltre alle pensioni?». Già, come? «Credo che la soluzione stia nel “welfare market”, cioè nell’adottare una modalità cooperativa e associativa nel campo dei servizi. Insomma: l’impresa sociale-privata. Che può scaricare lo stato da molti oneri, e integrarlo». La prendo in parola, Professore. Ma perché allora non estendere lo schema anche all’economia privata? Magari senza illudersi di dover fare finanza cooperativa, sganciata da fini mutualistici... «Credo che il movimento cooperativo resti un’idea-forza della sinistra, oltre che una grande realtà economica figlia della tradizione socialista. Ma va detto che l’impresa privata classica ha un motore più forte, senza i vincoli di quella cooperativa. Ottima quest’ultima sul territorio, nella distribuzione, ma ancor più promettente nel campo chiave della solidarietà: i servizi sociali. È in questa direzione che va spinta, non in quella di un’improbabile competizione sul piano finanziario, che rischia di snaturare la mutualità e di renderla irriconoscibile. Aggiungo: inutile voler entrare nel salotto buono della finanza. Si finisce col confondere le regole dell’economia con il ruolo della politica. E una politica di sinistra non deve mescolarsi con l’economia, bensì guidarla e regolarla».
Veniamo a un tema classico, keynesiano e di sinistra: la piena occupazione. La sinistra deve promuoverla, o contentarsi di un lavoro perennemente flessibile e precario, da plasmare e «formare» alla bisogna? «No, la piena e buona occupazione deve essere obiettivo primario per una vera sinistra. Altrimenti facciamo del lavoro una merce come un’altra. Mentre è una questione di dignità, di identità. Che non tocca solo la sfera dello scambio e della prestazione materiale, ma l’intero arco delle relazioni umane. Sicché il mio criterio è il seguente: graduare la flessibilità a seconda delle età della vita. Vi sarà quindi un periodo di apprendimento e di flessibilità, nella vita di ciascuno. Che alla fine culminerà, o dovrebbe culminare, in un lavoro stabile, frutto di esperienze diversificate. Oltretutto un lavoro perennemente precario, non aiuta un’economia di qualità». Torniamo al capitalismo. Tra i suoi Mantra c’è la «concorrenza». E però c’è chi come Sarkozy - da destra! - espunge quell’imperativo dalla Costituzione europea. Che ne pensa? «Sarkozy, uomo abilissimo ed egemonico, fa benissimo a demistificarne l’aura sacrale. Anche da sinistra si può, e si deve dire: la concorrenza è un mezzo. Un vincolo di cui tener conto. Non l’obiettivo supremo di una società giusta».
E ora parliamo del Partito democratico, verso il quale parte della sinistra si avvia. Lei - che all’inizio fece parte del Comitato dei tredici per il manifesto inaugurale - ne è uscito subito. Come mai? «Perché mi sono accorto che su temi chiave il Pd era elusivo. Il primo è quello della collocazione internazionale del nuovo partito. Un problema esistenziale, rimasto inevaso. Chiedo: dove si schiererà il Pd in Europa? Non basta dire che si muoverà tra i demo-liberali e i socialisti. Che allargherà le frontiere. No, la sinistra europea che conta è il socialismo europeo. E senza tale ancoraggio, la nuova creatura sarà fragile e incerta. Il secondo punto di dissenso concerne la mancanza di un vero orizzonte progettuale. Che tipo di società propugna il Pd? Quali finalità generali? Quale economia? Tutto questo non è chiaro, benché la nuova leadership di Veltroni abbia reso più credibile questa scommessa, infondendole maggiore autorevolezza e incisività». Scusi Professore, ma il Pd non inclina verso un forte ridimensionamento del ruolo del lavoro, come asse del blocco sociale di riferimento? Massimo Cacciari per esempio, dice che privilegiare il lavoro dipendente è «reazionario», a fronte delle nuove figure sociali emergenti... «Guardi, sappiamo bene che la geografia sociale si è arricchita e che il lavoro è mutato! Ma Cacciari sbaglia, se pensa che il profilo del lavoro coincida con quello dell’individualismo di mercato, fatto di tante figure che scambiano le loro prestazioni. Ciò non corrisponde al peso maggioritario del lavoro dipendente. E non è nemmeno accettabile come paradigma etico». Ultima questione, l’Europa. La si è magnificata, caro Ruffolo. Ma appare sempre più come un recinto di scambi, finanza e regole monetarie. Domanda: che cosa ha fatto il socialismo europeo per fare dell’Europa una potenza democratica sovranazionale? «Senza dubbio pochissimo. E se consideriamo che fino a pochi anni fa erano 13 i governi a guida socialista su 15, allora il Pse deve prendersela solo con se stesso». Il Pse avrebbe dovuto contrastare gli alti tassi della Bce e promuovere così politiche di piena occupazione? «No, la Banca centrale fa il suo mestiere: controlla il tasso di inflazione. Il punto è un altro. Ci sarebbe voluta una politica economica in grado di attrarre capitali, per farne il volano di uno sviluppo forte. Parlo di grandi progetti infrastrutturali, per canalizzare risorse e farle fruttare in termini di indotto e opportunità di investimento. Era l’idea di Jacques Delors: del tutto dimenticata! E poi non è questione di Euro forte o meno. Semmai di come usare l’Euro forte. E qui che l’Europa e la sinistra sono mancate. Totale assenza di politiche industrali ed economiche...».
E la laicità, professore, non è un altro dei punti dolenti del Pd? «Giusto, quasi ce ne dimenticavamo. È un altro dei punti inevasi del Pd. E anche qui, è questione di dignità. Dignità del lavoro, della vecchiaia, delle donne, dei giovani, dei deboli. E dignità dei non credenti. Non mi pare che sia risultata centrale, negli intenti del Pd. E si tratta di una questione non negoziabile sul piano dei principi». Insomma professor Ruffolo, malgrado i suoi «paletti», il Pd sembra averla delusa per ora, o no? «Io gli auguri a Veltroni li ho fatti. Lui può farcela, a prescindere dalla ridda dei conflitti interni ed esterni sulla strada del Pd. Quanto all’essere deluso, non posso esserlo... Perché è da tanto tempo che non mi illudo più».
di BRUNO GRAVAGNULO da l'Unità del 28 luglio 2007
Dunque Professore, la sinistra ha una missione specifica? «Sì, emancipativa! Opposta alla subalternità rispetto agli assetti dati, pur dentro compatibilità realistiche. È su questo che si misurano la destra e la sinistra. Non in relazione a criteri ideologici o topografici. Tipo: a sinistra contro l’America, a destra a favore. A sinistra con gli arabi, a destra contro...». Bene, ma facciamo qualche esempio concreto. La sinistra deve difendere uno stato sociale universalistico, o modellarlo secondo le esigenze dell’impresa privata? «Lo stato sociale universalistico - per la sinistra - è irrinunciabile. Tutti hanno diritto ai servizi fondamentali, senza i quali non ci sono né persone né diritti. Né eguaglianza, né libertà. Ben per questo Jospin diceva: economia di mercato sì, società di mercato no. Slogan ancora buono, da sottoscrivere. Il problema è come trovare le risorse, in una situazione in cui la pressione fiscale è avvertita come intollerabile». Giusto, ma evasione fiscale a parte, non è certo di sinistra togliere ai poveri... per dare ai poveri. Come si vuol fare con le pensioni: diminuendo i rendimenti e alzando l’età pensionabile. Ai danni dei lavoratori che versano i contributi, e col pretesto di voler finanziare formazione e ammortizzatori sociali. «Le rispondo così. Sulle pensioni s’è fatto dell’allarmismo, visto che l’età media effettiva del pensionamento in Italia non è lontana da quella europea. Tuttavia un problema di riequilibrio, tra base contributiva e allungamento della vita media, esiste. E in fondo quello trovato dal centrosinistra al governo mi pare un buon compromesso: allungamento dell’età lavorativa, spalmato gradualmente. Che rispetta i diritti acquisiti, e guarda agli equilibri di bilancio. Il punto però resta: come finanziare il nuovo welfare, oltre alle pensioni?». Già, come? «Credo che la soluzione stia nel “welfare market”, cioè nell’adottare una modalità cooperativa e associativa nel campo dei servizi. Insomma: l’impresa sociale-privata. Che può scaricare lo stato da molti oneri, e integrarlo». La prendo in parola, Professore. Ma perché allora non estendere lo schema anche all’economia privata? Magari senza illudersi di dover fare finanza cooperativa, sganciata da fini mutualistici... «Credo che il movimento cooperativo resti un’idea-forza della sinistra, oltre che una grande realtà economica figlia della tradizione socialista. Ma va detto che l’impresa privata classica ha un motore più forte, senza i vincoli di quella cooperativa. Ottima quest’ultima sul territorio, nella distribuzione, ma ancor più promettente nel campo chiave della solidarietà: i servizi sociali. È in questa direzione che va spinta, non in quella di un’improbabile competizione sul piano finanziario, che rischia di snaturare la mutualità e di renderla irriconoscibile. Aggiungo: inutile voler entrare nel salotto buono della finanza. Si finisce col confondere le regole dell’economia con il ruolo della politica. E una politica di sinistra non deve mescolarsi con l’economia, bensì guidarla e regolarla».
Veniamo a un tema classico, keynesiano e di sinistra: la piena occupazione. La sinistra deve promuoverla, o contentarsi di un lavoro perennemente flessibile e precario, da plasmare e «formare» alla bisogna? «No, la piena e buona occupazione deve essere obiettivo primario per una vera sinistra. Altrimenti facciamo del lavoro una merce come un’altra. Mentre è una questione di dignità, di identità. Che non tocca solo la sfera dello scambio e della prestazione materiale, ma l’intero arco delle relazioni umane. Sicché il mio criterio è il seguente: graduare la flessibilità a seconda delle età della vita. Vi sarà quindi un periodo di apprendimento e di flessibilità, nella vita di ciascuno. Che alla fine culminerà, o dovrebbe culminare, in un lavoro stabile, frutto di esperienze diversificate. Oltretutto un lavoro perennemente precario, non aiuta un’economia di qualità». Torniamo al capitalismo. Tra i suoi Mantra c’è la «concorrenza». E però c’è chi come Sarkozy - da destra! - espunge quell’imperativo dalla Costituzione europea. Che ne pensa? «Sarkozy, uomo abilissimo ed egemonico, fa benissimo a demistificarne l’aura sacrale. Anche da sinistra si può, e si deve dire: la concorrenza è un mezzo. Un vincolo di cui tener conto. Non l’obiettivo supremo di una società giusta».
E ora parliamo del Partito democratico, verso il quale parte della sinistra si avvia. Lei - che all’inizio fece parte del Comitato dei tredici per il manifesto inaugurale - ne è uscito subito. Come mai? «Perché mi sono accorto che su temi chiave il Pd era elusivo. Il primo è quello della collocazione internazionale del nuovo partito. Un problema esistenziale, rimasto inevaso. Chiedo: dove si schiererà il Pd in Europa? Non basta dire che si muoverà tra i demo-liberali e i socialisti. Che allargherà le frontiere. No, la sinistra europea che conta è il socialismo europeo. E senza tale ancoraggio, la nuova creatura sarà fragile e incerta. Il secondo punto di dissenso concerne la mancanza di un vero orizzonte progettuale. Che tipo di società propugna il Pd? Quali finalità generali? Quale economia? Tutto questo non è chiaro, benché la nuova leadership di Veltroni abbia reso più credibile questa scommessa, infondendole maggiore autorevolezza e incisività». Scusi Professore, ma il Pd non inclina verso un forte ridimensionamento del ruolo del lavoro, come asse del blocco sociale di riferimento? Massimo Cacciari per esempio, dice che privilegiare il lavoro dipendente è «reazionario», a fronte delle nuove figure sociali emergenti... «Guardi, sappiamo bene che la geografia sociale si è arricchita e che il lavoro è mutato! Ma Cacciari sbaglia, se pensa che il profilo del lavoro coincida con quello dell’individualismo di mercato, fatto di tante figure che scambiano le loro prestazioni. Ciò non corrisponde al peso maggioritario del lavoro dipendente. E non è nemmeno accettabile come paradigma etico». Ultima questione, l’Europa. La si è magnificata, caro Ruffolo. Ma appare sempre più come un recinto di scambi, finanza e regole monetarie. Domanda: che cosa ha fatto il socialismo europeo per fare dell’Europa una potenza democratica sovranazionale? «Senza dubbio pochissimo. E se consideriamo che fino a pochi anni fa erano 13 i governi a guida socialista su 15, allora il Pse deve prendersela solo con se stesso». Il Pse avrebbe dovuto contrastare gli alti tassi della Bce e promuovere così politiche di piena occupazione? «No, la Banca centrale fa il suo mestiere: controlla il tasso di inflazione. Il punto è un altro. Ci sarebbe voluta una politica economica in grado di attrarre capitali, per farne il volano di uno sviluppo forte. Parlo di grandi progetti infrastrutturali, per canalizzare risorse e farle fruttare in termini di indotto e opportunità di investimento. Era l’idea di Jacques Delors: del tutto dimenticata! E poi non è questione di Euro forte o meno. Semmai di come usare l’Euro forte. E qui che l’Europa e la sinistra sono mancate. Totale assenza di politiche industrali ed economiche...».
E la laicità, professore, non è un altro dei punti dolenti del Pd? «Giusto, quasi ce ne dimenticavamo. È un altro dei punti inevasi del Pd. E anche qui, è questione di dignità. Dignità del lavoro, della vecchiaia, delle donne, dei giovani, dei deboli. E dignità dei non credenti. Non mi pare che sia risultata centrale, negli intenti del Pd. E si tratta di una questione non negoziabile sul piano dei principi». Insomma professor Ruffolo, malgrado i suoi «paletti», il Pd sembra averla delusa per ora, o no? «Io gli auguri a Veltroni li ho fatti. Lui può farcela, a prescindere dalla ridda dei conflitti interni ed esterni sulla strada del Pd. Quanto all’essere deluso, non posso esserlo... Perché è da tanto tempo che non mi illudo più».
di BRUNO GRAVAGNULO da l'Unità del 28 luglio 2007
Nessun commento:
Posta un commento