martedì 10 luglio 2007

Se la sinistra riparte dall'eguaglianza

Un lavoro enorme attende la sinistra italiana – quel che ne rimane in piedi: la ricostituzione di un patrimonio culturale degno di questo nome. Non solo i concetti (che già non è poco), ma i sogni, le emozioni, le speranze, la capacità di discorso e di persuasione. "Beffato il mio amore, congedata la mia fantasia: di tutto il passato non mi resta che il dolore»: i versi dell´"Addio alla corte" di Walter Raleigh sembrano proprio scritti per lei.
E poiché si deve pur cominciare da qualche parte, proveremo a fare un esempio: un piccolo appunto per i nostri cari quarantacinque saggi impegnati a dare un´anima al Partito democratico, ma anche per gli amici che non condividono questo progetto, e che lavorano a costruire la "Cosa rossa". Parleremo dell´idea di eguaglianza (ne abbiamo fatto cenno, qui su "Repubblica", discutendo di socialismo): una bandiera dell´occidente, sin dal pensiero antico ("il nome di tutti più bello": così Erodoto, nel cuore del quinto secolo a. C. – e si stava riferendo all´"isonomia", alla legge eguale per tutti). Una bandiera che la modernità avrebbe consegnato, con diverso successo, al fuoco di due rivoluzioni: prima quella francese, e poi quella russa.
Oggi sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà): messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo, non meno che dall´onda del capitalismo totale che sta dominando l´orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo, ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno, per riuscire a sottrarre il futuro che ci aspetta alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l´intreccio titanico fra scienza e mercato, nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisure rispetto alle quali le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più di un pallido preludio.
Le nuove diseguaglianze non hanno origine – come quelle di una volta – sul terreno della produzione in senso stretto, del conflitto fra capitale e lavoro – insomma dell´economia classicamente intesa – anche se continueranno ad apparire, alla fine, come enormi disparità di ricchezza e di status. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie o distributive, disparità "di accesso": generate non direttamente dall´economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l´avanzamento tecnologico e il suo uso sociale (in ultima analisi, fra tecnica e democrazia: sono penetranti a questo riguardo le obiezioni che mi muove Ernesto Galli della Loggia). E riguarderanno per prima cosa il rapporto fra destino individuale e possibilità di disporre in maniera adeguata delle tecnologie da cui dipenderanno sempre di più la costruzione e la conservazione della nostra identità: le tecniche alla guida dei processi conoscitivi in tutti i campi del sapere, della circolazione e della gestione dell´informazione, dello stesso statuto biologico di ciascuno di noi - qualcosa di enormemente più complesso di ciò che oggi chiamiamo "salute", o diritto all´integrità del proprio corpo.
Per fronteggiare l´aggressività di queste asimmetrie abbiamo bisogno di elaborare – da un punto di vista teorico e istituzionale – una nozione radicalmente nuova di eguaglianza: davvero di rifare il lavoro che a suo tempo svilupparono Rousseau e Marx. Di elaborarne un´idea non più statica, chiusa e solo patrimonialistica, come mera redistribuzione della ricchezza prodotta, o peggio ancora (ma quasi nessuno ci pensa più, ormai) come mitico risultato di un´inesistente economia speculare rispetto a quella capitalistica. Un´idea non più intrinsecamente e irriducibilmente anti-competitiva, del tipo di quella che tuttora domina nella cultura sindacale e nel mondo della scuola italiani (per molte, e in parte anche nobili ragioni storiche, che sono ormai però diventate relitti inservibili, dietro i quali si annidano sfacciatamente ottusi privilegi corporativi). Ma in grado di convivere con il mercato e con le sue scelte, per quanto dure, partendo dalla consapevolezza che la forma di merce non è né "naturale" né eterna, e prima o poi sarà sostituita da qualcos´altro; e però è in questo momento, nel suo intreccio con la tecnica, il più importante motore di sviluppo di cui disponga la civiltà umana su questo pianeta: e occorre saper accettare realisticamente questo dato di fatto.
In altri termini, e in positivo: un´idea dinamica e aperta di eguaglianza come potenzialità di accesso e come trasparenza e controllo condiviso sull´allocazione delle tecnologie. Un´eguaglianza che sappia assumere come suo orizzonte politico, per la prima volta nella storia, l´interezza della specie, senza eccezioni, e sappia preservarne – ancora a lungo, quantomeno – la sua unità biologica, ereditata dalla selezione naturale. Un´eguaglianza mai in atto, mai bloccata (come nelle vecchie formule: a ciascuno secondo i suoi bisogni, o i suoi meriti – roba da fine della storia), ma sempre relativa e in divenire, per l´umanità in trasformazione. Un´eguaglianza come parità nella mobilità – spaziale e sociale –, nella fluidità – delle posizioni, delle carriere, delle conoscenze –, nella permanente rimessa in gioco di ogni acquisizione. Un principio in grado di produrre diversità, specificità, differenze: proiettato sull´infinito, immagine mobile di una soglia che tutti possono raggiungere, ma anche tutti superare.
Abbiamo ereditato dai nostri classici una distinzione capitale: quella fra un´eguaglianza formale, politica e giuridica, e un´eguaglianza sostanziale, sociale ed economica. Rousseau ancora la ignorava, ma Marx, sviluppando Hegel, l´ha enfatizzata oltre ogni limite. Nel tentativo di passare dall´una all´altra, la modernità ha sbattuto più volte la testa, provocando orrendi disastri. Credo sia venuto il momento di prendere congedo da lei. Il mondo che ci aspetta integra rischiosamente i piani, non li separa. Eguali di fronte alla legge ed eguali di fronte alla tecnica (e alle sue proiezioni economiche) sono ormai due facce dello stesso problema. Venirne a capo è il compito di un nuovo umanesimo. Ed è qui che siamo arrivati.

di ALDO SCHIAVONE da La Repubblica del 10 luglio 2007

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