domenica 29 luglio 2007

La Chiesa non detti legge

Il Paese è pronto, le istituzioni no: Umberto Veronesi riassu­me senza troppi giri di parole il dibattito in corso sul testamen­to biologico. E la vera ragione della paralisi decisionale sui temi che vengono definiti "eticamente sensibili" è il veto che dai palaz­zi d'Oltretevere riecheggia nelle stanze della politica.
Il professore, con la franchez­za che gli è propria, dice sostan­zialmente che nessuno, da una parte e dall'altra, vuole fare nulla «che non piaccia al Vaticano». Problema che, in verità, nel cen­trosinistra riguarda in particolar modo il Partito democratico di Walter Veltroni, leader invece apprezzato dall'ex ministro della Sanità che ha voluto, con altre personalità, sostenere l'appello "Fare un'Italia nuova". Quanto alla presenza nel Pd di un'ag­guerrita componente teodem, il "tecnico" Veronesi è drastico: «Sono contrario a tutte le limi­tazioni ideologiche delle grandi scelte individuali».

In Italia, sono maturi i tem­pi per discutere di una legge sul cosiddetto testamento biologico? E' -come sostie­ne il senatore Ignazio Ma­rino - un ar­gomento che appassiona la gente?
A giudica­re dalla quan­tità di italiani che mi hanno scritto – da quando due anni fa la mia Fondazione ha iniziato la campagna a favore del testamento biologi­co - direi di sì. La popolazione ha reagito immediatamente alla campagna di informazione e so­no molte migliaia le persone che continuano a rivolgersi alla Fon­dazione per avere informazioni e sapere che fare. Il Movimento che ne è nato, formato da giuri­sti, uomini di cultura e membri della società civile, è stato così forte da indurre appunto il Par­lamento alla discussione di una legge. Forse non possiamo dire che l'argomento "appassiona" , ma possiamo affermare che cer­tamente culturalmente i tempi sono maturi, anche perché il pro­blema dei trattamenti di fine vita è sempre più evidente e urgente. Oggi negli ospedali ci sono casi che vengono alla ribalta, come quello di Eluana Englaro, e ce ne sono molti altri che riman­gono silenti. Quanti? Decine o centinaia? E come vengono ge­stiti, ufficialmente non sempre si sa. E' dunque giunto il momento di affrontare il problema. A non essere pronta è piuttosto la poli­tica e le istituzioni in senso lato. Non è del resto il primo e unico esempio di un dibattito etico-scientifico affossato per ragioni ideologiche e partitiche.

Il testamento biologico è parte integrante del program­ma dell'Unione: cosa pensa del dibattito parlamentare in corso al Senato in Commissione Sa­nità: è possibile arrivare a un risultato?
Vi sono ormai una decina di proposte per una legge, tutte simili e tutte in linea con le legislazioni di molti altri Paesi. Ma il dibattito si perde in mille discus­sioni su dettagli che sembrano voler nascondere la vera ragione della paralisi decisionale: una legge sul testamento biologico non è gradita dalla Chiesa, e anche a sinistra, come prima a destra, non si vuole fare nulla che non piaccia al Vaticano.

Per alcuni la discussione po­litica sul testamento biologico è l'occasione per alzare il velo sul "fine vita", per altri è uno «spre­co di tempo» su una legge di importanza secondaria, o anco­ra un mezzo per introdurre un «abbandono terapeutico» non distante dall'eutanasia (Avve­nire). Perché è, invece, necessa­rio secondo lei colmare questa lacuna normativa?
Intanto va detto che il testa­mento biologico può ammettersi ed essere considerato valido, già oggi nel nostro ordinamento. In primo luogo per l'articolo 32 della Costituzione, sotto il profilo della liceità degli atti di disposi­zione del corpo e dell'integrità personale che rispettano i limiti di legge, così come della tutela della privacy e del potere di au­todeterminazione in una materia che tocca profondamente la li­bertà e il destino della persona. In secondo luogo perché è la logica estensione del consenso informato che è obbligatorio in Italia.

Ma a quanto pare non è suf­ficiente.
Una legge è opportuna per­ché oggi il testamento biologico come espressione di volontà ha la possibilità di essere preso in con­siderazione soltanto attraverso un passaggio ma deontologico, vale a dire se i medici curanti ravvi­sano nelle terapie che dovrebbe­ro essere praticate il carattere di "cure inappropriate", in quanto il malato è giunto alla fine della vita e non può guarire. Si tratta evidentemente di un criterio di­screzionale (la decisione di so­spendere le cure può cambiare da medico a medico ed è difficilissima da prendere) e quindi si avverte l'esigenza di una legge che tuteli l'inalienabile diritto del malato a prender parte alla deci­sione di come morire. Una legge sarebbe utile anche per i medici, perché li aiuterebbe a prendere le decisioni tenendo conto delle volontà del malato. Anzi dei valori del malato. Non dimentichiamo che il testamento biologico non esprime una decisione precisa del paziente (io voglio-non voglio quella cura) ma appunto un valo­re (io voglio-non voglio una vita artificiale). Dunque la decisione terapeutica vera e propria rimane al medico, che però, in presenza di un testamento biologico, deve tener conto anche del progetto di vita del malato.

La questione testamento biologico divide e crea tensioni anche nel costituendo Partito democratico in cui si incontra­no sensibilità differenti (mi rife­risco in particolare ai cosiddetti "teodem"): che effetti potrebbe avere?
In teoria non dovrebbe, per­ché la Chiesa è contro l'accani­mento terapeutico e non ha nulla contro il consenso informato. «Uno Stato laico non può ob­bligare un malato a vivere contro la sua volontà, attaccato a una macchina; per chi non l'accetta è un'imposizione che si avvicina alla tortura»: sono le parole, mol­to coraggiose, di Vito Mancuso, teologo del San Raffaele. Certo, il principio laico della "responsabilità della vita", che ispira il testamento biologico e gli altri atti a favore del­l'autodeterminazione del malato, non si concilia con il principio di "sacralità della vita" proprio della Chiesa cattolica: Dio da la vita e Dio la toglie. Tuttavia se pensia­mo che il testamento biologico altro non è che l'estensione logica del consenso informato alle cure, il quale, tra l'altro, ribadisce le centra­lità dell'uomo sofferente di fronte ai progressi della tecnologie e della scienza biomedica, si potrebbe, sulla base di questo principio fondamen­tale, trovare un consenso fra forze laiche e cattoliche. Occorre però evitare la "politicizzazione" delle idee, cioè la trasformazione in stru­mento politico del credo personale, sia esso fede in Dio o nella Ragione.

In tema di diritti, come do­vrebbe vincere, secondo lei, la sfi­da delle riforme una maggioranza che si definisce "riformista"?
Basterebbe rispettare quelli fondamentali, che formano la base della società civile: libertà, la tolle­ranza e la solidarietà. Sono convin­to del diritto/dovere all'autodeter­minazione: penso che dovremmo essere liberi di ricercare il nostro benessere, di amare, di avere figli, di formarci o non formarci una fa­miglia, di avere cure mediche, una giustizia equa, un'istruzione ade­guata agli standard mondiali, al la­voro, alla procreazione responsabi­le, alla scelta del proprio domicilio, alla programmazione consapevole della propria vita, compresa la sua fine. Sono contrario a tutte le limitazioni ideologiche delle gran­di scelte individuali. Ovvio che la libertà del singolo deve conciliarsi con quella degli altri e qui entrano in gioco la tolleranza e la solida­rietà.

A proposito di limitazioni ideologiche, i dati dell'Istituto superiore di Sanità relativi ai pri­mi tre anni di applicazione della legge 40 parlano chiaro: la nor­mativa sulla procreazione assi­stita non funziona. Cresce la per­centuale dei trattamenti con esito negativo, aumentano gli aborti, si diffonde il fenomeno delle "mi­grazioni". Cosa si aspetterebbe a questo punto?
Il problema è profondo e la fe­condazione assistita è solo la punta di un iceberg. Ciò che vorrei è che il mondo politico prendesse coscien­za che il nostro Paese si trova in una situazione di rischio non solo di non-sviluppo ma addirittura di regressione, soprattutto per il clima culturale che si respira diffusamen­te, in cui il pensiero scientifico è vi­sto con sospetto, se non con timore, o addirittura con ostilità, e in cui serpeggia, più o meno subdola­mente, un movimento antiscienti­fico che potrebbe oscurare il futuro dei nostri figli e già sta oscurando il presente, come dimostrano appun­to i dati sulla legge 40.

Addirittura oscurare il futuro?
I fatti: nell'area della genetica non possiamo fare ricerca sulle cel­lule staminali embrionali e neppure sperimentare le enormi potenzialità degli ogni in agricoltura per ragioni ideologiche. Nell'area della medici­na non possiamo praticare le tec­niche più avanzate di fecondazione assistita, per le quali si è creato un flusso migratorio, riservato ai più ricchi, verso i Paesi con una legisla­zione più evoluta. Sembra che l'Ita­lia stia chiudendo ideologicamente le frontiere alla scienza e il risultato è che i più ricchi non rinunciamo al progresso e vanno oltre le frontiere. Basta pensare a quanti giovani (non certo di famiglie povere) vanno a studiare all'estero dove la scuola è più innovativa. E' giusto aggiunge­re privilegi a privilegi condannando il resto del Paese a diventare, come ha scritto Enrico Bellone, «un'ap­pendice turistica del mondo civile»? Per questo ciò che c'è da aspettarsi veramente non è tanto, o non solo, una revisione della legge 40, ma un atteggiamento politico diverso nei confronti della scienza in generale.

Si fa un gran parlare dì an­tipolitica o nel migliore dei casi di insofferenza verso una classe politica poco in sintonia con la "gente". Il dibattito sui temi che riguardano la sfera dei diritti potrebbe essere un modo per ridare smalto e cre­dibilità alla politica?
Il Paese è dispera­tamente alla ricerca di una guida intellettuale e si avverte un grande biso­gno di un movimento che veda nella forza della ragione la guida e l'orientamento per il suo sviluppo. Certo il dibattito sui di­ritti civili potrebbe essere una via, ma dovrebbe essere libero dai con­dizionamenti ideologici e teologici che possano limitare l'espressione dei grandi valori di cui parlavamo prima: libertà, tolleranza e solida­rietà. La mia impressione, come ho già detto, e che il Paese è pronto, ma le istituzioni no.

Lei è stato per un non breve periodo ministro della Sanità, recentemente ha scritto (Repubbli­ca) che aveva elaborato un piano che non è mai stato realizzato. Cosa porta con sé di quell'espe­rienza trascorsa nei palazzi della politica?
Mi riferivo al piano per l'am­modernamento del sistema ospedaliero italiano, che prende spunto dal concetto di ricollocare il pa­ziente al centro della cura. La mia esperienza politica come ministro della Sanità per poco più di un anno è stata molto illuminante sulla necessità di continuare ad aumen­tare la consapevolezza della gen­te, di combattere l'immobilismo ideologico e di creare un cultura della scienza, non solo biomedica. Ho avuto conferma che è impor­tante parlare e far parlare delle ma­lattie, cioè saper comunicare con chi è malato e saper sensibilizzare chi non lo è. Anche per questo ho cercato di favorire l'introduzione di una materia che riguardasse la salute, gli stili di vita, nelle scuole. Quando ho steso la legge contro il fumo di sigaretta nei luoghi pub­blici, nel 2000, ce stata una note­vole reazione negativa da molte parti, ma con il dialogo e l'infor­mazione le cose sono cambiate e, quando la legge è stata approvata dal Parlamento alcuni anni do­po, la popolazione era maturata e l'applicazione è stata integrale e indiscussa.

Insomma, il primo mostro da combattere è la non conoscenza?
Credo sia fondamentale par­lare nelle scuole di tumori, Aids, droghe, alimentazione, attività fììisica. La vera prevenzione è la co­noscenza, l'informazione. Nozioni semplici, spiegate laddove risulti­no complesse, ma che creino nel giovane, adulto poi, l'interesse ver­so la prevenzione e la possibilità di conoscere le malattie, come evitar­le o procrastinarle. L'informazione è fondamentale per aiutare tutti i cittadini a comprendere e ad ascol­tare il linguaggio della scienza e a diventare così protagonisti consa­pevoli delle scelte che riguardano la propria salute e quella dei propri cari. Significa anche tenere vivo, a livello sociale, il dibattito cultura­le sui grandi dilemmi umani da sempre legati al progresso della scienza, senza il quale, l'abbiamo detto, non c'è futuro.

di RAFFAELLA ANGELINO da La Rinascita dellla Sinistra del 26 luglio 2007

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