venerdì 6 luglio 2007

La crisi della politica esiste ma non bisogna fermarsi alla rappresentazione che ne danno i media

I segnali di crisi della politica sono sempre più evidenti e anche i processi di degenerazione delle istituzioni non sembrano affatto rifluire. Eppure c'è qualcosa di regressivo nelle infuocate requisitorie contro la "casta". Nient'affatto innocente sembra l'ossessione di grandi poteri mediatici ed economici che diffondono l'idea tendenziosa che nelle condizioni attuali la politica sia un potere forte, da ridimensionare per sprigionare le grandi energie compresse nella società italiana. E se pro-prio in questa pretesa del meccanismo unico economico-mediatico di ricondurre la sfera pubblica ad una sua docile variabile si nascondesse una delle radici più profonde della catastrofe dell'agire politico?
E' del tutto evidente che media e denaro hanno gli strumenti e i luoghi per imporre un pensiero unico sull'economia che bolla come deviante, come insostenibile archeologia chiunque si azzardi a ripensare a un ruolo del pubblico. Non c'è giornale che, in nome di fantomatiche agende "riformiste", non si scagli contro sindacati e partiti che resistono alla integrale riduzione del politico a tecnica di risanamento sprovvista di altre finalità rispetto a quelle già preconfezionate dalle agenzie monetarie. Modeste misure di redistribuzione del tesoretto vengono subito stigmatizzate come obsolete reminescenze massimaliste. Aggettivi d'altri tempi (radicale, massimalista, passatista, irresponsabile, antinazionale) accompagnano le scelte di chi mantiene saldo un riferimento alla sinistra europea. La vera posta in gioco è proprio questa. Sui fini della città a decidere è la politica o la tecnica?
Ci sarà anche una "casta" con persone ben retribuite ad ogni livello ma a stabilire chi deve guidare gli schieramenti sono proprio i grandi media che con i sondaggi rigonfiano il leader sul quale investire e condannano gli altri all'oblio. Questa condizione di estremo sfaldamento dei soggetti collettivi è la malattia mortale della democrazia ma costituisce l'eldora-do per l'immenso concentrato di media e denaro che muove le leve del-la finanza, attiva i meccanismi arcani del consenso ipotetico misurato dai sondaggi. Che l'impresa e i media si impadroniscano di quello che Max Weber chiamava "lo spirito letterario in politica", e comincino a inseguire il sogno di una politica senza soggetti collettivi e senza un fi-siologico tasso di professionismo, è solo il brutto segno dei tempi. Le potenze dell'economia, attratte dall'antipolitica come facile verbo, inse-guono il mito arcaico di una città senza più opzioni valoriali in cui i tecnici, gli imprenditori o il leader mediatico prendono il posto di un ceto politico dipinto come parassitario, costoso, ricco e sfaticato.
Il vero punto di sofferenza della democrazia non è di per sé l'esistenza di un ceto politico che gode di privilegi ingiustificati. Il nodo reale è che la politica nelle istituzioni diventa una professione lucrosa in as-senza di strutture collettive, di soggetti organizzati, di momenti perma-nenti di azione politica. Il professionismo senza partiti è questo il vero tema scottante, che però i censori della casta si guardano bene dal ri-marcare. Certi atteggiamenti, certe pratiche di vita di notabili locali abili nel reperire risorse, nello stringere alleanze solide con impresa e finanza per garantirsi carriere interminabili sarebbero impensabili in presenza di normali canali di partito. La casta è nient'altro che il frutto avvelenato dell'estrema personalizzazione della politica scaturita dal re-pentino tramonto dei partiti soppiantati dai media. Questo è il dato di sistema senza cogliere il quale si cade solo in una inquisizone generica e qualunquista.
Proprio perché mancano partiti con una ideologia e con un pathos con-diviso nei militanti proliferano ovunque cariche elettive attratte da pro-spettive di carriera e da veloci ricompense di status. Vengono così a mancare momenti di autoosservazione dei partiti capaci di censurare sul nascere stili fastidiosi, atteggiamenti disinvolti di boss locali che dopo il tracollo delle ideologie si tramutano d'incanto in infaticabili accumulatori di ricchezza. La causa di queste tendenze all'involgarimento della funzione politica risiede nella proliferazione di partiti personali che si avvalgono di staff, di consulenti, di consiglieri e non rispondono più a nessun organismo collettivo. Se questa è la radice reale della crisi, i media hanno poco da gridare contro la casta. Sono proprio i media a reclamare il leader solitario e a combattere ogni figura di partito provvista di autonomia politica e culturale.
Una riforma della politica ha poco a che fare con le facili scorciatoie del populismo. Essa comincia proprio dalla ricostruzione di partiti più solidi come veicoli di partecipazione e dal recupero dell'idea di una po-litica come battaglia culturale provvista di un'idea di società. Una ripre-sa di autonomia di cultura politica, per i partiti equivale a uno straordi-nario sforzo per l'affrancamento dall'ipoteca sotterranea posta dalla fi-nanza e dai media. Un altro tassello di una politica rimotivata non potrà che essere la ricomparsa della funzione delle assemblee, sfibrate in questi anni di confuso leaderismo. Alla base della crisi della politica c'è anzitutto un problema di rappresentanza. Rappresentanza sociale e politica. Le assemblee sono state del tutto svuotate di ruolo per inseguire il mito del leader come solitario decisore. E' difficile, ma solo colmando questa voragine può ripartire una politica capace di democrazia.

di MICHELE PROSPERO

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