mercoledì 11 luglio 2007

Se vincono quelli del referendum l'Italia sarà in mano a un'oligarchia

Posso esprimere un (pio) desiderio? Il desiderio è che le cinquecentomila firme necessarie per la partenza del referendum Guzzetta non vengano raggiunte. E che dunque il referendum stesso venga clamorosamente (pre)bocciato dagli elettori. Del resto, è già sufficientemente scandaloso che mezzo milione di firme, che poi notoriamente non verranno mai davvero controllate, possano determinare una consultazione non solo costosa, ma assai pericolosa dal punto di vista democratico. Del resto, quello di cui si sta parlando è tutto fuorché un referendum abrogativo, come la Costituzione prescrive: è un referendum propositivo bello e buono, che ridisegna attraverso una nuova legge elettorale l'assetto futuro del sistema politico e della democrazia rappresentativa. Del resto, infine, esso viene presentato in termini mistificati e manipolatori: come una "lezione" da impartire, indiscriminatamente, alla classe politica, che è, certo anche con fondate ragioni, in uggia alla gran parte della popolazione. Il referendum - sia chiaro - è uno strumento importante e apprezzabile della dialettica tra "governanti" e "governati" ed è per questo che è stato costituzionalmente regolato: come una chance di cui cittadine e cittadini possono usufruire per abrogare leggi che non condividono, che sono diventate nel tempo ingiuste, che sono invecchiate. Come, insomma, una possibilità che la società civile, le persone normali, i non addetti ai lavori possono sfruttare per correggere i limiti, o gli errori, della rappresentanza. Perciò sulle leggi ordinarie è previsto soltanto il referendum abrogativo: accadde così, per la prima volta, nel mitico 1974, quando i Comitati civici proposero l'abolizione della legge che, all'inizio del 1971, aveva istituito il divorzio. Fu un grande momento di partecipazione e discussione di massa: perché riguardava la vita reale di tutti, e ciascuno, col suo Sì o col suo No, poteva decidere che tipo di famiglia voleva e, indirettamente, che tipo di rapporto tra Chiesa e Stato laico voleva. Ma, man mano che passavano gli anni, il referendum smarrì queste caratteristiche di grande coinvolgimento democratico, diventando per un verso un'arma di lotta politica come un'altra, e un terreno di scontro tra poteri per l'altro verso. Quest'ultima è la faccia reale del referendum Guzzetta: che è sostanzialmente un referendum dei poteri forti, oggi interessati a ridimensionare drasticamente la rappresentanza e a depotenziare la politica di massa. Il bersaglio apparente è la frammentazione del sistema, la proliferazione dei partiti, il potere di veto, o di paralisi, che gli stessi partiti tendono ad esercitare su qualsiasi meccanismo decisionale. Ma l'obiettivo reale è il partito inteso come aggregazione di soggettività, cultura, idee, persone, come luogo di partecipazione alla vita democratica - dunque, come "ingombro". E la strategia che hanno in testa i vari professori, o politici un po' isterici come il ministro Parisi, è quella di un maggioritario fondato su due "partiti" molto simili - due Grandi Centri di opinione, due Non Partiti, che competono tra di loro in una alternanza che non ha, come posta in palio, nessuna delle grandi scelte della politica, la collocazione internazionale, la guerra e la pace, la politica estera. Esse o sono definite via bipartisan, una volta per tutte, o spettano comunque ad altri - a chi governa, ai grandi potentati economici, alle tecnocrazie internazionali. Alle élites, gli "ottimati" capeggiati da Eugenio Scalfari. Guardateli bene, i promotori o i fans di questo referendum: appartengono tutti alle classi alte del Paese, sono professori che credono seriamente di poter spiegare a tutti (magari su "base scientifica") che cos'è il meglio per il Paese, sono un pezzo di governo e di Parlamento, sono torrefattori di un pur ottimo caffè purtroppo "prestati alla politica". Non c'è traccia di società civile, in questa corporazione oligarchica. Naturalmente, da questi promotori non poteva venire che un'idea, oltre a tutto il resto, astratta e inefficace. L'idea che il premio di maggioranza venga assegnato ad un solo partito, il più forte di una complessa coalizione, non ha in realtà né capo né coda - infatti, non esiste in alcun luogo del mondo. Inoltre, quand'anche questa ipotesi sciagurata venisse votata dagli elettori (stufi della politica castale, stufi di una politica che costa troppo, non in assoluto, ma per quello che riesce a produrre, stufi di veder passare un governo diverso dall'altro, sulla loro strada e scoprire che nella loro vita reale non cambia nulla), sarebbe relativamente facile aggirare il nuovo assetto, e dar vita, alle prossime elezioni, a maxi liste molto composite - al termine del nuovo rito, i partiti e i gruppi parlamentari potrebbero ricostituirsi in parlamento, ridotti sì, ma pur sempre esistenti. Del resto, solo un tal manipolo di "ottimati" può pensare davvero possibile il ridisegno dall'alto - attraverso la manipolazione del basso - dell'intero sistema politico. La frammentazione dei partiti, come sanno ormai anche i bambini, è un puro frutto maturo del sistema elettorale maggioritario, che ha trasformato in rendita di posizione ogni "pacchetto" elettorale minimamente consistente e ha massimizzato il potere di condizionamento di tutti - non solo dei partiti, ma delle correnti, delle subcorrenti feudali, delle lobbies, e così via. Nella famigerata Prima Repubblica, i partiti veri erano tre e i partiti rappresentati in parlamento non erano più di nove - e tutto questo sulla base di un sistema seriamente proporzionale. E poi? Poi i gruppi sono diventati quarantaquattro, nella scorsa legislatura - oggi sfiorano la trentina, ma soprattutto continuano a nascere. Quando nascerà il Partito Democratico, si scoprirà - il dibattito sulle liste e le candidature in corso è già illuminante - che non i piccoli, ma, appunto, il grande Piddì, che dovrebbe essere l'architrave della terza repubblica, è straframmentato al suo interno: veltroniani puri, veltroniani spuri, parisiani, bersaniani, postdiessini, postmargheritini, rutelliani, mariniani, popolari laici, popolari tiepidamente laici, lettiani, teodem, confindustriali. Quando e se nascesse il Partito unico delle destre, sarebbe all'incirca lo stesso. Insomma, non è la fine della frammentazione (che ha cause molto profonde e complesse, nella crisi della coesione sociale, nella fine delle grandi narrazioni novecentesche, nella corporativizzazione galoppante del tessuto sociale come politico e istituzionale) che sta a cuore ai referendari: è la fine della sinistra, intesa come forza protagonista. Negli Stati Uniti, del resto, c'è forse una sinistra politica al Congresso? No che non c'è. No che non ci può essere, finché è in vigore un sistema elettorale che è stato concepito per impedire alla sinistra di esistere come forza politica, istituzionalmente rappresentata, e per cancellare dall'architettura del sistema ogni possibile rappresentazione degli interessi sociali e di classe, a cominciare dal lavoro. Ma loro, quando parlano di democrazia, è lì che guardano - al paradiso americano. Dove vanno a votare in pochi, dove possono scegliere solo di che presidente morire, dove si può discutere di tante cose, tranne che quale società costruire. Che sogno, vero, ministro Parisi?

di RINA GAGLIARDI da Liberazione del 11 luglio 2007

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