venerdì 28 settembre 2007

Finanziaria, priorità alla giustizia sociale

La legge Finanziaria è lo strumento attraverso cui anno per anno prende forma la politica economica di ogni governo. Nondovrebbe essere così. Sulla manovra finanziaria vengono caricati oneri impropri, politici si intende, e le buone intenzioni di alleggerimento dal ruolo di «madre di tutte le leggi economiche» si sono fermate alle intenzioni.
Allora, a torto o ragione, i contenuti della manovra finanziaria sono inevitabilmente il test della coerenza delle scelte del governo e contemporaneamente la sua occasione per rispondere alle aspettative delle persone. Le aspettative sono molte e, a fronte di risorse limitate, si impongono scelte. Il segno di quelle scelte non può che essere guidato dall'idea di Italia che si ha in mente, e anche dall'idea di quali siano le vie da percorre per rilanciare il suo sviluppo.
Il documento che la sinistra ha consegnato a Prodi sulla manovra finanziaria si muove in questo solco. Ha in mente un'idea dell'Italia, propone allocazioni di risorse coerenti con quell'idea, indica dove reperire risorse aggiuntive, anche in questo caso perseguendo un'idea. I problemi di competitività del sistema Italia, sono fortemente legati alla dimensione delle sue imprese, al modello di specializzazione, alla scarsità (o assenza) di investimenti pubblici e privati su innovazione e ricerca. Qui c'è il primo segno da imprimere alla finanziaria: risorse sulla qualità, l'istruzione, l'innovazione e la ricerca; dunque lo sviluppo ambientalmente sostenibile. L'indice di disuguaglianza del paese rimane altissimo e in crescita, rendendo la nostra società sempre più polarizzata. Per questo la redistribuzione dei redditi ci vuole, non genericamente intesa, verso le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, ma anche verso gli incapienti. Con lo stesso approccio e con le stesse motivazioni si può migliorare il protocollo del 23 luglio (quale è il senso del tetto ai lavori usuranti? Perché rinunciare alla scelta netta di arginare la precarietà dei contratti a termine?), esercitando il ruolo proprio del Parlamento, senza venir meno al rispetto dovuto a quel grande evento della democrazia italiana che è la consultazione promossa dal sindacato conferderale. Altrettanto importante è dare il senso di una società capace di assumere la responsabilità collettiva di fronte ai cambiamenti della struttura sociale e alle nuove domande di rappresentanza: in questo senso il fondo per gli anziani non autosufficienti è una esigenza reale e non più rinviabile. Questo è il secondo segno da dare alla Finanziaria: giustizia sociale come priorità e al contempo condizione per lo sviluppo.
Ma il documento non indica soltanto il senso della direzione di marcia e gli obiettivi concreti da perseguire.
Avanza anche proposte per il reperimento di risorse: la tassazione delle rendite finanziarie al 20% come in Europa, i tagli agli sprechi della politica e alle spese militari; anche in questo caso indicando terreni di intervento concreti e coerenti con la nostra idea dell'Italia - che poi è quella del programma dell'Unione - della sua collocazione europea ed internazionale e soprattutto scegliendo l'etica pubblica come tema fondamentale su cui agire per restituire credibilità alla politica.
Molti oggi invocano lo spirito dell'Unione, della compattezza della maggioranza per ricostruire consenso intorno al governo Prodi. C'è una risposta più trasparente, adeguata, convincente, di merito, non ambigua e soprattutto precedente a quegli appelli, dei contenuti del documento della sinistra?
Ma come la mettiamo con le alleanze di nuovo conio?
C'è una proposta meno trasparente, meno adeguata e convincente, più ambigua e pretestuosa del battere moneta nuova, per rinsaldare l'alleanza che attualmente governa e, quindi, rendere più stabile il Governo stesso?

di TITTI DI SALVO da l'unità del 28 settembre 2007

giovedì 27 settembre 2007

Famiano Crucianelli: «Con la crisi fallirebbe anche la Sinistra di governo»

«Il fallimento del governo di centrosinistra, oltre che un fallimento per il nostro Paese, rischia di cancellare l’esperienza di centrosinistra». Famiano Crucianelli, esponente della Sd e sottosegretario agli Esteri, è preoccupato. «Io sono convinto che Veltroni potrà vincere quando verrà il momento, ma sono necessarie alcune condizioni elementari. La prima è che il governo di centrosinistra abbia fatto bene, la seconda che ci sia un programma chiaro, la terza è che si conservi la coalizione di centrosinistra».

Siamo davanti ad una maggioranza in cui i partiti si stanno fondendo e frantumando...
«C’è bisogno non solo di un atto di responsabilità politica, ma anche di un nuovo compromesso politico-programmatico. Mi auguro che con il 14 ottobre, finito il passaggio delle primarie del Pd, si possa riaprire una nuova fase di solidità del centrosinistra».

Il 14 ottobre saranno passati una decina di giorni dal referendum promosso dai sindacati...
«Quello è un altro passaggio decisivo Siamo davanti a un atto di grande democrazia sindacale. Certo mi auguro che questo atto possa vedere alla fine confermato l’accordo che il sindacato ha sottoscritto perché diversamente si arriverebbe ad un problema serissimo. Ma già la scelta di chiamare milioni di lavoratori a votare è stata la prima grande risposta al clima di malessere che va sotto il titolo di antipolitica».

Sd, Verdi, Pdci e Prc hanno visioni diverse sull’accordo. Prc e Pdci saranno in piazza il 20 ottobre...
«È noto che Sd non aderisce al 20 ottobre: ritengo sia una scelta saggia. Però il problema solleva una questione più generale, ed è cosa si fa a sinistra. Perché la nascita del Pd rappresenta un grande problema. Il problema che si è posto con lo scioglimento dei Ds è l’esistenza dell’autonomia, del pensiero, della cultura di una forza di sinistra. Eccola la grande sfida. Ma perché questa sfida si possa vincere occorrono alcune condizioni...».

Quali?
«La prima è che questa sfida a sinistra sappia coniugarsi con una cultura di governo. E poi è necessario che essa non sia un’operazione burocratica, che non sia la sommatoria di organizzazioni. Ma una vera costituente aperta a chi voglia rimettere mano alla costruzione di un processo unitario. Che sappia tenere insieme una cultura riformista di governo con quelle che sono le innovazioni e le spinte provenienti dai movimenti».

Questo nuovo processo richiederebbe tempi lunghi...
«Non sono affatto d’accordo. I tempi sono dettati dalla politica, non dai bisogni fisiologici di questa o quella organizzazione. Noi siamo dentro a una grande crisi della politica. E credo che la sinistra debba porsi il problema di come dialogare con milioni di cittadini e che non possa affrontare con tempi lunghissimi quella che è una situazione politicamente esplosiva».

Eppure la divisione radicali-riformisti esiste anche in questa componente. Diliberto chiede il ritiro dall’Afghanistan.
«La ricostruzione di un forte soggetto unitario a sinistra non è un pranzo di gala. Sarà frutto di un confronto e di una lotta politica a sinistra. Ma rinviare diplomaticamente questo appuntamento è suicida. Ritengo si dovrebbe avere una grande discussione aperta dove le opzioni politiche, programmatiche, gli orientamenti strategici, siano molto chiari ed esplicitati».

di EDUARDO DI BLASI da l'Unità del 27 settembre 2007

Per una cultura della pace e della non violenza: parteciperemo alla settimana della pace

La pace non è un lusso e la non violenza non è un semplice desiderio: sono un dovere. I dati contenuti nel Rapporto Annuale dell’Istituto di Ricerca per la Pace Internazionale di Stoccolma, pubblicati lo scorso mese di giugno dimostrano che le spese militari a livello globale nel 2006 hanno raggiunto uno nuovo picco con 1204 miliardi di dollari pari ad un aumento di 3,5% rispetto all’anno precedente, e che comportano un rialzo di 37% nei ultimi 10 anni. Le spese militari degli USA rappresentano circa la metà del totale con 529 miliardi di dollari. La Francia vi contribuisce con un aumento del 2,2% nel biennio 2006/2007. I trasferimenti di armamenti dall’Occidente (USA e Unione Europea) verso alcune regioni ad alta tensione dell’Asia centrale e nel Medio Oriente, sono aumenti in volume del 50% nel 2006. Alla faccia del Trattato di Non-Proliferazione che stabilisce che le cinque potenze nucleari (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e USA) devono abbandonare il nucleare. Nello stesso tempo gli altri paesi debbano rinunciare a sviluppare o acquisire armi nucleari anche se potranno accedervi per uso civile e pacifico (sic!).

Mentre si riapre questa nuova corsa al riarmo e si spendono cifre stratosferiche in armamento, milioni di esseri umani muoiono ogni anno di fame e di sete, di malaria o altre malattie banalmente curabili, di guerre e catastrofi ambientali. Basterebbe un decimo delle spese miliari annue cioè 135 miliardi di dollari all’anno così come stabilito dagli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio adottati dalle Nazioni Unite e ratificate da tutti gli stati. Serve una moratoria delle spese militare come primo passo verso una riconversione degli investimenti per creare uno sviluppo sostenibile in un mondo di pace. Sarebbe davvero un salto di qualità nell’affermarsi di una cultura della Pace e della Non violenza. Secondo l’ONU la cultura della pace è un insieme di valori, atteggiamenti, comportamenti e modi di vita che rifiutano categoricamente la violenza e prevenendo i conflitti con il dialogo tra individui, gruppi e stati.

Il tema della pace assieme a quello dello Sviluppo e dell’Ambiente sono questioni fondamentali dell’agenda politica globale. Sinistra Democratica nasce per far fronte ad un impegno politico articolato, una mobilizzazione democratica attorno a queste questioni che connotano l’impegno di una nuova sinistra del terzo millennio. Dunque la nostra identità di movimento ricalca il progetto e l’impegno politico per dar risposte di sinistra alle nuove sfide cui l’umanità si trova di fronte. Non si tratta di rievocazione ideologica di concetti astratti bensì la consapevolezza che siamo di fronte ad bivio e abbiamo poco tempo per reagire e evitare il disastro. Infatti, viviamo in un mondo caratterizzato da nuove sfide che non possiamo non vincere. Siamo nella cosiddetta “società globale del rischio” in riferimento ai rischi di implosione nucleare, di disastro ambientali e di implosione delle società moderne. Sono rischi concrete che derivano dalla crisi del capitalismo globale, una crisi profonda che se non viene risolta potrebbe avere effetti devastanti per la vita sul pianeta. Serve una mobilitazione straordinaria ed è per questo che Sinistra Democratica aderisce alla settimana della pace e partecipa con una propria delegazione alla marcia Perugia-Assisi.

di ALY BABA FAYE

mercoledì 26 settembre 2007

Alzare la tassazione sulle rendite finanziarie si può e si deve

Una domanda sorge spontanea di fronte alla dichiarazione del Presidente del Consiglio che da New York, dopo un incontro con il senatore Dini, annuncia che la Finanziaria non conterrà la aliquota unica del 20% come tassazione delle rendite finanziarie.
La domanda è: Perché no?

  • L’aliquota unica è prevista dal programma dell’Unione che recita testualmente “… prevedere la uniformità del sistema di tassazione delle rendite finanziarie a un livello intermedio tra l’attuale tassazione degli interessi sui depositi bancari (27%) e quella sulle altre attività finanziarie (12,5%), con l’esclusione dei redditi provenienti dai piccoli patrimoni”.
    La previsione non era casuale né isolata, ma si inseriva in una rivisitazione più generale del sistema di imposizione fiscale in modo da renderlo più efficace e soprattutto più equo. Quella parte del programma è stata poi tradotta nel disegno di legge A.C. 1762 presentato alla Camera il 4 ottobre 2006. Qui, nell’articolo 1 alla lettera (a) si prevede “la revisione delle aliquote delle ritenute sui redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria…, al fine della loro unificazione con la previsione di un’unica aliquota non superiore al 20%.”
  • L’unificazione delle aliquote così definite produrrebbe dunque un vantaggio per il rendimento dei conti correnti, strumenti di transito e deposito per le risorse della maggioranza dei cittadini senza peraltro penalizzare il piccolo risparmio in BOT per il quale si possono ipotizzare forme di salvaguardia.
  • Si tratterebbe di applicare peraltro ciò che le regole in vigore in Europa già realizzano, superando l’anomalia italiana che premia la speculazione italiana anche a scapito degli investimenti produttivi.
Ma esiste una quarta considerazione che porta alla formulazione della domanda iniziale.

  • L’introito previsto dalla relazione tecnica di accompagnamento della legge citata, nel caso di applicazione di aliquota unica, è di circa 2 miliardi di euro annui, introito utilissimo di fronte alla scarsità di risorse nota.
    Per fare un esempio, restituire il drenaggio fiscale ai lavoratori dipendenti e pensionati costa un miliardo.
    Alla domanda iniziale allora è probabile che si possa rispondere in diversi modi e peraltro la non attivazione del percorso parlamentare del disegno di legge citato poneva già interrogativi analoghi.
    L’unica risposta che non può essere data è quella che bolla come pretestuosa o radicale la richiesta di applicazione di quanto prima convenuto nel programma dell’Unione e poi tradotto nel disegno di legge citato.
    Forse si può sostenere che la richiesta di un neonato movimento senatoriale ostile al provvedimento è una richiesta pesante che il Presidente del Consiglio non può non ascoltare; confidando al contrario, esattamente all’opposto di ciò che mediaticamente viene veicolato, sulla lealtà al Governo della Sinistra. D’altra parte l’ostilità nei confronti dell’ aliquota unica per le rendite finanziare è palesemente ideologica perché non solo iniqua ma anche funzionale ad una politica economica sbagliata per il paese, che ha bisogno di crescere attraverso stimoli agli investimenti produttivi e non alla rendita.
    Complessivamente siamo di fronte ad una pesante zeppa sulla stessa ispirazione del programma cioè sulla visione del paese che l’Unione li aveva proposto.
    E questo è un problema grande.

Il vertice di maggioranza sulla Finanziaria ha il dovere di dare le risposte a noi e agli italiani che hanno votato per il Governo Prodi.

di TITTI DI SALVO del 25 settembre 2007

martedì 25 settembre 2007

In un clima da 1946, meglio votare alla tedesca

Il Partito democratico è stato pensato, voluto e propagandato come antidoto alla frammentazione, ma, nei fatti, accade il contrario: nei Ds e nella Margherita si sono verificate rotture, scissioni e nuovi micropartiti. Il Partito democratico nasce come asse solido e portante della maggioranza governativa ma si verifica il contrario: nell’Unione c’è solo disunione, è cresciuta la conflittualità tra la sinistra massimalista e l’Ulivo-Pd, si è esasperato il protagonismo dei Mastella, Di Pietro, Dini, Bordon ed è emersa una tentazione centrista in seno alla Margherita. Il caos nella seduta del Senato sulla Rai dice bene cos’è la solidità dell’asse riformista del Pd. La situazione politica quindi si è fatta più confusa e più evidente è l’ingovernabilità. Un quadro cui concorre l’opposizione di centrodestra, la quale non delinea un’alternativa credibile dato che si fonda solo sul ritorno del Cavaliere a Palazzo Chigi, con conseguenze largamente prevedibili e già sperimentate negativamente.
Berlusconi, quindi, continua a chiedere nuove elezioni e dal centrosinistra c’è chi gli dà una mano nel momento in cui si afferma che se cade questo governo si va al voto subito. L’hanno detto Prodi e D’Alema e più recentemente Fassino. Lo fanno, si dice, per scoraggiare le manovre centriste di Casini, Dini e anche di Rutelli. Le elezioni? E con quale legge elettorale? Solo degli irresponsabili possono chiedere crisi al buio o elezioni se non c’è più questo governo. Tutti parlano ignorando la Costituzione e il ruolo che essa assegna al capo dello Stato quando si apre una crisi e si prospetta lo scioglimento del Parlamento. Ma torniamo ai leader della maggioranza. Era stato Fassino, solo qualche settimana addietro, a dire che, anzitutto, occorre cambiare la legge elettorale e a vedere nel sistema tedesco la soluzione più adeguata agli attuali sviluppi della situazione politica. Non solo, ma per avviare questa revisione si indicava nell’Udc di Casini un interlocutore valido. Si tenga presente che anche Rifondazione comunista caldeggia questa soluzione. Cosa è cambiato in queste settimane? Si dice che ci sono “manovre centriste” per sostituire in prospettiva l’alleanza Pd-sinistra radicale. Questo sospetto la dice tutta sulla consistenza politica di un’alleanza prorogabile solo con un bipolarismo-coatto, che riprodurrebbe quello che abbiamo conosciuto: l’ingovernabilità per i due schieramenti. Riflettiamo tutti. Nel momento in cui si costruiscono nuove forze politiche (Pd, Costituente socialista, Cosa rossa), altre vogliono trovare un’identità (Udc), altre ancora sono in travaglio identitario (Fi-An), la proporzionale con sbarramento non è una verifica affidata agli elettori?
Dopo la Liberazione, i partiti si richiamavano ai loro antenati del pre-fascismo, e solo il voto nel 1946 ne definì la forza reale e il ruolo. La legge elettorale tedesca avrebbe il vantaggio di operare questa verifica, di non sperdere l’esigenza di una bipolarità e della governabilità. D’altro canto solo ridefinendo se stessi i partiti possono verificare le affinità anche per un progetto costituzionale, di cui tutti parlano e i cui esiti parlamentari sino ad oggi (a destra e a sinistra) sono falliti perché frutto del bipolarismo-coatto. È possibile in questo clima avviare una discussione serena e costruttiva su questi temi? È quel che noi tentiamo ancora con questa nota.

di EMANUELE MACALUSO da il Riformista del 24 settembre 2007

La Casta che promette e non sa mantenere

Cosa deve accadere, perché capiscano? Devono esplodere il Vesuvio, fallire l'Alitalia, rinsecchirsi il Po, crollare la Borsa, chiudere gli Uffizi, dichiarare bancarotta la Ferrari? Ecco la domanda che si stanno facendo molti cittadini italiani.
Stupefatti dalla reazione di una «casta» che, nel pieno di polemiche roventi intorno a quanto la politica costa e quanto restituisce, pare ispirarsi a un antico adagio siciliano: « Calati juncu ca passa a china», abbassati giunco, finché passa la piena.
Un giorno o l'altro la gente si rassegnerà...
Non sono bastati infatti mesi di discussioni su certi privilegi insopportabili di quanti governano a livello nazionale o locale, decine di titoli a tutta pagina di quotidiani e settimanali, ore e ore di infuocati dibattiti televisivi, code mai viste nelle librerie di lettori affamati di volumi che li aiutassero a capire. Non è bastata la sbalorditiva rimonta nella raccolta delle firme del referendum elettorale che dopo essere partita maluccio è arrivata in porto trionfalmente.
Non sono bastate le piazze stracolme intorno a Beppe Grillo e le centinaia di migliaia di sottoscrizioni alle sue proposte di legge di iniziativa popolare.
Macché: non vogliono capire. Non tutti, certo. Ma in troppi non vogliono proprio capire.
Lo dimostra, ad esempio, il bilancio appena varato della Camera dei deputati. Dove una cosa spicca su tutte: dopo tante dichiarazioni di buona volontà e pensosi inviti a rifiutare ogni tesi precostituita e sospirate ammissioni che alcuni «benefit » erano proprio indifendibili e solenni impegni a tagliare, le spese sono cresciute ancora. E ben oltre l'inflazione. Il palazzo presieduto da Fausto Bertinotti era costato nel 2006, quando i primi mesi erano stati gestiti dalla destra, 981.020.000 euro: quest'anno, alla faccia di quanti sostenevano che tutta la colpa fosse della maggioranza berlusconiana che aveva lasciato una «macchina » spendacciona, ne costerà 1.011.505.000. Con un aumento del 3,11 per cento: il doppio dell'inflazione.

Gli stipendi e gli affitti

Non basta. Nel 2008, stando alle previsioni del bilancio triennale, queste spese che già hanno sfondato (prima volta) la quota-choc di un miliardo di euro, cresceranno ancora. Fino a 1.032.670.000. Per impennarsi ulteriormente nel 2009 fino alla cifra sbalorditiva di 1.073.755.000. Sintesi finale: in soli tre anni i costi di Montecitorio, dopo tutto il diluvio di belle parole spese per arginare l'irritazione popolare, saranno aumentati del 9,2%. Con un aggravio sulle pubbliche casse di 92 milioni di euro in più rispetto al 2006.
Ricordate cosa avevano assicurato, per arginare la mareggiata di contestazioni, a proposito dello stipendio dei deputati? Che l'indennità, che stando alla politica degli annunci è già stata tagliata un mucchio di volte, sarebbe calata. Falso: costerà il 2,77 per cento in più: un punto abbondante oltre l'inflazione. E i vitalizi? Il 2,93 per cento in più. Per non dire delle retribuzioni del personale. Avete presente la denuncia dell'Espresso sulle buste paga dei dipendenti delle Camere? La scandalosa scoperta che un barbiere del Senato può arrivare a 133 mila euro lordi l'anno e cioè 36 mila euro più del Lord Chamberlain della monarchia inglese? Che un ragioniere della Camera può arrivare a 238 mila, cioè circa ventimila euro più dell'appannaggio del presidente della Repubblica? Bene: stando al bilancio di Montecitorio, il monte-paghe del personale costerà nell'anno in corso il 3,73 per cento in più.
Oltre il doppio dell'inflazione.
Quanto agli affitti per i palazzi a disposizione (insieme col Senato la Camera è arrivata, tra immobili di proprietà e in locazione, a 46) sono cresciuti del 6,6%: il quadruplo dell'inflazione. Eppure non è neppure questo il record. I traslochi e il «facchinaggio» erano costati nel 2006 la bellezza di 1.255.000 euro, con un rincaro di 45.000 euro sul 2005. Dissero: «Si è dovuta tenere in giusta considerazione la spesa aggiuntiva» dovuta alle «esigenze inevitabili nel corso del cambio di una legislatura ». Può darsi. Ma allora a cosa è dovuta quest'anno l'ulteriore aggiunta di altri 100 mila euro, pari a un aumento di oltre l'8 per cento? Siamo entrati, senza saperlo, in una nuova legislatura?

Le spese per i viaggi

Quanto ai viaggi, le polemiche sull'uso spropositato degli aerei di Stato prima nell'era berlusconiana e poi nell'era unionista, sono scivolate via come acqua. Basti dire che le spese di trasporto, alla Camera, aumentano del 31,82%. Diranno: è perché da questa legislatura ci sono 12 deputati degli Italiani all'estero che devono tenere i rapporti con i nostri elettori emigrati. Costoso ma giusto. Tesi inesatta. È vero che 1.450.000 euro (121 mila per ogni parlamentare) se ne vanno in «trasporti aerei circoscrizione estero». Ma il costo complessivo dei viaggi aerei, al di là del via vai di questa pattuglia di deputati «esteri», salirà da 6 milioni a 7 milioni 550 mila.
Un'impennata sconcertante. Ma mai quanto quella dei costi dei gruppi parlamentari. La regola sarebbe chiara: si può dar vita a un gruppo parlamentare se si hanno almeno 20 deputati. Su questa base, all'inizio della legislatura avrebbero dovuto essere otto. Ma grazie alle deleghe concesse dal subcomandante Fausto sono saliti via via a quattordici. Con una moltiplicazione delle sedi (che ha costretto a prendere in affitto nuovi uffici nonostante i deputati potessero già contare su spazi procapite per 323 metri quadri), delle segreterie (più 12,3% sul 2006), delle spese varie. Al punto che i contributi ai gruppi, che nel 2005 erano pari a 28 milioni 700 mila euro e nel 2006 erano già saliti a quasi 33, sono cresciuti ancora fino a 34.300.000 euro. Cioè quasi 14 in più rispetto a sette anni fa. Il che vuol dire che nel quinquennio berLa Casta,
il bestseller di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è edito da Rizzoli

Gli stipendi dei parlamentari costeranno il 2,77 per cento in più: un punto oltre l'inflazione. E i vitalizi? Più 2,93 per cento Il monte-paghe del personale il 3,73 per cento in più lusconiano e in questa successiva stagione unionista, il peso di questi gruppi sulle pubbliche casse è cresciuto del 67,4 per cento.

Democrazia e antipolitica

Tutti «costi della democrazia»? Pedaggi obbligatori che altri paesi non pagano (non così, non così!) ma che gli italiani dovrebbero essere felici di versare per tenersi stretti «questo» sistema parlamentare, «questa» macchina pubblica, «questi» governi statali, regionali, provinciali, comunali che i loro protagonisti presentano, facendo il verso al «Candido» voltairiano, come il migliore dei mondi possibili? Tutti costi impossibili da ridurre al punto che il bilancio della Camera prevede già di costare come prima e più di prima anche negli anni a venire a dispetto di ogni dubbio e di ogni critica? Dice la storia che la Regina Elisabetta, invitata dal governo inglese a tagliare, ha preso così sul serio questo impegno che la spesa pubblica per la Corona è scesa dai 132 milioni di euro del 1991-1992 a meno di 57 milioni.
Eppure, guai a ricordarlo. C'è subito chi è pronto a levare l'indice ammonitore: attenti a non titillare l'antipolitica, attenti a non gonfiare il qualunquismo, attenti a non fare della demagogia. Ne sappiamo qualcosa noi, ne sa qualcosa chiunque in questi mesi ha rilanciato con forza alcune denunce, ne sa qualcosa Beppe Grillo.
Ma certo, non tutto quello che ha detto il «giullare- à-penser» genovese può essere condiviso. Dall'invettiva del «Vaffanculo Day» lanciata in un Paese che ha bisogno come dell'ossigeno di un linguaggio più sobrio fino all'appoggio alle tentazioni di rivolta fiscale. Un acerrimo avversario dello Stato italiano come Sylvius Magnago, straordinario protagonista di durissimi scontri in difesa dei sudtirolesi di lingua tedesca, lo ha spiegato benissimo sottolineando di sentirsi «un patriota austriaco ma un cittadino italiano»: «prima» si devono pagare le tasse, «poi» si può dare battaglia. Ma quale autorevolezza hanno per liquidare Grillo quanti per anni e anni non sono riusciti a dimostrare la volontà, la capacità, la credibilità, la forza per cambiare sul serio questo Paese? L'Umberto Bossi che intima a Grillo che «occorre stare attenti a non esagerare» non è forse lo stesso Bossi che diceva che «il Vaticano è il vero nemico che le camicie verdi affogheranno nel water della storia »? Gerardo Bianco che al Grillo che vorrebbe un limite massimo di due legislature risponde dicendo che «non bisogna seguire la piazza a rimorchio di istrioni della suburra» non è lo stesso che siede in Parlamento dal 1968? E il Massimo D'Alema che liquida gli attacchi di Grillo ai partiti dicendo che per sua esperienza «se si eliminano i partiti politici dopo arrivano i militari e governano i banchieri» non è lo stesso che nei giorni pari dice che «la politica rischia di essere travolta come nel 1992» e nei dispari che «i costi della politica sono un'invenzione di giornalisti sfaccendati»? E la destra che, Udc a parte, ha firmato col proprio questore il bilancio della Camera e poi si è rifiutata di votarlo nella speranza di cavalcare la tigre, non è quella stessa destra che governava con una maggioranza larghissima nei cinque anni in cui le spese delle principali istituzioni pubbliche sono cresciute di quasi il 24 per cento oltre l'inflazione? Per quel po' di esperienza che abbiamo fatto in questi mesi dopo l'uscita del nostro libro, incontrando diverse migliaia di persone, ci andremmo molto cauti, prima di liquidare l'insofferenza di milioni di cittadini, confermata inequivocabilmente dai sondaggi e dalle analisi di Ilvo Diamanti, come «tentazioni antipolitiche». Noi abbiamo visto piuttosto crescere una nuova consapevolezza. Quella che «prima» del legittimo diritto di ognuno di noi di sentirsi di destra o di sinistra, abbiamo tutti insieme un problema: una politica che ha allagato la società. E che, come dimostra il dibattito di queste settimane, non ha la forza non solo per risolvere i problemi ma neppure per metterli sul tavolo.

Bilanci trasparenti

È «antipolitico» chiedere come mai non vengono neppure ipotizzati l'abolizione delle province o l'accorpamento dei piccoli comuni? Che tutte le amministrazioni pubbliche siano obbligate a fare bilanci trasparenti dove «acquisto carta da fax» si chiami «acquisto carta da fax» e «noleggio aerei privati» si chiami «noleggio aerei privati» così da spazzare via tanti bilanci fatti così proprio per essere illeggibili? Che anche il Quirinale metta in Internet il dettaglio delle proprie spese come Buckingham Palace? Che venga rimossa quella specie di «scala mobile» dell'indennità dei parlamentari ipocritamente legata a quella dei magistrati due decenni abbondanti dopo l'abolizione del meccanismo per tutti gli altri italiani? Insomma: viva le istituzioni, viva il Parlamento, viva i partiti. Però diversi: diversi. E soprattutto: è antipolitico chiedere che certi politici italiani la smettano di essere così presuntuosi da pretendere di identificarsi automaticamente con la Democrazia?

di SERGIO RIZZO e GIAN ANTONIO STELLA da il Corriere della Sera del 24 settembre 2007

lunedì 24 settembre 2007

La federazione, un bel fidanzamento che può durare in eterno

Durante il Seminario della Sinistra Unita e Plurale sulla lotta alla paura e nuove politiche di inclusione, il ministro Paolo Ferrero si è soffermato sulla rottura dei legami sociale e dal senso di solitudine nelle nostre città che è alla base di un crescente senso di insicurezza. Ha denunciato anche l'impotenza della Stato e della politica rispetto ai grandi processi economici mondiali ormai fuori dal controllo degli organismi democratici.
Ciò che il governo deve fare è evitare di entrare in una spirale securitaria ma sostenere politiche che favoriscano la fiducia reciproca e i legami sociali. Il Welfare rischia di essere un momento di guerra tra i penultimi e gli ultimi se non riesce universalistico. Ed è da qui che Ferrero comincia:

Intanto si deve investire in una politica per la casa. La casa deve tornare ad essere un diritto per tutti, per gli italiani come per gli immigrati ad un prezzo accessibile altrimenti si scatena la guerra tra i poveri. Allo stesso modo per i servizi: è necessario che gli asili nido e le suole materne funzioni per tutti. In finanziaria su questi due punti credo riusciremo fare significativi passi in avanti.

Le prime indicazioni per la manovra sono per te soddisfacenti?
Chiaro che bisogna avere di più. Innanzitutto Casa, politica per i bambini e sugli anziani.
Secondo redistribuzione del reddito. Bisogna far pagare le tasse agli evasori, come stiamo facendo e con quelle risorse tagliare le tasse ai lavoratori e pensionati con redditi medio bassi. Spostare reddito dall'alto in basso. In terzo luogo fare una politica che valorizzi le forme di volontariato sul territorio per far sì che la gente ricominci a parlarsi nei caseggiati e nei quartieri rompendo quell'isolamento e quella solitudine che io credo sia alla base di tanta domanda di sicurezza.

C'è chi scommette sulla vita brevissima di questo governo...
Credo che se facciamo una finanziaria buona che tenga d'occhio gli strati popolari, il bisogno di giustizia sociale e l'esigenza di poter arrivare alla fine del mese in maniera più decente di oggi questo governo può tenere. Perché con una manovra di questo tipo si può ricostruire la fiducia tra il popolo italiano e il governo. Finora nell'Unione nessuno si è opposto a queste indicazioni.

Parliamo invece un attimo dell'attualità politica. Ieri qui da Firenze la richiesta più forte è stata quella della Costituente della Sinistra rispetto alla federazione dei partiti. Tu, come rispondi?
Io sono per fare una federazione in cui vi siano contemporaneamente i partiti e le persone che non hanno nessuno partito, che si doti di organismi di base in cui ci partecipano tutti e che questi organismi di base abbiano un peso in quella formazione.
Bisogna tener conto che ci sono realtà organizzata ed evitare di restringere il processo di costruzione a sinistra alle sole realtà organizzare. Chiunque proponga o la federazione tra partiti o solo la Costituente in cui tutti si sciolgano fa solo un errore di estremizzazione che non produce nulla. Se tu provassi a sciogliere i partiti, dopo quindici minuti ce ne sarebbero sette. Quindi sono per la federazione per un motivo di realismo.
C'è un altro motivo. La forma della federazione riconosce e considera legittime delle differenze all'interno, ad esempio di cultura politica o di come ci si autodefinisce. Differenze che vanno rispettate per l'oggi e per il domani.
Io ai partiti in cui si decide a maggioranza e si va a colpi di maggioranza per decidere tutto non credo. Non è certo la forma in cui si può aggregare la sinistra. O la sinistra sarà plurale e rispettosa al suo interno oppure non va da nessuna parte.
Se dovessi usare un esempio invece che ad un matrimonio in cui dopo cinque o sei anni si comincia a non rispettarsi, penserei ad un bel fidanzamento che duri in eterno in cui tu non sei mai proprietario dell'altro e lo devi sempre rispettare, perché sta con te volontariamente e non perché è obbligato.

Però bisogna comunque liberarsi prima o poi dei genitori...
Sia per il fidanzamento che per il matrimonio è normale che ad un certo punto non si stia più con i genitori.

di N. Ce. da Aprileonline del 23 settembre 2007

sabato 22 settembre 2007

Firenze, la sinistra non è il «quartetto»

Definizione fascinosissima, quella di «una sinistra unita e plurale». Solo che per utilizzarla senza farla diventare uno slogan rassicurante ma falso, non ci sono scorciatoie. Bisogna coraggiosamente percorrere nuove strade, ma ancor più coraggiosamente analizzare quelle già percorse, anche di recente. Affrontare quella che un padre nobile della sinistra come Aldo Tortorella riassume con «la questione del dove abbiamo sbagliato».
Quali valori e quali forme per una sinistra unita e plurale è il tema di una tre giorni di dibattiti organizzati qui a Firenze dall'omonima vitalissima associazione. Coordinatore del primo appuntamento, il professor Paul Ginsborg, che ha messo intorno a un tavolo intellettuali di estrazione diversa ma non distante. Marco Revelli, Aldo Tortorella, Tana De Zulueta, Maria Luisa Boccia, Giovanni Berlinguer e Alberto Asor Rosa.
La richiesta dell'ospite fiorentino era di parlarsi in modo franco e fuori dai denti. E i relatori lo hanno fatto, senza troppi riguardi, tenendo inchiodate sulle poltroncine del Teatro Rifredi più di trecento persone per due abbondanti ore di dibattito. L'unità della sinistra oggi è una necessità storica, perché, ha spiegato Ginsborg c'è da riempire «un grande vuoto, sempre più evidente con lo spostamento al centro del Partito democratico». «E' come se fossimo saliti su una barca - dice De Zulueta - e tutti quelli che stavano seduti da una parte improvvisamente si siano spostati da un'altra: si rischia di cappottare».
La propria sopravvivenza, quella delle idee comuni, a sinistra, è di per sé una ragione per provare a stare uniti. Ma non basta. Bisogna parlare uno stesso linguaggio valoriale, confrontare le tante e diverse pratiche politiche.
Non farlo espone al rischio che la federazione della sinistra sia, come dice Berlinguer, «un ottimo coordinamento di gruppi parlamentari». Ma alla fine «il quartetto» - così qui chiamano, con affetto ma non troppo, i segretari di Prc, Pdci, Sd e verdi che oggi pomeriggio discuteranno con questa stessa platea - resta solo un quartetto, mentre l'ambizione è quella di fare un'orchestra, polifonica ma orchestra. «La manifestazione del 20 ottobre a Roma - dice Tortorella - nasce proprio dal desiderio di interpellare il nostro popolo», di farlo ascoltare dal governo Prodi ma anche dal «quartetto» che sta per convocare gli Stati generali della sinistra. Che non si esauriscono certo in tre partiti e un movimento.
C'è persino un'aggravante. E' che non si parte da zero, ma da alcuni smaglianti fallimenti. Qui Alberto Asor Rosa ricorda l'esperienza che poco più di due anni fa venne chiamata «camera di consultazione della sinistra». Asor Rosa è implacabile nell'accusare Rifondazione di averla fatta fallire «perché desiderava che nessuno influenzasse la sua condotta elettorale». Diciamocela tutta, insiste, «unita e plurale significa, in politichese, unita e divisa». Colpa del ceto politico che nella sinistra radicale non è poi tanto radicalmente diverso che altrove, prosegue. Ed è «impermeabile ai contributi della società civile. Un conto sono le parole, un conto è la condivisione del potere». Il nodo dei politici e dei partiti non si elude, qui la platea non è grillina, ma non per questo è meno severa.
Per la femminista Maria Luisa Boccia (senatrice per Prc-Sinistra europea) non è così: uniti e plurali non è un ossimoro, non c'è altra strada che non sia la politica, ovvero il luogo della mediazione che a sua volta è il frutto di un conflitto. La mediazione che «consente la convivenza di pluralità e differenze non ridotte né riducibili a una sola identità». Va avviato quindi un percorso costituente, una rifondazione, un'altra.
«Stiamo assistendo alla fine della sinistra politica. Viene da lontano, da un lungo processo di disgregazione sociale. Ma alla fine si fa più veloce», dice il sociologo Marco Revelli. Una sinistra stritolata dalla scelta fra i rapporti istituzionali e la sua fedeltà sociale. L'ordinanza contro i lavavetri, qui a Firenze, è un sintomo-simbolo di quello che sta accadendo. Usare i lavavetri per dire che gli ultimi sono un fastidio è un atto simbolico, la liquidazione dello zoccolo duro dell'identità della sinistra. La ricostruzione è un processo lunghissimo, e chissà per quante federazioni passa. Ma è già molto che il «quartetto» si accordi per rallentare il processo «mettendo un piede nella porta che si sta per chiudere». Il corteo del 20 ottobre, per Revelli, ha questo senso. «Vorrei che un pezzo d'Italia si facesse vedere e dicesse che non è d'accordo. E che è ancora in grado di parlare».

di DANIELA PREZIOSI da il Manifesto del 22 settembre 2007

Le primarie per il PD si avvicinano...

Industriali, anche loro una casta

La nascita del Pd, quella della federazione della sinistra. Due processi positivi. Se solo fluissero con maggiore partecipazione di cittadini. Mettersi in ascolto del paese, dal governo e dalla sinistra. Per Giovanni Berlinguer h questa mancanza di ascolto il vuoto in cui si inserisce la montata dell'antipolitica. Ma il professore non ne è impressionato. A impressionarlo, piuttosto, è la sordità della politica italiana. Padre nobile della sinistra, e a sinistra di quello che era il Correntone dei Ds, oggi da eurodeputato aderisce al movimento della Sinistra democratica di Fabio Mussi.La situazione italiana - dice - è talmente grave da richiedere sforzi collettivi ben oltre le due forze che potrebbero costituire la base per sbloccare la situazione.

Chi versa nella situazione più grave, il paese o il governo?
Tutti e due. Bisogna partire da una grande campagna di ascolto di quello che avviene nel paese. Malgrado i guasti morali, la tendenza diffusa a ignorare o violare le leggi, c'h anche un'Italia che vuole muoversi. Al momento questi movimenti non rappresentano un'ondata profonda, come negli anni scorsi, ma percepisco un notevole interesse dei giovani, di cui una parte h inerte, un'altra sta cercando una strada.

Che cosa rappresenta il lunghissimo Beppe Grillo Show?
Quando i partiti cessano di considerarsi rapppresentanti dei cittadini, non promuovono la partecipazione, anzi la vedono come il fumo negli occhi, pensano ai loro emolumenti, è inevitabile che altri soggetti emergano. E' logico, positivo. Purchèci sia voglia di ascoltare e non si passi subito alle scomuniche, a considerare Grillo come l'artefice di un gioco perverso. Non ho simpatia per le parolacce, nè per gli anatemi. Ma mi pare che dopo le prime reazioni negative, causate da una gelosia professionale dei politici, ora si comincia a valutare seriamente questa intromissione, che pur essere corroborante.


Crede anche lei che i poteri forti diano una mano a Grillo?

Non sono un buon dietrologo, conservo un residuo di ingenuità nel fare politica. Ma tutti i giornali danno risalto a questa tempesta. Molti parlano di antipolitica, gridano all'esautoramento della politica. Ma il maggior danno alla politica lo fa la politica così com'è ora, priva di ideali, litigiosa, sparpagliata. E i politici: dopo tre libri, sugli sprechi, non si h mosso nulla. Neanche piccole decisioni come ridurre le contribuzioni e i benefit dei parlamentari, dimezzare i ministri, ridurre il numero delle istituzioni, le province per esempio, le comunità montane che hanno sede sulle spiagge. Aggiungo però che non c'è solo una casta in Italia, ce ne sono molte. C'è anche una casta di industriali che continua a ripetere che i mali dell'Italia derivano dal fatto che ci sono salari troppo alti, regole troppo poco flessibili, pensioni esagerate. E ci sono manager che hanno innalzato i loro redditi a cifre stratosferiche e dirigenti di aziende pubbliche che dopo averle rovinate si sono ritirati con miliardi.

E' anche contro tutto questo la manifestazione del 20 ottobre. Qual h la sua opinione?
All'inizio è stata promossa per sollecitare un mutamento nelle politiche di governo, che ha davvero bisogno di profondi mutamenti. Poi si sono intrecciate le vicende del welfare e delle pensioni e l'atto coraggioso dei sindacati di firmare degli accordi, dopo aver ottenuto alcuni sostanziali risultati. Insufficienti, comunque. E infine, c'è stata una decisione lungimirante delle tre confederazioni di chiedere ai lavoratori e ai pensionati il loro parere con un referendum. Contemporaneamente si sono esasperati i toni critici nei confronti del governo.

Chi lo ha fatto?
I due giornali che l'hanno convocata, il manifesto e Liberazione. Ma anche alcuni dirigenti della sinistra. Questo ha creato il rischio - non la volontà- che la manifestazione assuma come obiettivo critico i sindacati e il governo. E questo rischia di compromettere due entità vitali per il paese. Il governo di centrosinistra, che deve essere sostenuto, criticamente ma sostenuto, e i sindacati, che sono la maggiore forza di rappresentanza in Italia nel panorama non solo sindacale ma anche politico.

Il corteo chiederà al governo di restare ancorato al suo programma. Si pur fare?
Si può e si deve.

Invece l'accordo sul welfare va migliorato?
Negli accordi sul welfare ci sono due punti almeno da correggere: quello sulla detassazione degli straordinari, un regalo per le aziende, e il lavoro temporaneo rinnovabile per anni infiniti.

E' grave chiederlo anche con una manifestazione?
No, una manifestazione legale promossa da due rispettabili giornali, raccolta da varie organizzazioni e da lavoratori per bene, mi sembra una cosa lodevole. Guai se considerassimo questi fatti come rischiosi o negativi.

Alcuni suoi compagni parteciperanno. Lei ci sarà?
Non credo, ma è probabile che altri ci siano. Non vedo nulla di malefico.

A sinistra si fanno valutazioni diverse del corteo. L'unità della sinistra a che punto sta?
Fa progressi, c'è stato un ottimo coordinamento dei gruppi parlamentari, un'attenuazione delle polemiche interne. Ma ancora non siamo a un approfondimento di idee, di valori, di programmi, e soprattutto di modi agire per aprire. Aprire: ai giovani, agli altri, a quelli che non hanno voce proponendoci, prima ancora che di parlare, di ascoltare tutti coloro che possono essere interessati a una sinistra unita.

C'è pericolo che si riproponga, a sinistra, la 'fusione a freddo' di vertici contestata da voi al Partito democratico?
Non lo escludo. L'avvio del Pd h stato un episodio esemplare di quello che non si dovrebbe fare per fondare un partito. La prima decisione presa - decisione, non votazione - è stata scegliere dall'alto i segretari regionali. Si sono seduti in quattro e si sono spartiti l'Italia. La seconda, designare De Mita direttore della scuola di formazione dei giovani. Non posso criticare il fatto che abbia 77 anni, ne ho di più. Però fra lui e i giovani che dovrebbe avviare alla politica ci sono due generazioni intere. Non mi pare la scelta migliore. E' solo un modo per riempire le caselle del nuovo gioco. Però ci sono anche fatti positivi. Uno è la proposta di nominare segretario Veltroni, ottima persona. L'altra è che si sta ricreando una sinistra nel Pd. A cui faccio gli auguri.

Voi di Sd invece andate verso la federazione della sinistra.
Dico la verità: non mi oriento bene fra gli stati generali e forme varie della federazione. Posso dire che ci deve essere meno personalismo, meno sortite estemporanee, lo dico anche a me stesso, e meno spinosità fra noi. Purtroppo c'è una tradizione di unità difficile nella sinistra. L'unico rimedio è allargare, aprire ad altre forze, soprattutto giovani. E' questo anche il senso della bellissima iniziativa di Firenze ( a cui lui parteciper`, vedi box qui sopra, ndr), speriamo che sia uno dei passi in avanti su questa strada impervia e difficile.

E' ottimista o pessimista per il successo dell'unità a sinistra?
Se fossi pessimista mi sarei gi` ritirato a vita privata.

di DANIELA PREZIOSI da il Manifeto del 21 settembre 2007

martedì 18 settembre 2007

Giordano: «La sinistra rischia il declino. Se la politica non affronta i problemi reali esploderà»

«Dobbiamo fare in fretta sia sulla mobilitazione sia sulla costruzione di un soggetto politico unitario altrimenti rischiamo il declino della sinistra in Italia». Incontriamo Franco Giordano nel suo studio a via del Policlinico, mentre prepara la relazione per la direzione di Rifondazione prevista oggi, un testo tutto centrato sulla «crisi italiana» e sulla necessità di aggregare la sinistra pena la sua scomparsa.

Giordano, iniziamo dal 20 ottobre. E' un appuntamento all'altezza dell'attuale crisi politica?
La manifestazione è decisiva per almeno due motivi: è il collante di un popolo che riconosce il proprio legame e può evitare che le singole vertenzialità dei movimenti, le tante critiche all'ordine esistente, restino isolate e non incidano sulle scelte di governo. Il 20 ottobre è questo, una risposta critica e positiva al degrado della politica. Le chiacchiere sui ministri, o se è una manifestazione contro il governo sono solo sciocchezze.
In tanti, a partire da Marco Revelli, hanno però criticato proprio la voracità dei partiti, una «politica cannibale» che ha sequestrato anche il 20 ottobre.
Vorrei tranquillizzare Revelli: le sue preoccupazioni sono le nostre. Rifondazione aderisce a questa manifestazione perché il suo impianto è chiarissimo: è esattamente la ripresa di parola e la ricostruzione di un legame con tutte le esperienze di lotta che possono rinnovare l'identità politica e culturale delle sinistre in Italia. Anch'io ho un sogno, una sinistra pacifista, antiliberista, ambientalista, femminista e laica. Al Pd invece dico che manifestare è nella tradizione migliore della sinistra democratica e cattolica di questo paese.

Ma mescolare il terreno del governo, che giocoforza è quello della mediazione, con le richieste di una piazza non ha generato un cortocircuito che penalizza entrambi?
Il processo di ricostruzione della sinistra è indipendente dal governo, può certamente incidere sulle sue scelte ma non c'è una gerarchia. Guardiamo i processi di fondo. Viviamo una crisi sociale e democratica profonda. La crisi della politica, che abbiamo denunciato da tempo, è oggi evidente. Una delle sue cause è il processo di «americanizzazione» della partecipazione. Il Pd è totalmente dentro questo processo e si dà proprio in virtù di un modello di società passiva. Questa passività genera o indifferenza o una ribellione scomposta. E' questo il vero cortocircuito. Se la politica non serve a cambiare la vita perché occuparsene? E' meglio criticarne, spesso non a torto, i suoi aspetti degradanti o la sua dimensione patologica di «casta».

Come è potuto accadere?
Perché la politica è diventata una pura ancella del mercato. Non è un caso che intervenga solo sugli ultimi, i precari, i senzacasa, i lavavetri. E' una politica muta sui poteri forti e pericolosa per i deboli. La pulsione securitaria delle ultime settimane nasce anche da qui. Il Pd non ha un'idea di società alternativa e finisce per schiacciarsi solo e unicamente sul governo. Senza una chiara idea di fondo può però capitare che le risposte del governo siano le più diverse se non opposte, come si è visto sulla giustizia, sul fisco e sul welfare. Tutte, comunque, interscambiabili con la cultura delle destre. La prova? Il giovane Letta ha superato a destra perfino Rutelli: apprezza Tremonti, ripropone il nucleare e critica la conferenza sul clima in nome del diritto dell'impresa. Ci accusano di voler far tornare Berlusconi ma come si fa a non vedere che la destabilizzazione nella maggioranza nasce con l'avvio della discussione sul Pd? Chi è che vuole continuamente accantonare il programma, che prospetta alleanze diverse, che rompe il mandato elettorale? Partiamo invece da problemi concreti: molte famiglie sono indebitate per la metà del loro reddito, i salari italiani crescono in termini reali meno che nel resto d'Europa, esplodono l'immigrazione interna e il pendolarismo. Solo nell'ultimo anno sono emigrati 270mila giovani del sud, spesso diplomati o laureati: non accadeva dagli anni '60. Se la politica non affronta questo rischia di esplodere.

Anche in questa legislatura ci sono state tante manifestazioni. Penso a quella di novembre contro la precarietà o a Vicenza. Sono state manifestazioni chiare, positive e partecipate ma non è cambiato nulla. Perché il 20 ottobre dovrebbe andare diversamente?
Questo è un passaggio decisivo. Stavolta questa forma di protagonismo sociale si accompagna con la costruzione di una soggettività politica unitaria. E' chiaro che anche se sono due cose distinte questi processi insieme possono dare un cambiamento nelle scelte del governo e una vera centralità alle richieste di una sinistra ampia e plurale.

Nonostante il desiderio di unità, però, la manifestazione del 20 nasce con la sfiducia della Cgil.
Non voglio enfatizzare le divisioni a sinistra ma sono io che chiedo autonomia da tutta la dialettica interna al sindacato. Quella dialettica rischia di paralizzare la manifestazione. Quando abbiamo condiviso la posizione della Fiom non l'abbiamo fatto contro la Cgil o una parte di essa ma perché sollevava un tema su cui tutta la politica deve interrogarsi: la solitudine della classe operaia.

A che condizioni secondo te il 20 ottobre sarà un successo?
Quella manifestazione pone alcune domande concrete al governo ma parla innanzitutto alla società italiana. Sono sicuro che sarà grandissima. Sarà un successo tanto più sarà plurale, se riuscirà a mettere in connessione tra loro, valorizzandole, tante esperienze reali, vere. Se farà questo riuscirà, e sarà un evento con cui tutti dovremo fare i conti.

La manifestazione ha una piattaforma piuttosto precisa: pace, diritti civili, lotta al precariato, legalità. Se quelle istanze non vengono recepite voi, voi partito, che fate?
Stavolta mi pare che il problema dell'efficacia si è posto su binari corretti. Nelle prossime ore Rifondazione e le altre forze di sinistra presenteranno a Prodi un documento politico diciamo così, preventivo, che chiede collegialità e una costruzione unitaria delle politiche economiche e sociali. Le nostre centralità sono in sintonia con la manifestazione del 20 e su quel documento saremo determinatissimi. E' un testo molto chiaro, che propone un'idea di sviluppo diversa da quella tutta fondata sull'abbassamento di tutele e salari per ottenere una competitività di prezzo. Noi vogliamo proiettare l'Italia verso tutele adeguate, dare vita a una nuova redistribuzione e puntare sull'innovazione formativa e produttiva in senso ecologico. Nulla di estremistico, sono richieste alla base delle buone politiche europee.

Insieme a Fabio Mussi hai rilanciato gli «stati generali della sinistra». Come si realizzeranno?
Alla sinistra serve soprattutto una svolta culturale. Rifondazione è pronta da tempo, anzi invoca, l'unità e vi parteciperà anche come Sinistra europea. Attualmente si discute di un livello federativo ma la nostra bussola è la partecipazione democratica. Gli stati generali non devono servire a declinare un linguaggio comune perché quello c'è già. Deve essere una giornata aperta a tutti, di massa, in cui anche le comunità siano protagoniste attive, penso all'esperienza No Tav, a Scanzano, a Vicenza. Deve emergere un soggetto caldo, partecipato, frutto di esperienze reali. Guai a costruire un soggetto politico solo per via istituzionale, non scalfiremo mai i rapporti di forza nella società. Con la nascita del Pd si apre una sfida strategica. Per noi il governo è un mezzo: ci puoi stare oppure no. Spero che in futuro si costruiscano le condizioni per una collaborazione tra il Pd e una sinistra plurale e unitaria. Però non si dà a priori.

L'unità a sinistra a partire dalle amministrative prelude a un abbandono del vostro simbolo?
Lo discuteremo con gli altri. Per noi il processo unitario deve tenere insieme soggetti politici, singoli e associazioni riconoscendo l'autonomia di tutti e costruendo una cultura nuova. Il simbolo seguirà.

di MATTEO BARTOCCI da il Manifesto del 18 settembre 2007

domenica 16 settembre 2007

Partito democratico, mi si è rotto il kit

Ai responsabili marketing del Partito Democratico - loro sedi
Egregi signori. In data 10.09.2007 ho ricevuto in pacco assicurato il vostro kit di montaggio del Partito Democratico. Ho subito messo mano al libretto delle istruzioni e disposto ordinatamente i pezzi sul mio tavolo di lavoro. Purtroppo le istruzioni non sono chiare. Per esempio: dove devo incollare Luigi Einaudi che il vostro candidato Gawronski indica come «riferimento esemplare»? E Aldo Moro, portato ad esempio da un certo Adinolfi, va inserito nel motorino di avviamento, oppure imbullonato alla struttura portante? Il pannello solare, che Walter Veltroni indica come suo «riferimento esemplare» del Pd, lo devo collegare alle orecchie di Gandhi? Le istruzioni non sono per niente chiare.
In ogni pagina del manuale delle istruzioni è spiegato il modo esplicito, in grassetto, e più volte sottolineato, che non bisogna usare l'ideologia per assemblare le diverse componenti, ma allora che colla uso? Va bene il vinavil? Perché non c'era nel mio kit di montaggio del Partito Democratico? Ho fatto come suggerisce il manuale a pagina uno, dove dice di incastrare il libero mercato nello stato sociale, ma non ci riesco, non ci sta. Devo ridurlo con una lima? Oppure devo prendere a martellate lo stato sociale? Il disegno non è chiaro, e le istruzioni di questo paragrafo sono in cinese. Il libretto non dice dove collocare le forze operaie, mentre ho trovato ben sei confezioni sigillate di «ceto medio». E' vero che c'era un sacchettino con quindici lavavetri e cento rom, ma che vuol dire (manuale utente, pag. 21) «usare secondo le convenienze»?
Con la presente, dunque, intendo esercitare il mio diritto di recesso e rispedirvi il pacco con il kit di montaggio del Partito Democratico, ma siccome non riesco a ricomporre la confezione, è meglio che ve lo veniate a prendere. Fate presto, perché ho Luigi Einaudi in salotto che vuol fondare un partito di sinistra!

di ALESSANDRO ROBECCHI da il Manifesto del 16 settembre 2007

Il sapere come bene comune

Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni: la conoscenza prima di tutto.
Qual è il modo migliore per sfruttare la ricchezza della rete? Tra mercato e libero accesso, la posta in gioco non è piccola.
La connessione garantita a tutti non promette nulla circa i contenuti.
L´informazione è un diritto fondamentale garantito da molto tempo.

Nell´ottobre del 1847, pochi mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei Comunisti, Alexis de Tocqueville redigeva la bozza d´una dichiarazione politica che avrebbe poi trascritto nei suoi Souvenirs, e così rifletteva: «ben presto la lotta politica si svolgerà tra quelli che possiedono e quelli che non possiedono; il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell´attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente, l´immateriale, il sapere nel suo insieme. Il campo di battaglia si è allargato. È diventato il mondo intero, abbraccia molti altri diritti, li ridefinisce, li riscrive, li considera non più dal punto di vista strettamente individualistico, ma pure nell´ottica di una appartenenza comune.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato.
Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l´acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l´effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo concludere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per la libertà e l´eguaglianza.
Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. È un´entità anch´essa nuova che, mimando la formula "economia mondo" di Immanuel Wallerstein, è stata definita "popolo mondo". È il popolo di Internet, un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale, scaricando musica e film, creando e diffondendo informazioni, producendo sapere sociale. Ed è proprio questa dimensione sociale che sconvolge vecchie logiche, mostra in ogni momento l´inadeguatezza di regole consolidate. E pone un interrogativo ineludibile. Qual è il modo migliore per sfruttare «la ricchezza della rete»? Ricondurre anche questo mondo nuovo soltanto alla logica di mercato? O perseguire quella che Franco Cassano chiama «la ragionevole follia dei beni comuni», considerati sia nelle forme della loro possibile proprietà, sia come componente essenziale dell´«era dell´accesso»? La posta in gioco non è piccola. Schematizzando al massimo: privatizzazione del mondo o possibilità inedite di percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo.
Proprio il tema dell´accesso svela i termini veri della questione, e la sua difficoltà. Già nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo dell´Onu riconosceva come diritto fondamentale quello di «cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee». E, ben prima di allora, la necessità di garantire senza discriminazioni l´accesso al sapere era il fondamento delle politiche pubbliche sull´istruzione obbligatoria e gratuita e sull´istituzione di biblioteche aperte a tutti, alcune delle quali concepite come deposito di un sapere universale (o almeno nazionale) grazie all´obbligo di inviare ad esse tutto ciò che veniva pubblicato. Oggi una soluzione come questa è evidentemente impraticabile per la Rete, luogo dove vorticosamente compaiono e scompaiono quotidianamente milioni di informazioni. E tuttavia l´accesso rimane il punto di partenza: come garantirlo e, soprattutto, che cosa garantire.
Rifacendosi a esperienze già note, come quella del telefono, si è parlato di «servizio universale»: a tutti dovrebbe essere garantita la connessione a Internet. Ma quello che per il telefono poteva essere considerato il punto d´arrivo - essere messi in condizione di parlare con chiunque - per Internet è solo un punto di partenza. Una volta che mi sia stata garantita la connessione, a che cosa potrò accedere? All´insieme del sapere disponibile in Rete o soltanto a sue frazioni tra le meno significative e appetibili? Il diritto alla connessione non può, in concreto, garantire solo l´accesso al nulla, a contenuti poveri o poco significativi per molti utenti. L´esperienza della televisione può fornire qualche indicazione, con il progressivo trasferimento dei programmi più interessanti nell´area della televisione a pagamento.
Vi è il rischio che ci venga consegnata una chiave che apre soltanto una stanza vuota. Proprio a questa immagine ricorre uno dei maggiori studiosi di questi temi, Lawrence Lessig, ragionando sul futuro delle idee: «Sei completamente libero di fare il film che vuoi in una stanza vuota, con i tuoi due amici». Che cosa lo ha spinto ad una conclusione così sconsolata? La constatazione dei mille nuovi vincoli che avvolgono l´attività cinematografica, nati appunti da una privatizzazione della conoscenza. Quella visiva, questa volta. Riprendere la facciata di un edificio può indurre il proprietario o l´architetto a chiedere un compenso, e lo stesso può avvenire se un designer scorge in una scena del film una sedia che ha progettato.
Da qui deve partire anche una riflessione sull´eguaglianza. Questa viene sempre più intesa come eguaglianza dei punti di partenza, non dei risultati. Ma proprio la questione dell´accesso mostra come non ci si possa limitare a fornire pari opportunità se, poi, queste possono essere concretamente utilizzate solo da alcuni. Una situazione, questa, che diviene assai più eloquente quando il sapere incrocia il fondamentale diritto alla salute. Da anni la questione dei brevetti sui farmaci è davvero un campo di battaglia. Diversi paesi, dal Brasile al Sudafrica all´India, rivendicano il diritto di produrre a basso costo farmaci necessari per curare milioni di malati di Aids o di malaria, infrangendo anche i diritti della grande industria farmaceutica. L´accesso di tutti ai frutti del sapere, i farmaci in questo caso, diviene la condizione perché la salute non venga assicurata in modo selettivo solo a chi ha le risorse per comprarla sul mercato, ma davvero ad ogni persona. L´accesso diviene parte costitutiva della cittadinanza.
La consapevolezza sempre più diffusa che la conoscenza è un «bene pubblico globale», come sottolinea Luciano Gallino, sta così determinando un ripensamento profondo delle regole, a partire da quelle che riguardano il brevetto e il diritto d´autore, e una richiesta perentoria di non appropriarsi del vivente, della diversità biologica. Nuove parole percorrono il mondo - software libero, open source - che ci parlano proprio di un mondo che deve essere aperto, disponibile per chi vuole conoscere, diffondere liberamente informazioni, produrre sapere condiviso. Questa ricerca di nuovi equilibri tra interessi di autori, inventori, industrie e interessi della collettività non è motivata soltanto da una sorta di rifiuto della logica di mercato. Vi è una critica liberista anche più radicale, che insiste sulla crescente inefficienza dei vecchi strumenti, e propone addirittura l´abolizione del copyright. Un esempio può chiarire come cambia il modo in cui si può accedere al sapere. La free press, i giornali distribuiti gratuitamente non sono il segno di una generosità o altruismo dell´editore, ma di un altro modo di fare profitto. E le enormi possibilità della Rete, la sua ricchezza, possono essere ben utilizzate solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno sfruttamento delle sue potenzialità, che configurano appunto anche una «non market economy».
Ma l´accesso alla conoscenza deve implicare sempre anche la possibilità di essere «esposti» alle opinioni più diverse, per poterle confrontare, per sviluppare capacità critiche. Questo significa, ovviamente, rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti, trasparenza delle informazioni. Qui è la radice del pluralismo, dell´autonomia di giudizio di ciascuno. Così è possibile uscire dagli arcana imperii, liberarsi da poteri avvolti dal segreto, e per ciò solo oppressivi.
Il sapere libero e diffuso fa tutt´uno con la democrazia. Luigi Einaudi diceva «conoscere per deliberare». Un grande giudice americano, Louis Brandeis, osservava che «la luce del sole è il miglior disinfettante». La conoscenza, dunque, come fondamento della decisione democratica e del controllo diffuso.
L´informazione è potere, si è sempre detto. Ma ci si è sempre chiesti: potere di chi?

di STEFANO RODOTA' da la Repubblica del 15 settembre 2007

Qualunquismo e neo-qualunquismo

La partecipazione al 'Vaffanculo Day' organizzato da Beppe Grillo ha riacceso la discussione se vari sintomi di disaffezione e sfiducia nei confronti della classe politica rivelino la rinascita del qualunquismo. Non credo che la crociata ormai decennale di Grillo contro tutti possa essere definita qualunquismo, perché caso mai si tratterebbe di una sorta di neo-savonarolismo laico. Il problema è quello della gente che partecipa con lui, e persino di quelli che lo vanno a sentire per puro divertimento, perché se si divertono è perché viene sollecitato pur sempre qualche loro rancore profondo. D'altra parte le 150 mila copie (sino a luglio, che poi se va bene diventano 300 mila lettori) di 'La casta' di Stella e Rizzo non sono noccioline: tutti quei lettori che si interessano a come vengono spesi e sprecati i soldi pubblici, non sono gente che vuole soltanto divertirsi. È gente che cerca materia alla propria indignazione o almeno alla propria insoddisfazione nei confronti della classe politica e degli amministratori degli enti pubblici.

Ma si tratta di 'qualunquismo'? Il qualunquismo storico (lo racconto ai giovanissimi) nasce quando nel dicembre 1944 (nella Roma già liberata, ma mentre i fascisti dominano ancora l'Italia del nord), Guglielmo Giannini fonda un giornale, 'L'uomo qualunque', che già nel 1945 raggiunge le 850 mila copie di tiratura (tantissimo per quei tempi) sino a che nel 1946 dà origine al movimento omonimo che manderà ben 30 deputati alla Costituente. Che poi il movimento da un lato venga strumentalizzato dalla Democrazia cristiana e infine si smembri andando a ingrossare le file del partito monarchico e del neonato Movimento sociale, ci dice soltanto che il suo richiamo catalizzava i malumori dei vecchi fascisti epurati e di chi, uscito frastornato da vent'anni di dittatura, non riusciva a capire né la dialettica tra partiti diversi, né la retorica post-resistenziale che chiamava tutti a un pronunciamento ideologico. Era insomma il movimento dei 'vaffanculo' dell'epoca, ma per ragioni del tutto diverse da quelli odierni.

Infatti quel movimento rappresentava una reazione allo choc di una vita democratica ancora ignota, mentre questo rappresenta una disaffezione verso una vita democratica a tutti nota e (pareva) accettata. Quello era una malattia infantile della democrazia italiana, e infatti non ha avuto un successo veramente significativo perché gli si opponevano i grandi partiti di massa (Democrazia cristiana, Partiti comunista e socialista) che suscitavano l'entusiasmo e l'impegno dei cittadini. Invece il neo-qualunquismo non rappresenta il rifiuto a priori di una dialettica democratica (che i settatori dell'Uomo Qualunque rifiutavano prima ancora di averla conosciuta). Esso rappresenta la sindrome di delusione nei confronti della classe politica da parte di chi in quella dialettica ci credeva. Il primo riguardava una minoranza di 'malati' che non potevano inquinare il corpo sociale più di tanto, il secondo rappresenta o annuncia una malattia (incipiente) del corpo sociale nella sua totalità.

Non posso (e non so) analizzare tutti i motivi di questa disaffezione, ma vorrei dire quello che ho letto sui quotidiani o visto al telegiornale nelle ultime settimane, quando siamo stati avvisati ogni giorno che il governo intendeva diminuire le tasse. Ora un governo che dice a più riprese che diminuirà (al futuro) le tasse, certamente non le ha diminuite, e pazienza, perché potrebbe (come in parte ha fatto) spiegare perché ancora non può farlo. Ma ripetere ogni giorno che le tasse saranno diminuite induce in chi legge o ascolta due (e solo due) interpretazioni possibili: una, che il governo 'non' ha diminuito le tasse (altrimenti non userebbe il futuro), due, che ha aumentato le tasse, e proprio per questo si affanna a ripetere che poi le diminuirà.

Perché un governo scelga questo modo di comunicare ai suoi elettori, mi rimane dolorosamente oscuro, ma ammetto che la colpa non sia del governo bensì dei mass media che (anche quelli di sinistra) esageravano questi annunci letali per le sorti del governo, pur di vendere qualche copia in più. Dal canto proprio l'opposizione berlusconiana, a cui si può rimproverare tutto meno che di avere un senso preciso di come vendere frigoriferi in Groenlandia, è stata presente in ogni telegiornale concludendo ogni suo intervento con "e intanto il governo ha aumentato le tasse". Il che era falso, ma si sa che il falso vende meglio del vero.

Naturalmente se all'opposizione, che ripeteva che le tasse sono aumentate, le fonti governative avessero risposto che non è vero, forse la gente avrebbe capito che si opponevano due tesi, e avrebbe cercato di ragionare con la propria testa. Ma le fonti governative erano troppo occupate a parlare della diminuzione futura. Naturalmente non tutti i cittadini sono degli sciocchi e capiscono benissimo quello che ho appena detto. Ma è proprio questo, sentirsi avvolti da una rete di bugie e di goffaggini, che fa diventare se non qualunquisti storici almeno neo-qualunquisti.

di UMBERTO ECO da L'Espresso del 14 settembre 2007

O si svolta a Sinistra o si va a casa

Sinistra Italiana: per Fabio Mussi dovrebbe chiamarsi così, semplicemente, la “Cosa rossa” che raggruppa Rifondazione, Verdi, Pdci e gli ex Ds. Il ministro dell’Università si trova a Città del Capo per inaugurare un centro di ricerca sull’Aids, la malaria, l’epatite. Parla di liste comuni da fare alle amministrative di primavera. Prima, però, c’è la manifestazione del 20 ottobre di Rifondazione.”attenzione a non dare una spallata al Governo. Fare la marcia degli incazzati non serve a nessuno”. Avverte.

Partiamo dalla legge Finanziaria: lei chiede un “salto di qualità”: che vuol dire?
“Il primo anno avevamo il dovere di risanare i conti, bisognava riportare gli indicatori alla normalità. Chi ricorda il 1992, con il Paese sull’orlo della bancarotta, sa di cosa parlo. Siamo tornati a galla: non mi aspetto che andiamo dal purgatorio al paradiso in un passo solo, ma chiedo un intervento qualitativo. È l’ora delle scelte. Sull’ultima finanziaria ci abbiamo rimesso le penne: il governo deve riconquistare la fiducia dei nostri elettori e un più saldo rapporto con l’intero Paese”.

Rutelli ha le stesse esigenza, ma una ricetta opposta: abbassare le tasse e tagliare le spese…
“Sono d’accordo:va abbassata la pressione fiscale. Ma ci sono tante vie per farlo. Se la questione fiscale viene agitata come testa di turco e poi si tagliano gli investimenti, tu riduci le tasse, ma come nel gioco dell’oca torni alla casella zero”.

In questi giorni la distanza tra le due anime dell’Unione si è allargata, anche sulla sicurezza.
“Il problema esiste, certo: i grandi poteri mafiosi si sono rafforzati. C’è un livello di violenza e di illegalità insostenibile. Ma si è passato il Rubiconde: se si mettono in una unica zuppa i mafiosi e i lavavetri diventa una campagna di facciata. Non si risponde positivamente alla paura, ma si liscia il pelo alla paura. Siamo ai sindaci che vogliono fare i poliziotti e ho apprezzato che Vetroni abbia dato lo stop. Attenzione: su questa strada si finisce rapidamente alla richiesta di pena di morte”.

Addirittura? Cofferati è un aspirante forcaiolo? Un tempo lo sceriffo era il buono, di sinistra…
“lui legge Tex Willer, ma non bisogna confondere i fumetti con la realtà. Un quotidiano ha chiesto ad Amato se la sinistra non si stia baloccando con Cesare Beccaria. E lui ha acconsentito. Invece doveva rispondere: fermi lì, Beccarla non si tocca, è un monumento della cultura occidentale. Dopo c’è Abu Ghraib, Guantanamo”.

Il pacchetto Amato sulla sicurezza è indecoroso, dice la Pdci Manuela Palermi. Condivide?
“Temperiamo il linguaggio. Il pacchetto non lo conosco, ma, ripeto, sono contro chi mette insieme lavavetri mafia. Cito Tony Blair anche io: combattere il crimine e le cause del crimine. Questo è il punto di vista della sinistra, se lo perdi sei finito. È la cosa che mi preoccupa di più: la crisi culturale della sinistra. Lo spasmodico desiderio di adattarsi al ribasso ai pregiudizi, ai luoghi comuni, alle paure”.

Per lei il Pd è di sinistra?
“Non vorrei appiccicare etichette non gradite. Vedo che da quelle parti non ci si tiene granché:la parola sinistra è incustodita, ne parla ogni tanto solo Rosy Bindi. Fassino aveva spiegato che il Pd era l’ennesima metamorfosi della sinistra, ma non così. Il Pd è molto più spostato al centro di quanto non fossero i Ds.un aggregato incerto con personalità in contesa e una cascata di cordate, alte, medie e basse. Perfino l’ipotesi di un governo di centrosinistra è messa in ombra: si parla di autosufficienza, di alleanze di nuovo conio. Ma se si pensa nuove alleanze, l’Udc non ti basta. Devi andare più in là, molto più in là”.

Prima del congresso Ds lei disse: “Il Pd guidato da Veltroni? Sarebbe bello, ma è l’isola che non c’è”. Ha cambiato idea?
“Ora l’isola c’è, ma il presepe non mi piace lo stesso. Veltroni ha salvato il progetto dal puro naufragio cui era destinato. Più vado avanti e più sono convinto della scelta fatta al congresso:ma ho salutato il suo impegno perché se il Pd fallisce lascia un buco nero, terra bruciata, non c’è né per nessuno. Resta solo la destra e un po’ di protesta intorno. Ma non mi auguro neppure che il Pd si sposti così a destra da rendere impossibile una alleanza di centrosinistra per governare l’Italia”.

E voi, che farete?
“Noi ex Ds siamo in movimento, il lievito di una operazione politica. Qualche per cento alle elezioni lo prenderemmo anche da soli. Ma non ne vale la pena:la situazione sarebbe decisamente fragile se a sinistra del Pd ci fosse l’arcipelago delle Maldive, tanti atolli, quattro piccole formazioni, frammentate, sbriciolate, in competizione tra loro. Potrebbe rappresentare l’irrilevanza della sinistra e l’impotenza del Pd. Serve un’aggregazione: ci vorrebbe un partito”.

Con quale nome?
“Sinistra italiana è un buon nome…”

Ci sono le condizioni?
“il partito unico non è maturo. Sono mature le condizioni per una sinistra unita, plurale e federale. Che lavori e cominci a presentarsi insieme alle elezioni: a partire dalle prossime amministrative di primavera, laddove possibile. Un’operazione che potrebbe raggiungere le due cifre abbondanti”.

Tra di voi c’è una grande confusione, però. Alla manifestazione di ottobre lei e Pecoraro non andate, Giordano e Di Liberto si…sembrate il Pd
“La nascita del Pd è una scossa del settimo Richter. La tappa fondamentale è la finanziaria: o c’è il colpo d’ala oppure atterriamo bruscamente. In questi giorni abbiamo deciso di condurre in modo unitari la lotta sulla finanziaria, con un documento di proposte da offrire a Prodi. Abbiamo 150 parlamentari: è utile per tutto il centrosinistra che ci sia una nostra posizione comune. Parliamo la lingua della verità: se questi partiti non hanno più l’esigenza di scavalcarsi è più facile trovare posizioni forti, più influenti. E più meditate.

Lei, però, è contrario alla manifestazione…
“non sono contrario alle manifestazioni. Ma una sinistra ambiziosa non può trascurare il fatto che i sindacati hanno promosso un’ampia consultazione sul protocollo di luglio che voteranno milioni di lavoratori. E una sinistra che sta al governo deve agire per influire sulle decisioni della maggioranza. Si può pensare a una grande iniziativa sulle nostre proposte sul lavoro precario, benissimo. Guai se volontariamente o involontariamente venisse da qui una qualche spallata al governo”.

Il remake del 98: sente aria di crisi?
“Nessuno la vuole, non è questo il punto. Ma bisogna evitare rischi collaterali indesiderati, volontari o involontari. Guai se intorno a quella manifestazione si crea il clima sbagliato. Guai se si presenta in piazza la marcia degli incazzati, come recita la cannone di Benigni: non serve e a nessuno.

Che effetto le fa ritrovarsi con Bertinotti e Cossutta a quasi vent’anni dalla fine del Pci?
“Quando Bertinotti parla di socialismo del XXI secolo vedo un tentativo di non perdere la memoria storica, ma di fare evolvere la situazione verso un pensiero nuovo”.

E il leader della Cosa rossa? Lei o Fausto?
“Mettiamo i frati in cammino, il priore si vedrà”.

di MARCO DAMILANO da L'Espresso del 14 settembre 2007

venerdì 14 settembre 2007

Grandi: «La manifestazione del 20 così è un attacco alla Cgil»

«In questa situazione, con la Cgil così esposta, la manifestazione del 20 ottobre mi preoccupa molto». Alfiero Grandi, sottosegretario all’Economia, di Sinistra democratica, ex dirigente della Cgil, propone ai compagni di viaggio della cosiddetta «Cosa rossa» una pausa di riflessione: «La manifestazione del 20 ottobre mi pare poco comprensibile. Per qualcuno forse può essere una rivalsa rispetto al referendum, ma sarebbe un errore mettere in difficoltà il governo. Dunque la sinistra rifletta, riesamini l’opportunità di questa manifestazione: parliamone dopo la conclusione del referendum tra i lavoratori». «Nella maggioranza c’è chi pensa di fare a meno della sinistra? Bene, ma a noi spetta non dare la minima occasione per aprire un problema», dice Grandi. «La sinistra non deve prendersi la responsabilità di aumentare le fibrillazioni».

Dunque siete pronti a disertare la piazza?
«Se il 20 non è oggetto di una riflessione che ci garantisca che sarà una manifestazione “amica” di tutta la Cgil, qualcuno ci andrà e altri no. Vorrà dire che il percorso comune a sinistra partirà il 21 di ottobre».

Pensa che il processo unitario potrebbe arrestarsi?
«Andremo avanti, pur con dei punti di differenza. Noi puntiamo a una federazione, cominceremo a lavorare insieme sui punti che ci trovano d’accordo, ma il processo di unità è assolutamente necessario. Pur sapendo che è un traguardo, non qualcosa di già pronto e scodellato».

Come valuta il no della Fiom al protocollo sul welfare?
«Con rispetto. La più importante categoria dell’industria esprime un malessere profondo che va interpretato e capito. Non accetterò mai che i metalmeccanici vengano sbeffeggiati o diventino il parafulmine di tutte le contraddizioni. Detto questo, ritengo un bene che l’accordo venga approvato, pur con tutti i suoi difetti e le sofferenze che ha provocato. Non ci sono alternative a un sì. Quei difetti li vedo anch’io, a partire dalla decontribuzione degli straordinari che è un mero regalo alle aziende. Di fronte al dibattito interno alla Cgil che sarà anche teso, il governo deve avere un atteggiamento di generosità e di comprensione».

Cosa significa?
«Ci sono personalità autorevoli che suggeriscono al governo di non concertare più col sindacato, quasi fosse una creatura del passato. Ma il sindacato è un punto di tenuta sociale fondamentale, di cui la Cgil è l’architrave. Dunque il governo deve respingere quei consigli, e fare di più. Tiziano Treu ha detto che nella stesura finale ci possono essere dei chiarimenti, ad esempio sul tempo determinato e sullo staff leasing. Credo che ce ne possano essere anche altri. Insomma, il protocollo non va interpretato come un “prendere o lasciare”. Il confronto può continuare. In fondo anche l’accordo del 1993 è figlio delle valutazioni sugli errori del 1992».

Anche il ministro Damiano ha detto che se si comincia a cambiare poi rischia di venir meno l’equilibrio complessivo...
«Dell’accordo non bisogna avere una visione statica, ma dinamica. Ci sono argomenti che possono essere ripresi più avanti, con una iniziativa parlamentare o del governo».

Epifani ha chiesto un passo indietro alle forza politiche sulle vicende della Cgil. È d’accordo?
«Il sindacato è il protagonista dell’accordo e della discussione con i lavoratori: questo è un punto fermo, e compito della sinistra politica non è rendere più aspra la discussione, ma essere l’interfaccia politica dei problemi che pongono la Cgil e la Fiom. Non dobbiamo sovrapporci, nè andare sugli spalti a fare il tifo: la nostra squadra è tutta la Cgil».

da l'Unità del 14 settembre 2007

Nerozzi (Cgil): «La Fiom? Non aiuta la sinistra»

Assicura che parlerà «anche della Fiom». Premette che lui è un dirigente sindacale e che quindi non ha senso che risponda sulla «politica». Sulla «cosa rossa» magari, o quant'altro. Anche se certo, «da semplice persona e non da segretario Cgil», il suo cuore batte proprio in quella direzione. E qualcosa sull'argomento alla fine gli si riesce a strappare. Vuole iniziare da altro, però. Paolo Nerozzi, 57 anni, una vita da dirigente del sindacato - quello regionale dell'Emilia poi dirigente nazionale dei pubblici dipendenti, prima di entrare, 7 anni fa, nella segreteria di Corso d'Italia - è finito spesso in questo periodo sui giornali. Si dice che sia molto influente nel gruppo di Mussi - ma lui si schernisce: «Mi attribuiscono un'influenza che non ho. Ne sarei lusingato ma semplicemente non è così» -, si dice che sia stato soprattutto lui ad opporsi alla partecipazione di Sinistra democratica alla manifestazione del 20 ottobre. «Di questo però davvero non parlo, le cose che avevo da dire le ho dette in un seminario. E basta». E' disponibile, pacato, gentile. Chiede solo però di cominciare la chiacchierata con una riflessione.

Quale?

Tutti in queste ore parlano di divisioni e spaccature. Io invece credo che il dato più rilevante sia un altro. Il referendum dei lavoratori. Un metodo democratico che non mi pare sia stato valorizzato da nessuno. Neanche dalla sinistra.


E perché quest'atteggiamento?
Io penso che non ci sia molta attenzione alla consultazione da parte della sinistra perché qualcuno si auspicava che il referendum non si facesse. A quel punto tutto sarebbe stato più semplice. Si sarebbe potuto denunciare la mancanza di democrazia e quant'altro. Invece si farà. Esattamente come chiedeva la Fiom.


Forse però la democrazia sindacale non è solo un sì e un no ad un accordo firmato in una stanza a Palazzo Chigi. Forse c'è bisogno di qualcos'altro, non credi?

E' un tema che aprirebbe una discussione lunghissima. Ma siccome credo che ti interessi l'attualità, torno a ripeterti che questa era la richiesta della Fiom. Il referendum. E mi aspetterei, a questo punto, che al di là delle opinioni di ciascuno, tutti facessimo un passo indietro. E lasciassimo la parola agli interessati: ai lavoratori.


Ma, onestamente, da uomo di sinistra e da dirigente sindacale non ti preoccupa il "no" della Fiom ad un'intesa, già criticata da tantissimi?
Non puoi dare per scontata la critica ad un'intesa che invece secondo me porta a casa qualcosa. Certo, la parte sul mercato del lavoro ha aspetti che non mi piacciono. E su questo la Cgil è stata molto chiara nella lettera a Prodi. Ma è inutile girarci attorno: il cuore del dissenso della Fiom riguarda le pensioni.


Accordo che invece ti piace?

Lo difendo. Le tutele per i quarantenni, per le donne, la parte sui giovani, sugli usuranti, il fatto che abbiamo eliminato la revisione dei coefficienti - cosa di cui nessuno parla -, l'eliminazione dello "scalone"...

Con l'introduzione degli scalini...
Che comunque non sono lo scalone. Io sfido chiunque a sostenere che la condizione dei pensionati peggiorerà.


Ma forse la valutazione di un'intesa va fatta anche rispetto alle attese. Stiamo parlando di un governo di centrosinistra che s'era impegnato a cancellare la Maroni.

E io ti dico che la Maroni non c'è più. E aggiungo: un sindacato non fa i conti con le "speranze" ma con le cose concrete che può portare a casa. E stiamo parlando della trattativa con un governo che stenta, e quanto, al Senato. Insomma, dobbiamo saperlo che senza questa intesa ci sarebbe ancora lo "scalone" e probabilmente non ci sarebbe più questa maggioranza. In entrambi i casi, la condizione dei lavoratori sarebbe peggiore. E credo che questo sarà il giudizio anche dei metalmeccanici.


Quindi la Fiom ha sbagliato ad opporsi?

Cosa pensassero i dirigenti della categoria, lo si sapeva. Lo avevano detto al direttivo della Cgil, la sede più opportuna per manifestare il dissenso. Non mi aspettavo, insomma, che l'organismo dirigente della Fiom prendesse una posizione formale. Non ne faccio una questione di regole, beninteso. Dico solo che sarebbe stato più opportuno, lo ripeterò fino alla noia, rimettersi al giudizio dei lavoratori.


Insisti tu, insiste anche il cronista. Non ti poreoccupa la scelta della Fiom?
Mi preoccupa, è il verbo giusto. Perché so che in una situazione di lacerazione, con molti elementi di populismo, il sindacato confederale unitario è un elemento di forte coesione sociale. Che guarda agli interessi generali. E vedo con preoccupazione l'emergere nel paese di tentazioni corporative. Non sto dicendo che la Fiom sia corporativa ma certo vedo il rischio che alla fine ognuno decida di fare per sè. E sarebbe la fine della cultura confederale.


Corporativismo? M è la definizione usata da Veltroni per attaccare il sindacato.

Lasciamo stare le parole. E francamente non mi pare di usare lo stesso linguaggio, del partito democratico.

Che comunque plaude all'intesa.

Dopo la «rottura» della Fiom, tutti ora hanno preso a dichiarare sull'argomento. Fino a ieri, semplicemente lo ignoravano. Come hanno sempre ignorato i temi del lavoro.


Scusa Nerozzi. Visto che siamo arrivati al piddì, una domanda tutta politica. Non pensi che la scelta della Fiom in qualche modo influenzerà anche la discussione sulla "cosa rossa"? Quel "no" indica una strada, non credi?

Influenzerà, questo è certo. Ma non nel senso che sembra suggerire la tua domanda. Influenzerà ma solo perché alimenta le difficoltà del quadro politico, rischia di spaccare. Anche quel processo di "ristrutturazione" delle forze politiche. Insomma, non aiuta il processo a sinistra. .


Ma il sindacato ha interesse ad avere una sponda politica, un soggetto unitario, che difenda le ragioni del lavoro?

Il sindacato ha interesse a stabilire rapporti di autonomia. Anche con la sinistra. Il sindacato ha interesse che una sinistra non giudichi un accordo ma lo lasci giudicare ai lavoratori.


Prendiamola da un'altra angolazione. Paolo Nerozzi che sinistra unitaria ti immagini? Quella che avalla un'intesa che piace alla Confindusria...

Ti assicuro che non piace affatto alla Confindustria...


Quella che sostiene la firma di intese a tre o quella che prova a ripartire dai luoghi di lavoro?

Posso raccontarti ciò che mi piacerebbe ci fosse. Qualcosa che metta da parte la brutta teoria delle due sinistre. Mi piacerebbe una sinistra che sappia essere radicale e riformista, che dia valore all'unità sindacale, che capisca l'importanza della coesione sociale. Fuori da questo ci sarebbe marginalità o subalternità. E i lavoratori perderebbero.


E quindi? Cosa ti aspetti?
Lama, citando "Via col vento" all'indomani della rottura dell'84, diceva: "Domani è un altro giorno". Aspettiamolo, aspettiamo che si pronuncino i lavoratori.

di STEFANO BOCCONETTI da Liberazione del 13 settembre 2007