Nella discussione di questi giorni si possono scoprire sorprendenti vuoti di memoria, che rischiano di provocare pericolosi momenti di schizofrenia politica ed istituzionale. Vale forse la pena di ricordarne qualcuno nella speranza, non so quanto fondata, che se ne possa tenere conto nelle future discussioni.
Il primo caso riguarda la natura stessa del nascituro Partito democratico, almeno nella versione variamente prospettata da Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Entrambi sembrano convenire sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria; svincolato da paralizzanti accordi di coalizione come quelli che hanno portato alla nascita dell´attuale Unione, aperto ad alleanze di "conio" più o meno nuovo. Una volta enunciati questi propositi, bisogna tuttavia affrontare alcune altre, e decisive, questioni, che non possono essere ignorate o rinviate a quando il Partito democratico avrà definito la sua identità. Questa dipenderà proprio dal modo in cui il nuovo partito si collocherà nel sistema politico.
Il Partito democratico non può coltivare la proclamata vocazione maggioritaria in una sorta di orgoglioso isolamento. Non è un istituto di ricerca, dove si svolgono analisi e si elaborano programmi senza doversi preoccupare delle reazioni politiche e sociali. Ogni mossa qualifica il partito e ne definisce i rapporti con gli altri. Poiché non si può scambiare vocazione maggioritaria con autosufficienza elettorale, ogni dichiarazione o iniziativa finisce con il prefigurare o condizionare le future, indispensabili alleanze. Di queste si afferma la necessaria "omogeneità". Una affermazione, questa, che contiene una critica alle alleanze attuali e può portare ad una significativa conseguenza politica. Se la costruzione del nuovo partito si manifesterà anche come costruzione di una nuova omogeneità, sarà inevitabile una tensione sempre più marcata tra Partito democratico e coalizione di governo.
Molte forze agiscono in questa direzione, sottolineando con intensità crescente che la disomogeneità sarebbe determinata solo dalla presenza nella coalizione della sinistra "radicale" sì che, liberi da questa, le alleanze in altre direzioni, dunque verso il centro, produrrebbero una sorta di "naturale"omogeneità. In questo gioco di azioni e reazioni si collocano gli atteggiamenti della sinistra dell´Unione, che non possono essere liquidati come irresponsabili, a meno di non adottare il teorema di Tecoppa, secondo il quale l´avversario non dovrebbe muoversi e farsi tranquillamente infilzare.
La questione delle alleanze e della coalizione si fa ancora più stringente se si considera l´eventualità che, falliti i tentativi di una riforma elettorale in sede parlamentare e approvati i quesiti referendari, si vada a votare con una legge che assegna un cospicuo premio di maggioranza al partito o alla coalizione che abbia comunque avuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui si tratti di un partito del 30% o anche meno. Sono consapevoli, i referendari, che questa vicenda è destinata ad influire pesantemente sul futuro del Partito democratico, obbligandolo ad accelerare la definizione di una coalizione in grado di raggiungere la maggioranza? Sembra un tema di domani, e invece riguarda l´oggi, se non altro perché le risposte influiranno sull´atteggiamento delle varie anime del Partito democratico sul referendum. E questo significa indicare con precisione le riforme da fare e, soprattutto, con chi farle.
Proprio qui, intorno al riformismo, si può cogliere un secondo vuoto di memoria. Nei modi più diversi, e persino sgangherati, si cerca di riannodare un filo riformista che sarebbe stato trascurato, o addirittura troncato per l´incapacità o la prava volontà di chi non seppe cogliere l´attimo fuggente degli anni Ottanta, che qualcuno oggi mitizza come una sorta di Età dell´Oro di un riformismo perduto. Ha fatto bene Eugenio Scalfari a ricordare di quale pasta fosse fatto quel decennio, che quasi dovrebbe esser preso a modello, nel quale il debito pubblico balzò, tra il 1982 e il 1992, dal 57 al 120 per cento del Pil. Oggi, infatti, nella pur legittima ricerca di un passato nel quale riconoscersi, viene da molti adottata una memoria selettiva, che volutamente ignora come la vera eredità del proclamato riformismo di quegli anni fu la cancellazione della legalità, la disinvoltura nella spesa pubblica, lo sperpero del capitale sociale, la fine del senso civico, l´abbandono di qualsiasi moralità pubblica e privata. Questo non avvenne nel silenzio. Ed è quindi più stupefacente il silenzio di oggi, che dà corpo al rifiuto di confrontare proclamazioni e fatti concreti, velando così anche il fatto che proprio allora furono poste le basi di quella rincorsa ai privilegi che alimenta oggi l´antipolitica e che non fu appannaggio del solo ceto politico. E cominciò allora una regressione culturale dalla quale non siamo ancora usciti. Basta guardare al modo in cui si sta svolgendo la discussione sulla sicurezza, ormai ridotta ad una brutale questione di ordine pubblico, mentre sarebbero necessarie analisi approfondite proprio per individuare le strategie più efficaci, dunque una alleanza con le discipline sociali che in questi anni sono state tutt´altro che avare di indicazioni concrete.
Queste letture del passato indeboliscono anche le promesse di un riformismo che si affida quasi esclusivamente alla logica di mercato, perdendo così di vista che ogni riforma economica oggi non può essere separata dalla necessità di ricostruire legalità, legami sociali, relazioni di fiducia, rapporti di solidarietà, senso civico, moralità pubblica, dunque un tessuto connettivo mancando il quale ogni riforma, isolata o "lenzuolata" che sia, è destinata se non a fallire, a produrre esiti modesti o persino contraddittori. Il rimpianto per Bruno Trentin, in me grandissimo, ci obbliga a ricordare il rigore con il quale analizzò, per i lavoratori, il passaggio "da sfruttati a produttori". Un ammonimento da tenere in gran conto oggi che la qualità di produttore viene riconosciuta al solo imprenditore, dando corpo ad una frattura sociale destinata a produrre nuovi conflitti, che hanno radici nell´esclusione e nella mortificazione.
Si può cogliere qui un altro vuoto di memoria. Parlando dei sessant´anni di indipendenza dell´India, Amartya Sen non si è fermato al suo travolgente successo economico, ma si è chiesto se questo non sia stato pagato con una eccessiva perdita dei valori di apertura e di solidarietà che avevano non solo connotato la politica indiana al suo interno, ma le avevano attribuito forza e prestigio nei rapporti internazionali. Nel costruire l´agenda della nostra politica interna si sta correndo lo stesso rischio. Il "discorso sui valori" è poco più che retorica o scappellate di maniera. Manca una riflessione rinnovata sui principi costituzionali, è assente una visione prospettica di libertà e diritti. In questo vuoto prospera la tesi di chi dice che una serie di questioni non sono né di destra, né di sinistra: un alibi perfetto per chi, per debolezza politica e culturale, non si accorge o non vuole accorgersi che la destra sta di nuovo imponendo l´agenda politica, come accadde tra il 2000 e il 2001, anni che prepararono la sconfitta elettorale del centrosinistra.
Le stesse proclamazioni sui temi "eticamente sensibili" descrivono piuttosto una situazione del Partito democratico ora ambigua, ora inquietante, con rimozioni e vuoti di memoria, incapacità di riflettere sul senso laico dell´agire pubblico. Tornano qui, come problemi irrisolti, la vocazione maggioritaria e l´omogeneità del nuovo soggetto politico. E se, guardando appena più a fondo, scoprissimo che, su questo terreno, l´omogeneità interna del Partito democratico appare davvero minima e che, invece, vi è una consonanza tra parti consistenti del partito nascente e l´aborrita sinistra radicale?
di STEFANO RODOTA' da la Repubblica del 10 settembre 2007
Il primo caso riguarda la natura stessa del nascituro Partito democratico, almeno nella versione variamente prospettata da Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Entrambi sembrano convenire sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria; svincolato da paralizzanti accordi di coalizione come quelli che hanno portato alla nascita dell´attuale Unione, aperto ad alleanze di "conio" più o meno nuovo. Una volta enunciati questi propositi, bisogna tuttavia affrontare alcune altre, e decisive, questioni, che non possono essere ignorate o rinviate a quando il Partito democratico avrà definito la sua identità. Questa dipenderà proprio dal modo in cui il nuovo partito si collocherà nel sistema politico.
Il Partito democratico non può coltivare la proclamata vocazione maggioritaria in una sorta di orgoglioso isolamento. Non è un istituto di ricerca, dove si svolgono analisi e si elaborano programmi senza doversi preoccupare delle reazioni politiche e sociali. Ogni mossa qualifica il partito e ne definisce i rapporti con gli altri. Poiché non si può scambiare vocazione maggioritaria con autosufficienza elettorale, ogni dichiarazione o iniziativa finisce con il prefigurare o condizionare le future, indispensabili alleanze. Di queste si afferma la necessaria "omogeneità". Una affermazione, questa, che contiene una critica alle alleanze attuali e può portare ad una significativa conseguenza politica. Se la costruzione del nuovo partito si manifesterà anche come costruzione di una nuova omogeneità, sarà inevitabile una tensione sempre più marcata tra Partito democratico e coalizione di governo.
Molte forze agiscono in questa direzione, sottolineando con intensità crescente che la disomogeneità sarebbe determinata solo dalla presenza nella coalizione della sinistra "radicale" sì che, liberi da questa, le alleanze in altre direzioni, dunque verso il centro, produrrebbero una sorta di "naturale"omogeneità. In questo gioco di azioni e reazioni si collocano gli atteggiamenti della sinistra dell´Unione, che non possono essere liquidati come irresponsabili, a meno di non adottare il teorema di Tecoppa, secondo il quale l´avversario non dovrebbe muoversi e farsi tranquillamente infilzare.
La questione delle alleanze e della coalizione si fa ancora più stringente se si considera l´eventualità che, falliti i tentativi di una riforma elettorale in sede parlamentare e approvati i quesiti referendari, si vada a votare con una legge che assegna un cospicuo premio di maggioranza al partito o alla coalizione che abbia comunque avuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui si tratti di un partito del 30% o anche meno. Sono consapevoli, i referendari, che questa vicenda è destinata ad influire pesantemente sul futuro del Partito democratico, obbligandolo ad accelerare la definizione di una coalizione in grado di raggiungere la maggioranza? Sembra un tema di domani, e invece riguarda l´oggi, se non altro perché le risposte influiranno sull´atteggiamento delle varie anime del Partito democratico sul referendum. E questo significa indicare con precisione le riforme da fare e, soprattutto, con chi farle.
Proprio qui, intorno al riformismo, si può cogliere un secondo vuoto di memoria. Nei modi più diversi, e persino sgangherati, si cerca di riannodare un filo riformista che sarebbe stato trascurato, o addirittura troncato per l´incapacità o la prava volontà di chi non seppe cogliere l´attimo fuggente degli anni Ottanta, che qualcuno oggi mitizza come una sorta di Età dell´Oro di un riformismo perduto. Ha fatto bene Eugenio Scalfari a ricordare di quale pasta fosse fatto quel decennio, che quasi dovrebbe esser preso a modello, nel quale il debito pubblico balzò, tra il 1982 e il 1992, dal 57 al 120 per cento del Pil. Oggi, infatti, nella pur legittima ricerca di un passato nel quale riconoscersi, viene da molti adottata una memoria selettiva, che volutamente ignora come la vera eredità del proclamato riformismo di quegli anni fu la cancellazione della legalità, la disinvoltura nella spesa pubblica, lo sperpero del capitale sociale, la fine del senso civico, l´abbandono di qualsiasi moralità pubblica e privata. Questo non avvenne nel silenzio. Ed è quindi più stupefacente il silenzio di oggi, che dà corpo al rifiuto di confrontare proclamazioni e fatti concreti, velando così anche il fatto che proprio allora furono poste le basi di quella rincorsa ai privilegi che alimenta oggi l´antipolitica e che non fu appannaggio del solo ceto politico. E cominciò allora una regressione culturale dalla quale non siamo ancora usciti. Basta guardare al modo in cui si sta svolgendo la discussione sulla sicurezza, ormai ridotta ad una brutale questione di ordine pubblico, mentre sarebbero necessarie analisi approfondite proprio per individuare le strategie più efficaci, dunque una alleanza con le discipline sociali che in questi anni sono state tutt´altro che avare di indicazioni concrete.
Queste letture del passato indeboliscono anche le promesse di un riformismo che si affida quasi esclusivamente alla logica di mercato, perdendo così di vista che ogni riforma economica oggi non può essere separata dalla necessità di ricostruire legalità, legami sociali, relazioni di fiducia, rapporti di solidarietà, senso civico, moralità pubblica, dunque un tessuto connettivo mancando il quale ogni riforma, isolata o "lenzuolata" che sia, è destinata se non a fallire, a produrre esiti modesti o persino contraddittori. Il rimpianto per Bruno Trentin, in me grandissimo, ci obbliga a ricordare il rigore con il quale analizzò, per i lavoratori, il passaggio "da sfruttati a produttori". Un ammonimento da tenere in gran conto oggi che la qualità di produttore viene riconosciuta al solo imprenditore, dando corpo ad una frattura sociale destinata a produrre nuovi conflitti, che hanno radici nell´esclusione e nella mortificazione.
Si può cogliere qui un altro vuoto di memoria. Parlando dei sessant´anni di indipendenza dell´India, Amartya Sen non si è fermato al suo travolgente successo economico, ma si è chiesto se questo non sia stato pagato con una eccessiva perdita dei valori di apertura e di solidarietà che avevano non solo connotato la politica indiana al suo interno, ma le avevano attribuito forza e prestigio nei rapporti internazionali. Nel costruire l´agenda della nostra politica interna si sta correndo lo stesso rischio. Il "discorso sui valori" è poco più che retorica o scappellate di maniera. Manca una riflessione rinnovata sui principi costituzionali, è assente una visione prospettica di libertà e diritti. In questo vuoto prospera la tesi di chi dice che una serie di questioni non sono né di destra, né di sinistra: un alibi perfetto per chi, per debolezza politica e culturale, non si accorge o non vuole accorgersi che la destra sta di nuovo imponendo l´agenda politica, come accadde tra il 2000 e il 2001, anni che prepararono la sconfitta elettorale del centrosinistra.
Le stesse proclamazioni sui temi "eticamente sensibili" descrivono piuttosto una situazione del Partito democratico ora ambigua, ora inquietante, con rimozioni e vuoti di memoria, incapacità di riflettere sul senso laico dell´agire pubblico. Tornano qui, come problemi irrisolti, la vocazione maggioritaria e l´omogeneità del nuovo soggetto politico. E se, guardando appena più a fondo, scoprissimo che, su questo terreno, l´omogeneità interna del Partito democratico appare davvero minima e che, invece, vi è una consonanza tra parti consistenti del partito nascente e l´aborrita sinistra radicale?
di STEFANO RODOTA' da la Repubblica del 10 settembre 2007
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