Mentre - come ogni settembre - milioni di ragazzi e di insegnanti stanno per farvi ritorno, e si annuncia qualche assennato intervento sui programmi, si può provare a parlare per una volta della nostra scuola non come di un grande corpo in disfacimento, ma come di un laboratorio tuttora attivo e vitale, in cui valga ancora la pena di immettere idee, progetti, energie?
Vorrei cercare di farlo, ritornando in modo diretto su quella che mi sembra sempre di più la questione delle questioni, il vero nodo intorno al quale si è ingarbugliato per oltre mezzo secolo ogni discorso e ogni pratica di riforma dell'educazione italiana. Mi riferisco al rapporto tra funzione sociale generale dell'istituzione scolastica, e compito specifico di individuazione precoce dei migliori e di valorizzazione secondo il merito e le vocazioni delle giovani intelligenze che imparando si aprono sul mondo.
Una tradizione molto radicata nel nostro paese ha ritenuto a lungo che la missione principale di una scuola pubblica degna di questo nome non dovesse consistere nella trasmissione più intensa e creativa possibile del sapere da una generazione all'altra, ma in qualcosa di profondamente diverso. E cioè nel rafforzamento comunitario (nello spazio chiuso e uniforme dell'aula) dei legami sociali mediante una diffusione omogenea delle conoscenze - anche se a bassa intensità - e nell'affermazione di un generale principio di solidarietà e di eguaglianza tra i gruppi e le classi, esibito attraverso le tappe di un processo educativo che considerava l'inclusione paritaria e totale degli allievi come suo unico e definitivo obiettivo.
Vorrei cercare di farlo, ritornando in modo diretto su quella che mi sembra sempre di più la questione delle questioni, il vero nodo intorno al quale si è ingarbugliato per oltre mezzo secolo ogni discorso e ogni pratica di riforma dell'educazione italiana. Mi riferisco al rapporto tra funzione sociale generale dell'istituzione scolastica, e compito specifico di individuazione precoce dei migliori e di valorizzazione secondo il merito e le vocazioni delle giovani intelligenze che imparando si aprono sul mondo.
Una tradizione molto radicata nel nostro paese ha ritenuto a lungo che la missione principale di una scuola pubblica degna di questo nome non dovesse consistere nella trasmissione più intensa e creativa possibile del sapere da una generazione all'altra, ma in qualcosa di profondamente diverso. E cioè nel rafforzamento comunitario (nello spazio chiuso e uniforme dell'aula) dei legami sociali mediante una diffusione omogenea delle conoscenze - anche se a bassa intensità - e nell'affermazione di un generale principio di solidarietà e di eguaglianza tra i gruppi e le classi, esibito attraverso le tappe di un processo educativo che considerava l'inclusione paritaria e totale degli allievi come suo unico e definitivo obiettivo.
Questa concezione ha alimentato molto pensiero sia cattolico, sia comunista; è arrivata dai padri costituenti fino a don Milani, ed è stata un importante motore della democrazia e dell'ideologia italiane, esaltata ma non inventata dal '68, che avrebbe saputo poi combinarla con una nuova e potente spinta antiautoritaria e modernizzante.
Se non teniamo presente tali origini e storia, e la sua capacità iniziale di interpretare un'esigenza sentita da una parte importante della coscienza del paese - voglio dire il bisogno autentico di coniugare scuola e democrazia in una società che le aveva sempre tenute lontane - non saremo mai in grado di comprendere il significato e i motivi della deriva e della vera e propria degenerazione che questa idea ha subito a partire dagli anni settanta. Un'involuzione di cui siamo in molti a portare la responsabilità, e che ha trasformato quell'ispirazione e quella pratica di eguaglianza nel soffocante appiattimento conformista e senz'anima, nella sindacalizzazione grottesca - ridicola se non avesse conseguenze tragiche - di ogni rapporto educativo, nell'ostilità preconcetta verso ogni valutazione, ogni giudizio e ogni distinzione, che abbiamo tutti ormai da troppo tempo sotto gli occhi, e che hanno rovesciato quella che era stata concepita come una conquista per i più deboli, in una trappola micidiale proprio e soprattutto per i giovani socialmente più fragili e indifesi, che credono di imparare, e si ritrovano senza pensieri, senza metodo, senza parole - senza niente di niente se non un'inservibile poltiglia.
Oggi, la conservazione e l'accrescimento del patrimonio intellettuale del paese, la piena e precoce valorizzazione dei suoi giovani talenti, è la condizione indispensabile non dico per ogni sviluppo economico, ma per il mantenimento stesso delle nostre libertà. Nelle società "postdemocratiche" di massa non è più la democrazia che deve penetrare nella scuola, ma è la scuola a garantire la vita stessa e il perpetuarsi della democrazia, che ha bisogno, per mantenersi, di saperi che circolano, di diversità culturali, di conoscenze, di senso critico diffuso, di competitività intellettuale. E ha bisogno perciò di una scuola in piedi, con una spina dorsale, con insegnanti che riscoprano il gusto (e i vantaggi) dell'autoformazione, della valutazione (per se stessi e per i loro studenti) e della carriera. Una scuola giusta ed equa, ma che non abbia paura di insegnare ai giovani che apprendere costa fatica - spesso autentica sofferenza - e comporta disciplina, misura, severità, riconoscimento del merito. Questo non significa un'istituzione incapace di accogliere e integrare, o che debba oscurare il significato e il valore dell'eguaglianza: al contrario, la multietnicità con cui dobbiamo misurarci si nutre di eguaglianza, e credo fermamente che don Milani abbia ancora qualcosa da dire ai figli dei nostri immigrati che per la prima volta entrano in un'aula italiana. Ma un don Milani, per così dire, consapevole del tempo che è passato, e ben convinto che predisporre gli strumenti e le occasioni per valorizzare e dare coscienza di sé a una bambina particolarmente dotata, non vuol dire discriminare le sue compagne, ma offrire a tutti un'opportunità in più di potersi specchiare in chi è più veloce e più avanti.
Abbiamo una scuola a rischio, ma non ancora irrimediabilmente compromessa: per molte regioni, e grazie a molti piccoli e silenziosi miracoli quotidiani. Intorno a lei il paese è molto cresciuto in questi decenni, anche dal punto di vista culturale, nonostante quel che solitamente si ritiene; e le ragazze e i ragazzi che oggi hanno tra i dieci e i venti anni rappresentano per noi tutti una risorsa straordinaria. Non gettiamola al vento.
In queste settimane sta nascendo un nuovo partito - potrebbe venire al mondo in modo migliore, ma accontentiamoci. Sarebbe bello, se avesse il coraggio di fare subito della scuola una grande questione nazionale, che dico, "la" grande questione nazionale, e avesse la forza di presentarsi così: come il partito della nuova scuola. Veltroni, Rutelli, i dirigenti che stanno per essere eletti dicano una parola, assumano un impegno. Li apprezzeremo molto.
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