martedì 18 settembre 2007

Giordano: «La sinistra rischia il declino. Se la politica non affronta i problemi reali esploderà»

«Dobbiamo fare in fretta sia sulla mobilitazione sia sulla costruzione di un soggetto politico unitario altrimenti rischiamo il declino della sinistra in Italia». Incontriamo Franco Giordano nel suo studio a via del Policlinico, mentre prepara la relazione per la direzione di Rifondazione prevista oggi, un testo tutto centrato sulla «crisi italiana» e sulla necessità di aggregare la sinistra pena la sua scomparsa.

Giordano, iniziamo dal 20 ottobre. E' un appuntamento all'altezza dell'attuale crisi politica?
La manifestazione è decisiva per almeno due motivi: è il collante di un popolo che riconosce il proprio legame e può evitare che le singole vertenzialità dei movimenti, le tante critiche all'ordine esistente, restino isolate e non incidano sulle scelte di governo. Il 20 ottobre è questo, una risposta critica e positiva al degrado della politica. Le chiacchiere sui ministri, o se è una manifestazione contro il governo sono solo sciocchezze.
In tanti, a partire da Marco Revelli, hanno però criticato proprio la voracità dei partiti, una «politica cannibale» che ha sequestrato anche il 20 ottobre.
Vorrei tranquillizzare Revelli: le sue preoccupazioni sono le nostre. Rifondazione aderisce a questa manifestazione perché il suo impianto è chiarissimo: è esattamente la ripresa di parola e la ricostruzione di un legame con tutte le esperienze di lotta che possono rinnovare l'identità politica e culturale delle sinistre in Italia. Anch'io ho un sogno, una sinistra pacifista, antiliberista, ambientalista, femminista e laica. Al Pd invece dico che manifestare è nella tradizione migliore della sinistra democratica e cattolica di questo paese.

Ma mescolare il terreno del governo, che giocoforza è quello della mediazione, con le richieste di una piazza non ha generato un cortocircuito che penalizza entrambi?
Il processo di ricostruzione della sinistra è indipendente dal governo, può certamente incidere sulle sue scelte ma non c'è una gerarchia. Guardiamo i processi di fondo. Viviamo una crisi sociale e democratica profonda. La crisi della politica, che abbiamo denunciato da tempo, è oggi evidente. Una delle sue cause è il processo di «americanizzazione» della partecipazione. Il Pd è totalmente dentro questo processo e si dà proprio in virtù di un modello di società passiva. Questa passività genera o indifferenza o una ribellione scomposta. E' questo il vero cortocircuito. Se la politica non serve a cambiare la vita perché occuparsene? E' meglio criticarne, spesso non a torto, i suoi aspetti degradanti o la sua dimensione patologica di «casta».

Come è potuto accadere?
Perché la politica è diventata una pura ancella del mercato. Non è un caso che intervenga solo sugli ultimi, i precari, i senzacasa, i lavavetri. E' una politica muta sui poteri forti e pericolosa per i deboli. La pulsione securitaria delle ultime settimane nasce anche da qui. Il Pd non ha un'idea di società alternativa e finisce per schiacciarsi solo e unicamente sul governo. Senza una chiara idea di fondo può però capitare che le risposte del governo siano le più diverse se non opposte, come si è visto sulla giustizia, sul fisco e sul welfare. Tutte, comunque, interscambiabili con la cultura delle destre. La prova? Il giovane Letta ha superato a destra perfino Rutelli: apprezza Tremonti, ripropone il nucleare e critica la conferenza sul clima in nome del diritto dell'impresa. Ci accusano di voler far tornare Berlusconi ma come si fa a non vedere che la destabilizzazione nella maggioranza nasce con l'avvio della discussione sul Pd? Chi è che vuole continuamente accantonare il programma, che prospetta alleanze diverse, che rompe il mandato elettorale? Partiamo invece da problemi concreti: molte famiglie sono indebitate per la metà del loro reddito, i salari italiani crescono in termini reali meno che nel resto d'Europa, esplodono l'immigrazione interna e il pendolarismo. Solo nell'ultimo anno sono emigrati 270mila giovani del sud, spesso diplomati o laureati: non accadeva dagli anni '60. Se la politica non affronta questo rischia di esplodere.

Anche in questa legislatura ci sono state tante manifestazioni. Penso a quella di novembre contro la precarietà o a Vicenza. Sono state manifestazioni chiare, positive e partecipate ma non è cambiato nulla. Perché il 20 ottobre dovrebbe andare diversamente?
Questo è un passaggio decisivo. Stavolta questa forma di protagonismo sociale si accompagna con la costruzione di una soggettività politica unitaria. E' chiaro che anche se sono due cose distinte questi processi insieme possono dare un cambiamento nelle scelte del governo e una vera centralità alle richieste di una sinistra ampia e plurale.

Nonostante il desiderio di unità, però, la manifestazione del 20 nasce con la sfiducia della Cgil.
Non voglio enfatizzare le divisioni a sinistra ma sono io che chiedo autonomia da tutta la dialettica interna al sindacato. Quella dialettica rischia di paralizzare la manifestazione. Quando abbiamo condiviso la posizione della Fiom non l'abbiamo fatto contro la Cgil o una parte di essa ma perché sollevava un tema su cui tutta la politica deve interrogarsi: la solitudine della classe operaia.

A che condizioni secondo te il 20 ottobre sarà un successo?
Quella manifestazione pone alcune domande concrete al governo ma parla innanzitutto alla società italiana. Sono sicuro che sarà grandissima. Sarà un successo tanto più sarà plurale, se riuscirà a mettere in connessione tra loro, valorizzandole, tante esperienze reali, vere. Se farà questo riuscirà, e sarà un evento con cui tutti dovremo fare i conti.

La manifestazione ha una piattaforma piuttosto precisa: pace, diritti civili, lotta al precariato, legalità. Se quelle istanze non vengono recepite voi, voi partito, che fate?
Stavolta mi pare che il problema dell'efficacia si è posto su binari corretti. Nelle prossime ore Rifondazione e le altre forze di sinistra presenteranno a Prodi un documento politico diciamo così, preventivo, che chiede collegialità e una costruzione unitaria delle politiche economiche e sociali. Le nostre centralità sono in sintonia con la manifestazione del 20 e su quel documento saremo determinatissimi. E' un testo molto chiaro, che propone un'idea di sviluppo diversa da quella tutta fondata sull'abbassamento di tutele e salari per ottenere una competitività di prezzo. Noi vogliamo proiettare l'Italia verso tutele adeguate, dare vita a una nuova redistribuzione e puntare sull'innovazione formativa e produttiva in senso ecologico. Nulla di estremistico, sono richieste alla base delle buone politiche europee.

Insieme a Fabio Mussi hai rilanciato gli «stati generali della sinistra». Come si realizzeranno?
Alla sinistra serve soprattutto una svolta culturale. Rifondazione è pronta da tempo, anzi invoca, l'unità e vi parteciperà anche come Sinistra europea. Attualmente si discute di un livello federativo ma la nostra bussola è la partecipazione democratica. Gli stati generali non devono servire a declinare un linguaggio comune perché quello c'è già. Deve essere una giornata aperta a tutti, di massa, in cui anche le comunità siano protagoniste attive, penso all'esperienza No Tav, a Scanzano, a Vicenza. Deve emergere un soggetto caldo, partecipato, frutto di esperienze reali. Guai a costruire un soggetto politico solo per via istituzionale, non scalfiremo mai i rapporti di forza nella società. Con la nascita del Pd si apre una sfida strategica. Per noi il governo è un mezzo: ci puoi stare oppure no. Spero che in futuro si costruiscano le condizioni per una collaborazione tra il Pd e una sinistra plurale e unitaria. Però non si dà a priori.

L'unità a sinistra a partire dalle amministrative prelude a un abbandono del vostro simbolo?
Lo discuteremo con gli altri. Per noi il processo unitario deve tenere insieme soggetti politici, singoli e associazioni riconoscendo l'autonomia di tutti e costruendo una cultura nuova. Il simbolo seguirà.

di MATTEO BARTOCCI da il Manifesto del 18 settembre 2007

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