mercoledì 9 maggio 2007

La riscoperta del socialismo

Le parole, si sa, spesso durano più delle cose che indicano. E hanno molte vite: sembrano polverose e annerite – ridotte come fossili inerti – ma poi, all´improvviso, tornano (e non si sa per quanto) a riempirsi di luce. Sta accadendo con "socialismo", che adesso tutti riscoprono (dopo una lunga stagione diciamo non proprio fortunata), e fanno a gara per esporre, in un modo o nell´altro, ben visibile sulle proprie bandiere: da Fassino (che si impegna con appassionata solennità a non perderne in alcun modo la memoria), a Boselli (che vuole invece ricongiungere a quel nome il suo partito), per non dire di Mussi e di Angius, che idealmente vi dedicano una dolorosa separazione, fino a Bertinotti, a Diliberto.
E´ utile questo ritorno? A me pare, francamente, di sì, se sappiamo distinguere emozioni e concetti; idee e stati del cuore.
"Socialismo" è una parola che viene da un mondo scomparso. Perduto definitivamente, e che non riapparirà mai più. Ci riporta ai tratti di fondo della rivoluzione industriale; alla morfologia elementare della lotta di classe come motore della modernità; alla natura proteiforme, analiticamente sfuggente ma storicamente schiacciante, dello sfruttamento capitalistico lungo tutto l´arco dell´ascesa e del consolidamento borghese; alla contraddizione fra il carattere sociale della produzione nel sistema di fabbrica meccanizzato e il controllo privato dei suoi fattori e delle sue condizioni (la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, nel pensiero degli antichi maestri).
Oggi, di tutto questo non resta più nulla, o quasi, almeno nella nostra parte del mondo. Non la fabbrica meccanica come modello produttivo totale; non le strutture di classe; non il lavoro operaio (o comunque salariato) in quanto produttore della parte dominante della ricchezza sociale. Quasi due secoli di lotte – spesso condotte proprio in nome del socialismo – non meno di una sconvolgente rivoluzione tecnologica, hanno mutato radicalmente lo scenario intorno a noi. E il cambiamento ha travolto anche il fondamento concettuale (e politico) della variante "socialdemocratica" classica, che si fondava sulle stesse premesse materiali – base operaia e grandi industrie – solo prefigurando strategie correttive e rimedi diversi. Craxi e dopo di lui Blair, ciascuno a suo modo, lo avevano del resto capito benissimo e precocemente.
Se dunque, quando diciamo "socialismo", vogliamo riferirci a un´interpretazione trasformatrice della realtà, a un quadro di obiettivi politici definito, o a un´ipotesi concreta di configurazione sociale prospettabile per il nostro avvenire, quel nome non ha letteralmente più senso. Designa solo il vecchio futuro di un passato che ha preso un´altra direzione. Ma il punto è che quella parola non vuol dire solo questo. Due secoli di storia le hanno anche consegnato e radicato un valore evocativo del tutto diverso, e sganciato ormai completamente dal suo autentico e originario contenuto conoscitivo e programmatico. L´hanno tramutata, cioè, da paradigma a metafora, almeno per la coscienza europea.
Ne hanno fatto per antonomasia la metafora della lotta per l´eguaglianza, l´espressione moderna di un´aspirazione antichissima, che ha attraversato e dato forma alla storia dell´Occidente. Ebbene, se richiamarsi al socialismo vuol dire tenere aperto, qui e ora, l´orizzonte dell´eguaglianza, credo proprio che si faccia bene a non smarrirne la traccia, nel momento in cui un intero universo di significati e di esperienze sta sparendo sotto i nostri occhi, e l´intera organizzazione politica della sinistra sta prendendo faticosamente atto, finalmente anche in Italia, che un lungo e tormentato capitolo della sua storia si è chiuso per sempre. No, quel punto di riferimento non va cancellato. La rivoluzione in cui stiamo entrando – la terza rivoluzione tecnologica nella storia umana, dopo quella agricola e quella industriale – farà precipitare su di noi problemi e alternative che non potranno essere affrontati se non riproponendo con convinzione e con forza un´identità egualitaria dell´universalità umana come fine ultimo della nuova forma del mondo.
Ma di quale eguaglianza stiamo parlando?
Dobbiamo, oggi, saper liberare questa idea dalla catastrofe della sua versione comunista – un tragico sogno del mondo industriale, con dentro il fumo delle ciminiere e il sapore del carbone e del ferro – staccandola dal mito della socializzazione dei produttori, dalla falsa immagine di un´economia rovesciata rispetto a quella capitalistica, che potesse miracolosamente generare diffuse condizioni di parità in modo spontaneo e definitivo (il vecchio chiodo di Marx).
Bisogna spostare insomma l´asse dell´eguaglianza dall´economia alla morale: verso un´etica generale della specie e un´ipotesi di soggettività e di cittadinanza capaci di elaborare figure di equità non seriali, non ripetitive, mai divenute e sempre in atto, costruite come doveri della ragione morale e non come necessità dell´ordine economico. E immaginarvi intorno uno stile di socialità mite, dove la solidarietà e l´equilibrio comunitari mitighino la dismisura, la sproporzione e l´asprezza della competizione fra gli individui e fra i gruppi.
Come mantenere aperta questa prospettiva per tutta la specie, e non solo per quella sua parte privilegiata dallo sviluppo degli ultimi secoli, sarà la sfida cui dovremo dare una risposta, e sarà il discrimine fra chi guarda al nuovo come un´occasione di emancipazione e di riscatto, e chi lo vede invece solo come un´opportunità di profitto. Stare fra i primi, forse, vuol dire ancora dirsi socialisti.

di ALDO SCHIAVONE da la Repubblica del 09-05-07

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