domenica 27 maggio 2007

Non mi iscriverò al Partito democratico. Peggio della Dc, niente laicità e tanta nomenclatura.

Caro direttore, che paradosso! Ho sognato per anni la formazione di un Partito democratico, e giusto fino a ieri ho partecipato attivamente a convegni, pubblicazioni, proposte orientate a questa finalità. Invece adesso, quando il momento parrebbe finalmente giunto, ho deciso con enorme sofferenza che a questo partito io non mi iscriverò, e anzi abiuro e rinnego tutte le «belle parole» spese finora. Le ragioni sono molte, e tutte, mi auguro, seriamente motivate.
La prima è che il futuro partito si mostra come la somma di nomenclature già esistenti. Per carità, non ho mai immaginato né desiderato che chi fa politica attiva debba oggi essere licenziato. Ho sperato, tuttavia, che l'ingresso in un nuovo organismo — che dovrà pur fondarsi su idee anch'esse nuove, altrimenti perché lo si fa? — spingesse tutti a rimettersi in gioco, a farsi votare da assemblee costituenti locali, per poi salire su su fino ai massimi livelli nazionali. Qui no: tutto è «rappresentanza», «quota», «visibilità», cioè proprio quei caratteri che hanno reso la politica così antipatica alla stragrande maggioranza dei cittadini. Addirittura, questo partito nasce con le sue correnti già precostituite e dotate di percentuali. Fra l'altro, con la conseguenza che, per rispettarle, le sue strutture saranno per forza mastodontiche, e la politica costerà sempre di più. Altro che svolta verso nuove forme di partecipazione!
La seconda ragione è che il futuro partito — se nuovo — dovrebbe aver già esplicitato le sue scelte e disegnato le sue innovazioni. Quanto meno: qualcuno dovrebbe averne già elaborato un loro schema ideale, in modo da far capire con chiarezza la sua missione, spingere gli aderenti a crederci e magari persino a entusiasmarsi. Mi sarei atteso insomma che poche persone competenti e autorevoli redigessero un manifesto politico e una carta costituente, e la sottoponessero poi al giudizio delle segreterie dei partiti, dei movimenti, delle assemblee degli eletti fino a giungere a una piattaforma di contenuti condivisi. Non l'invocazione astratta contenuta nel Manifesto dei Dieci di qualche tempo fa, ma una vera proposta costituente. Qui no: il comitato dei 45 «fondatori» non contiene di sicuro (perché non ne ha lo scopo) molte persone in grado di leggere e scrivere un progetto di filosofia politica, né molte in grado di strutturare un sistema di regole di partecipazione. Essendo tutti «rappresentanti», potranno al massimo pilotare il traghettamento dagli organismi a cui appartenevano a quelli che li ingloberanno in futuro. Altro che apertura verso nuove maniere di conquistare il consenso della collettività!
Il terzo motivo è che manca la precondizione necessaria per la nascita di un partito democratico, e cioè una solenne dichiarazione di laicità. «Democrazia» e «laicità» sono infatti due sinonimi, persino nell'etimologia: vengono da due parole greche, dèmos e làos, che significano entrambe «popolo», e intendono che il potere di prendere decisioni che riguardano tutti spetti a coloro che vengono eletti da quei tutti, sulla base di valori di libertà universalmente accettati. Se invece alcuni principi derivano da credenze «esterne» — come nelle religioni, che impongono una morale derivante dal loro Dio o dalle loro chiese — ebbene la democrazia non c'è più, c'è una libertà condizionata. Così, mentre democrazia e laicità garantiscono la vita stessa di tutte le religioni, le religioni finiscono per fare esattamente l'opposto. Ebbene, il nuovo partito nasce privo di una chiara espressione di questo spirito. È per natura una Democrazia cristiana con altro nome, anzi con un pensiero teocratico nascosto che quel partito non possedeva in questa proporzione. Il che non fa presagire niente di buono per resistere all'offensiva ideologica di papa Ratzinger in questo momento in atto. Altro che partito kennediano, il cui presidente cattolico affermava che in politica obbediva per prima cosa alla Costituzione!
Resta davvero assai poco da fare, insomma, per chi creda nella cosiddetta «democrazia partecipata». Rimane soltanto il principio di stare rigorosamente fuori da qualunque organizzazione politica, ed esercitare le armi — ahimè un po' spuntate e talora assai altezzose — della critica più severa, soprattutto la critica a coloro che dovrebbero esprimere concetti e sentimenti nei quali in teoria mi identifico, e che invece ne producono l'amaro fallimento. Oppure, per non essere definiti «qualunquisti», applicare alla lettera l'antica osservazione di Carlo Marx: «La rivoluzione non c'è stata, bisogna ancora leggere molto». Ma, in questo Paese così televisivo, ci rimarrà almeno quest'ultima difesa?

di OMAR CALABRESE dal Corriere della Sera del 27/05/07

1 commento:

Unknown ha detto...

Per completezza.

Mussi: «Calabrese ora la pensa come me»

Lui lo aveva previsto e ci tiene a ricordarlo. Il dissidente Fabio Mussi, ministro per l'Università e la Ricerca, che al congresso di Firenze ha lasciato i Ds in contrasto con la decisione di sciogliere la Quercia nel Partito democratico, ora si sfrega le mani soddisfatto: «Avevo già detto a Calabrese che sarebbe finita così». È il commento alla lettera aperta di Omar Calabrese sul Corriere della Sera di ieri, in cui il semiologo fiorentino ha spiegato che non solo non si iscriverà al Partito democratico, ma «anzi abiuro e rinnego — ha scritto — tutte le "belle parole" spese finora» perché è come la Dc, anzi peggio: «non c'è laicità ma tanta nomenclatura».
Parole dure, che Fabio Mussi ha commentato ponendo a Calabrese anche degli interrogativi: «Lui era entusiasta dell'Ulivo — ha ricordato — e ha continuato ad esserlo quando l'Ulivo si andava impoverendo.
Adesso vedo che è arrivato alle mie stesse conclusioni, e me ne rallegro; ma il problema, la domanda che bisogna porsi è: che fare? Io mi sono posto questo problema».

dal Corriere della Sera del 28/05/07