giovedì 17 maggio 2007

Intervista con Giovanni Berlinguer: il partito da costruire dopo l'Assemblea dell'Eur

La bella assemblea dei «resistenti» alla deriva del cosiddetto «partito democratico», quella del 5 maggio al Palazzo dei Congressi dell'Eur., mi ha molto colpito e incoraggiato. Per questo cerco incontri per vedere che cosa si può fare insieme in questa difficile stagione della politica. Riesco ad afferrare Giovanni Berlinguer, che all'Eur ha fatto un bel discorso e che è un antico amico. Di una amicizia senza eccessi di confidenza: una amicizia tra comunisti, uno sardo e l'altro siciliano - due isole. Vado a incontrarlo a casa sua. Una casa austera: un po' di quadri neorealisti e tutte le pareti coperte di libri. Comincio io, un po' tumultuoso.
All'Eur hai parlato di «energia aggregante», ma se non aggrega presto l'energia si disperde, e poi che si fa? Non ti rendi conto che bisogna reagire in fretta? Che c'è una «privatizzazione» della politica che aiuta il populismo di destra? Che se volete dar forza alle speranze dell'Eur dovete indicare obiettivi caratterizzanti, forme di organizzazione, una rilettura di un nostro passato che è stato rimosso se non condannato. Insomma si può andare oltre l'assemblea del 5 maggio?
Si deve andare oltre. E' vitale, nel senso politico e anche biologico, rispondere alle sfide di oggi e, innanzitutto, rivalutare la nobiltà della politica. Quel che tu dici sulla privatizzazione della politica, personale o di gruppo, è il fenomeno più devastante di questo tempo, in Italia e altrove, ma in Italia molto più accentuato Non è un caso che in questi ultimi mesi siano apparsi ben quattro libri su questo tema: I costi della politica di Villone e Salvi, La casta di Rizzo e Stella, Élite e classi dirigenti di Carboni e poi La democrazia che non c'è di Ginzborg. Ho letto ieri su Le Monde un articolo di Henry Weber, uno dei segretari del partito socialista francese, che dice: «tutti i partiti sono costituiti da eletti circondati da aspiranti a essere eletti». In Italia c'è anche una corsa a posti di comando non elettivi, e quindi più sicuri. Il fenomeno è diffuso in tutte le democrazie e sconfina spesso verso l'illegalità e il codice penale. Non combattere seriamente questa deriva mette a rischio serio la democrazia.
Forse eccedo, ma in questa situazione vedo, non per domani ma tra un po', un serio pericolo di destra. Ci sono analogie tra il presente e il periodo successivo alla prima guerra mondiale. Non penso a Mussolini, ma a qualcosa di fortemente oppressivo.
Non mi convince il tuo paragone con i primi anni Venti, ma la regressione può essere più profonda. Introiettata, condivisa e perfino benedetta. Difficile da combattere.
Certo non vengono le camicie nere e neppure le camicie verdi, ma qualcosa di più moderno, più profondo e forse più duraturo.
Giustissimo. E tutto questo si collega molto strettamente al monopolio dell'informazione, alla selezione delle notizie nelle quali predominano i delitti e i fatti di cronaca nera.
Penso a Rignano.
E' un piccolo episodio che evidenzia la fragilità dell'informazione, i limiti della magistratura e anche della coesistenza tra cittadini.
C'è uno stravolgimento della gerarchia delle notizie: spesso le aperture dei quotidiani sono demenziali. Una privatizzazione dell'informazione, più profonda delle liti con Mediaset e Berlusconi.
D'accordo. C'è una selezione dell'informazione che genera paura col messaggio: «il nemico è tra noi». E la tv, con le solite facce dei dirigenti politici che dicono le solite cose, contribuisce al rigetto della politica.
Al Palazzo dei congressi c'è stato un appassionato no a questa deriva, ma se l'appassionato no non va oltre un generico «vogliamo il meglio» restiamo allo stesso punto. Ci vorrebbero proposte chiare e distinte, come dicono i francesi.
La premessa è che anche il nostro comportamento deve cambiare radicalmente. Se cadiamo nelle stesse logiche spartitorie degli altri, rischiamo di crollare nelle prime settimane. Il punto è che prima di «parlare alla gente» dobbiamo «ascoltare le persone». Si deve cominciare con una grande campagna di ascolto, dialogo e proposta.
Il vecchio Pci ascoltava la gente, con la sua organizzazione territoriale. Ma adesso chi ascolta? Come si ascolta, quando la stampa e la televisione sono come sono e i partiti non ci sono? E poi come la metti con la crisi delle ideologie, cioè delle grandi speranze, che investe anche il mondo cattolico?
Io penso che oggi il punto di partenza non siano i sogni, ma gli incubi, che dobbiamo allontanare con le nostre scelte fondamentali. Ci sono grandi tragedie che si stanno consumando. La prima è lo sconvolgimento della natura, che tende a deteriorare quelle condizioni originali e irripetibili che hanno consentito la crescita della nostra specie. Il capitalismo selvaggio degli ultimi decenni ha accelerato questo degrado degli spazi vitali soprattutto per chi non è ricco, non può comperarsi la casa al mare, avere i condizionatori d'aria e farsi un clima «ad personam». Questa crisi sta portando in primo piano la questione fondamentale dei «beni comuni»: l'aria, l'acqua, le foreste, il clima, il sapere, la salute. Su questa base sta nascendo un movimento importante e promettente, soprattutto di giovani, che va promosso e sostenuto da chi vuole rinnovare la politica. Questa lotta per la vita travalica le attuali distinzioni, anche fra destra e sinistra.
Ma il problema dei beni comuni può essere la base, come dire, di una rifondazione comunista?
Sicuramente.
Da giovani pensavamo alla socializzazione dei mezzi di produzione. Ora la crescita capitalistica mette in primo piano il carattere sociale dei beni fondamentali?
Queste idee erano presenti nelle antiche origini del comunismo. La politica dei beni comuni è una base straordinaria per la lotta per l'eguaglianza. A partire dalla fine dei '70 c'è stata una crescita esponenziale delle diseguaglianze in tutti i campi. Dal reddito alla libertà al sapere.
Dopo la seconda guerra mondiale c'era stata una crescita dell'eguaglianza nel sapere. Ora la diseguaglianza è drammatica, anche per lo sfascio della scuola di massa.
E' vero anche per altri campi. Nei decenni successivi alla seconda guerra c'è stata, per esempio, maggiore equità nel campo della salute. C'è stato un allungamento della vita media in tutto il mondo, ma negli ultimi trenta anni le differenze di qualità e durata della vita sono diventate sempre più accentuate, anche perchè si è fatto di tutto per demolire il criterio dell'universalità nell'accesso alle cure. Il problema delle diseguaglianze pone l'urgenza di una trasformazione di questa società, non certo della conquista di un'altra società, come qualcuno si ostina a dire.
Non capisco. Quando eravamo comunisti e parlavamo di un'altra società non pensavamo a una società calata dal cielo, ma a una profonda, rivoluzionaria, trasformazione della società capitalistica.
Ma la pensavamo anche in termini violenti, come conquista del Palazzo d'Inverno. Il cambiamento non è nominalistico. Oggi il rifiuto della violenza è un dato acquisito.
Ma nella società la violenza è ben presente.
Ma non è detto che a una violenza si debba rispondere con un'altra violenza, a un'oppressione con un'altra oppressione.
Ma anche nel vecchio Pci l'idea della conquista del Palazzo d'inverno era stata messa in cantina e c'era il rifiuto della violenza. Quando sento Bertinotti affermare come novità il rifiuto della violenza, mi sembra un passo indietro.
C'è ancora chi la violenza l'ammette e la pratica. Sia pure frange. I problemi centrali e attuali sono l'ambiente e la diseguaglianza; oggi la lotta per la vita e quella per l'equità coincidono. La natura ce lo ha insegnato: lo Tsunami colpisce i deboli.
Ma, torno all'Assemblea dell'Eur: tutto questo non dovrebbe portare alla definizione di un programma e alla costituzione di una forza politica, di un partito?
Certamente.
E in che cosa questo partito sarà diverso dagli altri? Certo sono evidenti, al primo posto, i problemi dell'ambiente e della diseguaglianza, ma come volete affrontarli nella lotta politica di questi tempi?
Per passi successivi, ma rapidi. Bisogna dar vita a un'aggregazione larga, laica, plurale, ecologica, che lotti per le idee della sinistra. E che abbia soprattutto una base diffusa di organizzazioni, associazioni, centri di iniziativa, e sappia utilizzare i mezzi di comunicazione. Penso, oltre ai giornali e alle riviste, all'informazione elettronica e ai siti on-line. C'è per esempio un mensile (Zai Net, «zainetto e network») di giovani che comunica con 30.000 scuole.
Insomma invece che una commissione di massa, come nel Pci, una commissione di ascolto?
Non una commissione, ma un habitus di tutti, dirigenti in testa. Ascolto e dialogo, confronto e proposta.
E i tempi di questo processo?
Ci stiamo già attrezzando per dare continuità alla «sinistra democratica per il socialismo europeo». Con la manifestazione del 5 si è trasmesso un notevole entusiasmo e i 4-5 mila che erano all'Eur sono già al lavoro.
«Il manifesto», per la sua storia, dovrebbe diventare quantomeno un luogo di questo dibattito e di questa costruzione.
Ne sarei più che lieto, perché l'esistenza di strumenti di informazione e di cultura politica è fondamentale.
Fate riferimento al socialismo europeo. Che però a sua volta non versa in ottime acque.
Infatti, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Il fatto è che 10-12 anni fa tredici paesi su quindici avevano governi socialisti o di centrosinistra; e adesso, sui 27 Commissari dell'Unione europea che rappresentano i vari governi, solo 7 sono socialisti. Inoltre due paesi modello, come la Svezia e la Finlandia, adesso hanno governi di centro-destra. Qualcosa non funziona e bisogna innovare profondamente, come hanno fatto sia Zapatero che Ségoléne Royal.
Sarkozi non è Chirac.
Certamente. E' più pericoloso.
E' un po' gollista e colbertiano. Molto statalista francese.
Ma è anche xenofobia, lotta alle banlieues, condanna della racaille. Comunque, la cosa più grave che ha detto Sarkozi è che la Francia deve difendersi dalla globalizzazione.
Ma la globalizzazione può diventare la colonizzazione dei deboli.
Bisogna evitarlo, ma non si può ignorare che la globalizzazione è il modo di vita del XXI secolo e - come avrebbe detto Togliatti - un terreno più avanzato di lotta. In tanti casi, ha creato condizioni migliori per diversi paesi: penso all'America latina, ma soprattutto alla Cina e all'India e anche ad alcuni paesi dell'Africa. E' stata l'apertura delle frontiere, e con tutti i suoi limiti il libero mercato. Molti squilibri, è vero, sono stati anche aggravati, e molte nazioni sono state spinte alla rovina; si deve sottolineare che il mercato e la scienza non creano naturalmente benessere. Ma la globalizzazione è il campo nel quale si deve combattere. E' terreno obbligato, e pertanto le idee politiche non possono più avere una dimensione solo nazionale.
La conversazione prosegue. Parliamo dell'internazionalizzazione comunista che, in qualche modo, anticipava la globalizzazione. Berlinguer è piuttosto critico, io di meno. Poi parliamo anche della radiazione del gruppo del «manifesto» e facciamo un ragionamento con il se: se il Pci, allora avesse accettato la posizione di quel gruppo, forse i danni del crollo del Muro sulla sinistra italiana sarebbero stati minori. Berlinguer consente. Poi quando ci salutiamo mi regala un suo libro, I duplicanti. Guardo l'introduzione e leggo le prime righe: «La politica è passione civile o male ereditario, nella mia famiglia, da tre generazioni, ed è stata sempre vissuta all'opposizione: nonno repubblicano, padre antifascista, figli comunisti. Anche chi fra di noi è divenuto totus politicus non ha mai pensato di entrare a far parte di un ceto particolare: altri erano gli scopi, diverse le situazioni. Da una decina d'anni, però, ho cominciato a sospettare e poi a constatare che questo ceto - stavo per dire casta - di cui avevo sempre contestato l'esistenza è una realtà; che esso ha una irrefrenabile tendenza moltiplicativa invasiva e pervasiva; e che io stesso, in qualche misura, vi appartengo».

di VALENTINO PARLATO da il Manifesto del 17/05/07

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