Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all'Università di Torino, è uno degli osservatori più attenti della realtà politica italiana. La persona giusta insomma alla quale chiedere un parere autorevole sui cambiamenti in corso all'interno del centro-sinistra. Dalla prossima scomparsa dei Ds e della Margherita, con la conseguente nascita del Partito democratico, al tentativo di mettere assieme tutte quelle forze che non partecipano appunto all'iniziativa di Fassino e Rutelli, dalla sinistra Ds a Rifondazione.
Professor De Luna, mi viene in mente in questo momento un libro di Massimo D'Alema uscito dodici anni fa, Un paese normale , che auspicava appunto la trasformazione dell'anomalo sistema politico italiano in uno scenario più europeo, dove appunto da un lato poteva collocarsi la destra e dall'altro, evidentemente, un grande partito socialista o socialdemocratico. Non crede che proprio la nascita del Pd, del quale D'Alema è uno dei fautori, perpetua ad aeternum questa anomalia?
Le perplessità che io ho nei confronti del Partito democratico sono proprio rispetto ad una sorta di tara genetica che vedo nel suo processo d'impianto. Perché ho la sensazione che, orientandosi decisamente verso il centro, finisca obiettivamente per privilegiare chi al centro c'è già. La Margherita e gli altri soggetti dell'ex galassia democristiana, i quali naturalmente e senza nessuna forzatura occupano quella posizione, si trovano così oggettivamente ad essere privilegiati. Tanto da configuare, per gli ex Ds, il rischio di essere dei puri e semplici portatori di voti, rispetto a chi non ha sensi di colpa, a chi non ha un passato da rimproverarsi, a chi non deve prendere nessun tipo di distanza dalle proprie radici. C'è dunque tra i due partner che stanno contraendo questo matrimonio un'oggettiva differenza.
La ricerca dei padri di questa nascente formazione sembra rispecchiare lo scenario che ha appena descritto...
Per quanto mi riguarda, rispetto al mio osservatorio, la costruzione del pantheon va proprio in questa direzione: da un lato c'è chi, naturalmente, vede in De Gasperi il re di questo pantheon, e dall'altro chi si deve affannare a trovare appunto un pantheon all'interno del quale Craxi possa coesistere con Berlinguer.
Tutto questo lascia aperti degli spazi a sinistra. Che cosa pensa del tentativo di aggregazioni delle forze che non condividono l'operazione Pd?
Si configura per la prima volta nella storia d'Italia la possibilità di creare un partito esplicitamente di sinistra che copra un'area vasta di consensi elettorali, stimati intorno al 10-12%. Ma anche questo non è un passaggio né facile né indolore. Perché comunque i soggetti sociali e politici che coprono questa area devono in qualche modo anche loro imparare a far politica in senso diverso e ad intercettare consensi più ampi di quelli tradizionalmente legati alla propria base elettorale.
Tutto il centro-sinistra sta dunque attraversando un momento delicato e denso di incognite...
Il problema non si può configurare come una sorta di viabilità umana al traffico, di posizioni da occupare al centro, di divieto di svolta a sinistra, di sensi unici alternati. Qui c'è un problema di categorie. Io ho l'impressione che la dimensione post-novecentesca faccia molta fatica a filtrare nella realtà della sinistra italiana. Questi ondeggiamenti, queste spaccature, questi conflitti sono la spia di difficoltà che accomunano tutti, da D'Alema a Bertinotti, da Mussi a Diliberto. Va insomma riformulato un progetto che riveda le categorie del '900.
Per esempio?
Mi viene in mente la dimensione delle comunità locali, Serre, la Val di Susa, Vicenza. Queste realtà fanno i conti con una sinistra che ha alle spalle l'idea che la comunità locale appunto era da dissolvere perché ciò che contava era la grande dimensione di classe. Le comunità erano incrostazioni protonazionalistiche, segnate dall'egoismo particolaristico e dallo stretto riflettere i propri interessi specifici contro i grandi interessi collettivi della classe. Adesso passare ad accettare fino in fondo la logica di queste comunità è un salto pazzesco dal punto di vista concettuale e teorico perché nel dna della sinistra è assente il localismo, la comunità locale e ci sono invece i grandi aggregati, le grandi masse, le classi appunto. Da qui sorge la difficoltà di padroneggiare un registro unico di riferimento, oscillante tra l'esaltazione e l'esecrazione. Oppure penso all'emergenza criminalità e ordine pubblico. Anche in questo caso la sinistra non si è mai confrontata nei termini con cui si propone oggi in Italia il problema legato all'immigrazione e alla sicurezza. Sono tutti temi che appunto vanno affrontati marcando una forte discontinuità con le categorie ereditate dal '900. Però ho delle forti perplessità che si possa andare in questa direzione perché temo che tutto venga risolto sul piano delle formule politiche con poco spazio dedicato a questo tipo di rifondazione culturale. L'operazione del Partito democratico non è rassicurante da questo punto di vista proprio perché nasce più all'insegna di sigle politiche che si mettono insieme che sulla base di una progettualità evidente. E così anche la riaggregazione a sinistra è più un'ansia di occupare uno spazio lasciato libero che non una sorta di cambiamento concettuale.
Non crede però che le forze a sinistra del Pd abbiamo le carte più in regola per affrontare una situazione nuova?
Però il passaggio tra l'esecrazione e l'esaltazione è troppo brusco, troppo repentino. Nella tradizione comunista la comunità locale era qualcosa da combattere, rappresentava la resistenza all'industrializzazione. Adesso diventa di colpo qualcosa di positivo. Ma così non funziona, non ce la facciamo. C'è bisogno di qualcosa che in qualche modo recuperi anche la vecchia tradizione che guarda almeno con circospezione a questo tipo di fenomeni, perchè lì dentro precipita la resistenza alla globalizzazione ma anche il piccolo egoismo della comunità locale che comunque è un dato che il '900 ci ha lasciato. E ho l'impressione che in tutta la discussione che si è aperta queste ferite vengano poco tematizzate, privilegiando la realtà degli schieramenti e delle piccole rendite elettorali. Non si può, bisogna avere la forza di dissolvere queste rendite all'interno di un progetto più ampio.
di VITTORIO BONANNI da Liberazione del 19/05/07
Professor De Luna, mi viene in mente in questo momento un libro di Massimo D'Alema uscito dodici anni fa, Un paese normale , che auspicava appunto la trasformazione dell'anomalo sistema politico italiano in uno scenario più europeo, dove appunto da un lato poteva collocarsi la destra e dall'altro, evidentemente, un grande partito socialista o socialdemocratico. Non crede che proprio la nascita del Pd, del quale D'Alema è uno dei fautori, perpetua ad aeternum questa anomalia?
Le perplessità che io ho nei confronti del Partito democratico sono proprio rispetto ad una sorta di tara genetica che vedo nel suo processo d'impianto. Perché ho la sensazione che, orientandosi decisamente verso il centro, finisca obiettivamente per privilegiare chi al centro c'è già. La Margherita e gli altri soggetti dell'ex galassia democristiana, i quali naturalmente e senza nessuna forzatura occupano quella posizione, si trovano così oggettivamente ad essere privilegiati. Tanto da configuare, per gli ex Ds, il rischio di essere dei puri e semplici portatori di voti, rispetto a chi non ha sensi di colpa, a chi non ha un passato da rimproverarsi, a chi non deve prendere nessun tipo di distanza dalle proprie radici. C'è dunque tra i due partner che stanno contraendo questo matrimonio un'oggettiva differenza.
La ricerca dei padri di questa nascente formazione sembra rispecchiare lo scenario che ha appena descritto...
Per quanto mi riguarda, rispetto al mio osservatorio, la costruzione del pantheon va proprio in questa direzione: da un lato c'è chi, naturalmente, vede in De Gasperi il re di questo pantheon, e dall'altro chi si deve affannare a trovare appunto un pantheon all'interno del quale Craxi possa coesistere con Berlinguer.
Tutto questo lascia aperti degli spazi a sinistra. Che cosa pensa del tentativo di aggregazioni delle forze che non condividono l'operazione Pd?
Si configura per la prima volta nella storia d'Italia la possibilità di creare un partito esplicitamente di sinistra che copra un'area vasta di consensi elettorali, stimati intorno al 10-12%. Ma anche questo non è un passaggio né facile né indolore. Perché comunque i soggetti sociali e politici che coprono questa area devono in qualche modo anche loro imparare a far politica in senso diverso e ad intercettare consensi più ampi di quelli tradizionalmente legati alla propria base elettorale.
Tutto il centro-sinistra sta dunque attraversando un momento delicato e denso di incognite...
Il problema non si può configurare come una sorta di viabilità umana al traffico, di posizioni da occupare al centro, di divieto di svolta a sinistra, di sensi unici alternati. Qui c'è un problema di categorie. Io ho l'impressione che la dimensione post-novecentesca faccia molta fatica a filtrare nella realtà della sinistra italiana. Questi ondeggiamenti, queste spaccature, questi conflitti sono la spia di difficoltà che accomunano tutti, da D'Alema a Bertinotti, da Mussi a Diliberto. Va insomma riformulato un progetto che riveda le categorie del '900.
Per esempio?
Mi viene in mente la dimensione delle comunità locali, Serre, la Val di Susa, Vicenza. Queste realtà fanno i conti con una sinistra che ha alle spalle l'idea che la comunità locale appunto era da dissolvere perché ciò che contava era la grande dimensione di classe. Le comunità erano incrostazioni protonazionalistiche, segnate dall'egoismo particolaristico e dallo stretto riflettere i propri interessi specifici contro i grandi interessi collettivi della classe. Adesso passare ad accettare fino in fondo la logica di queste comunità è un salto pazzesco dal punto di vista concettuale e teorico perché nel dna della sinistra è assente il localismo, la comunità locale e ci sono invece i grandi aggregati, le grandi masse, le classi appunto. Da qui sorge la difficoltà di padroneggiare un registro unico di riferimento, oscillante tra l'esaltazione e l'esecrazione. Oppure penso all'emergenza criminalità e ordine pubblico. Anche in questo caso la sinistra non si è mai confrontata nei termini con cui si propone oggi in Italia il problema legato all'immigrazione e alla sicurezza. Sono tutti temi che appunto vanno affrontati marcando una forte discontinuità con le categorie ereditate dal '900. Però ho delle forti perplessità che si possa andare in questa direzione perché temo che tutto venga risolto sul piano delle formule politiche con poco spazio dedicato a questo tipo di rifondazione culturale. L'operazione del Partito democratico non è rassicurante da questo punto di vista proprio perché nasce più all'insegna di sigle politiche che si mettono insieme che sulla base di una progettualità evidente. E così anche la riaggregazione a sinistra è più un'ansia di occupare uno spazio lasciato libero che non una sorta di cambiamento concettuale.
Non crede però che le forze a sinistra del Pd abbiamo le carte più in regola per affrontare una situazione nuova?
Però il passaggio tra l'esecrazione e l'esaltazione è troppo brusco, troppo repentino. Nella tradizione comunista la comunità locale era qualcosa da combattere, rappresentava la resistenza all'industrializzazione. Adesso diventa di colpo qualcosa di positivo. Ma così non funziona, non ce la facciamo. C'è bisogno di qualcosa che in qualche modo recuperi anche la vecchia tradizione che guarda almeno con circospezione a questo tipo di fenomeni, perchè lì dentro precipita la resistenza alla globalizzazione ma anche il piccolo egoismo della comunità locale che comunque è un dato che il '900 ci ha lasciato. E ho l'impressione che in tutta la discussione che si è aperta queste ferite vengano poco tematizzate, privilegiando la realtà degli schieramenti e delle piccole rendite elettorali. Non si può, bisogna avere la forza di dissolvere queste rendite all'interno di un progetto più ampio.
di VITTORIO BONANNI da Liberazione del 19/05/07
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